Coatta antica

Giorgia Meloni ha vinto. Ma per l’ennesima volta: no, non siamo finiti in una timeline sbagliata

Il trionfo largamente previsto di Fratelli d’Italia a queste elezioni politiche, che farà di Giorgia Meloni la prima premier donna della storia d’Italia, ha generato reazioni di panico nella coscienza liberale progressista. Si ripete ancora una volta – stavolta su scala nazionale – il dramma già andato in scena la mattina dopo l’elezione di Trump nel 2016, dopo il referendum sulla Brexit, e innumerevoli altre volte negli ultimi anni: panico, si salvi chi può, annunci di imminente espatrio, invettive generazionali (cito un tweet virale in questi giorni: “ho fatto due anni di lockdown per salvare i vecchi, e ora loro voteranno la Meloni”), fosche previsioni sulla fine della democrazia. L’impressione è, come ho scritto in Interregno: Iconografie del XXI secolo, di vivere in una linea temporale sbagliata. Una ripetizione, bisogna dirlo, che ogni volta è un po’ più stucchevole e meno convinta, visto che in ciascuna delle occasioni precedenti le fosche previsioni non si sono poi realizzate. 

A scatenare tali reazioni scomposte è quello che in queste ore è il pensiero intrusivo della coscienza liberalprogressista: “hanno vinto i fascisti, torna il fascismo”. È un pensiero alimentato ad arte dal cosiddetto centrosinistra (che lo usa in modo strumentale e ne ha fatto ormai da anni la sua unica strategia politica) ma che trova terreno fertile perché ha un fondo di verità: nelle liste di Fratelli d’Italia ci sono effettivamente fascisti, il simbolo del partito contiene davvero la fiamma tricolore, Giorgia Meloni ammira davvero Mussolini, come del resto ci ha ricordato un vecchio video tirato fuori dai media durante questa campagna elettorale. E poi, è un refrain che ben si adatta alle lenti ideologiche con cui la coscienza collettiva interpreta la realtà dal 1989 ad oggi.

Allo stesso tempo – proprio perché da due decenni è il perno della strategia politica del centrosinistra – è un pensiero ormai logoro, più e più volte smentito dai fatti. Fascismo sarebbe il governo Meloni, ma fascismo doveva essere anche il governo giallo-verde con Salvini ministro dell’Interno e, ancora prima, fascismo era Silvio Berlusconi (poi diventato un simpatico nonnino e anzi per un periodo considerato il garante della moderazione della sua coalizione, quello che mette la parola “centro” in “centrodestra”). Davvero il prossimo Duce è la stessa persona che negli anni Novanta si vedeva definire coatta antica in una canzone a lei dedicata da una band neofascista? 

È vero che la seconda volta la storia si ripete come farsa, ma forse stiamo esagerando. Forse la situazione è un po’ più complessa di così.

O con noi o contro di noi

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il crollo del socialismo come ideologia universalista alternativa, il liberalismo è diventato il sistema di valori egemone a livello globale e il senso comune di tutto l’Occidente. E poiché com’è noto la Storia la scrivono i vincitori, il liberalismo vincitore ha riscritto la Storia – sia la sua, sia quella dei nemici sconfitti. Tra queste riscritture c’è anche quella di che cos’è il fascismo. 

La teoria secondo cui il fascismo storico era il figlio degenere del capitalismo liberale in crisi che, sfuggito al controllo dei suoi creatori, ha minacciato la loro stessa esistenza costringendoli ad allearsi con i loro nemici giurati (i socialisti) per rimettere il genio nella lampada, era il senso comune dell’antifascismo del secondo dopoguerra. Dopo il 1989 questa teoria è stata rimpiazzata dalla teoria del totalitarismo, che ha ripulito il liberalismo dalle sue responsabilità nell’ascesa del fascismo, imputandola indirettamente al nemico sconfitto, il socialismo. Fascismo e socialismo sarebbero così due mostri gemelli collettivisti accomunati dall’odio per la libertà individuale. Lo scopo di questa riscrittura era molteplice: assolvere il liberalismo e farlo tornare puro; delimitare i confini di ciò che è ideologicamente lecito; assimilare liberalismo e democrazia. 

Dopo aver sconfitto il suo ultimo rivale sistemico, il liberalismo è andato a occupare tutto lo spazio politico possibile. Nel mentre si celebrava come difensore dell’integrità di quello spazio politico e demonizzava ogni alternativa espellendola dallo stesso. Domenica, aprendo la scheda elettorale, abbiamo avuto sotto gli occhi l’esito pratico di questo processo: la competizione elettorale ridotta a una lotta tra partiti che sono tutti espressione di diverse correnti interne al liberalismo – le cui differenze sono differenze di interpretazione, di tono, di cultura, ma non di fondamenti. Alla base c’è una semplice formula: democrazia liberale = democrazia, ergo liberalismo = democrazia.

Per le forze che si rifacevano a tradizioni politiche non liberali – le forze socialiste e comuniste, ma anche le forze fasciste come quella dalla cui tradizione deriva Giorgia Meloni – l’unica strategia di sopravvivenza è stata quella di adattarsi e sottoscrivere questa formula. Cacciati dalla porta in quanto nemici antiliberali, sono rientrati dalla finestra come aderenti o perlomeno subalterni a questa o quella corrente del liberalismo, il loro precedente posizionamento antiliberale ridotto a una maschera identitaria, una mano di vernice che serve a distinguersi dagli altri e a dare il contentino a elettori e militanti vetero- ancora legati al passato. È così a sinistra, è così per Giorgia Meloni.

Un regresso all’infanzia

In questo modo il liberalismo è riuscito nel duplice intento di sottomettere i suoi nemici ideologici condannandoli all’irrilevanza e di santificare se stesso, proiettando su di loro quella che in realtà era la sua parte oscura. È un equilibrio che regge ancora – basta vedere la retorica sempre più diffusa che vorrebbe l’Occidente democratico (cioè liberale, cioè buono) impegnato in una crociata contro i regimi autoritari (cioè non liberali, cioè cattivi).

Proprio questa crociata ci spinge verso il punto centrale della questione. La crociata esiste perché esiste una minaccia. La contrapposizione tra democrazia e autoritarismo non è che la copertura ideologica che viene costruita intorno a quella minaccia, sulla base del dogma degli ultimi trent’anni, ossia la formula democrazia liberale = democrazia = liberalismo. Ma la natura della minaccia non è ideologica, è materiale: è la Grande Convergenza, ovvero il processo che ha trasformato il mondo ex coloniale da una fonte di materie prime e merci a basso costo per l’Occidente in un suo competitor sul mercato mondiale. 

Il fascismo era il figlio degenere del capitalismo liberale, la Grande Convergenza è la figlia degenere della globalizzazione neoliberale. Quel processo che nelle intenzioni dell’Occidente doveva servire a riaffermare il suo dominio globale, ha finito invece per minarlo quando alcuni stati della periferia – Cina in primis – hanno deciso che non gli andava più bene di rimanere confinati nella posizione di produttori di merci a basso costo per i mercati del centro e hanno cominciato a cercare attivamente di risalire la catena globale del valore. Riuscendoci: un tempo parlavamo di cinesate associando alla Cina la produzione di ammennicoli di plastica, oggi compriamo smartphone Huawei, Oppo, Xiaomi. Gli schiavi delle colonie sono diventati competitor.

Più competizione vuol dire meno margini. La fetta di torta destinata all’Occidente si è ristretta e l’Occidente ha cominciato a percepire realmente il venir meno della sua preminenza economica, tecnologica e culturale sul resto del mondo. A collassare non è solo l’ordine post-1989 ma un equilibrio che durava dall’età del colonialismo, mentre un altro 20% della popolazione mondiale si avvicina agli standard di vita e di consumo della minoranza privilegiata occidentale e il capitalismo non è più in grado di strutturare tale cambiamento macroscopico. 

La conseguenza nella sfera politica è che il liberalismo, ormai egemone assoluto, regredisce alla sua infanzia. Cito da Wikipedia: “in psicologia, la regressione è un meccanismo di difesa inerente all’organizzazione libidica, che consiste nel ritorno a uno stadio precedente dello sviluppo o dell’Io, in risposta a una frustrazione della soddisfazione libidica. Questo meccanismo comporta il ritorno ad un funzionamento o ad uno stato psichico più obsoleto, a modalità difensive primitive o il ritorno ai primi oggetti relazionali. Il ritorno a una precedente modalità di funzionamento è vissuto come rassicurante nei confronti dell’angoscia creata da difficoltà o conflitti attuali”.

Già solo la lettura di questa definizione spiega piuttosto bene quello che sta avvenendo. La “frustrazione della soddisfazione libidica”, per esempio, è una definizione perfetta di come se la passa l’Occidente (e in particolare i suoi ceti medi) dopo la fine dell’età dell’oro degli anni Novanta e Duemila con la Grande crisi. La fine della Storia è stato un periodo di libido, di de-politicizzazione, ritiro nel privato e nel consumo, che la crisi ha frustrato. In risposta a questa frustrazione, come meccanismo di difesa, ecco il ritorno “a una precedente modalità di funzionamento”, “a modalità difensive primitive”. Difensive da cosa? Dalla pretesa del mondo ex coloniale di partecipare alla nostra festa di consumo. 

Questa chiave interpretativa spiega tutta l’evoluzione dell’estrema destra occidentale contemporanea. Spiega Anders Breivik e i suoi epigoni, che per primi hanno percepito la necessità di passare a “modalità difensive primitive” contro “l’invasione”, la “grande sostituzione” e tutte le altre fantasie dietro cui si nascondono la Grande Convergenza l’ascesa del mondo ex coloniale, e che – come scrivevo sempre su queste pagine – sono sempre stati ben consapevoli del loro ruolo di avanguardie, subendo del resto un progressivo processo di cooptazione che li ha fatti passare da dei pazzi isolati a dei possibili redattori dei programmi dei partiti di destra mainstream. Spiega la normalizzazione del battaglione Azov, che solo pochi anni fa era considerato neonazista (i suoi contenuti venivano bannati dai social network in quanto “organizzazione pericolosa” al pari dello Stato Islamico) e che è oggi parte dell’esercito ucraino, in prima linea in quella che è ormai apertamente una guerra che oppone l’Occidente alla Russia. 

Coatta antica

E qual è la precedente modalità di funzionamento del sistema internazionale, precedente alla Grande Convergenza, cioè alla seconda fase della decolonizzazione? La risposta è: il colonialismo. Il mondo extraoccidentale va nuovamente riportato in posizione subalterna rispetto all’Occidente, stavolta col pretesto ideologico della lotta tra democrazia e autoritarismo – etichetta che mostra tutta la sua strumentalità se pensiamo al fatto che viene applicata non ai sistemi politici non liberali in toto, ma ai sistemi politici non liberali che rifiutano la subalternità all’Occidente (a rischio di generare occasionali cortocircuiti: non compriamo il gas dall’illiberale Russia che invade l’Ucraina, lo compriamo dall’illiberale Azerbaijan che invade l’Armenia).

Giorgia Meloni sarà anche fascista a livello soggettivo, ma il fascismo storico non sta tornando. L’egemonia del liberalismo è più solida che mai, dato che le sue alternative sistemiche, dopo essere state sconfitte, non sono state in grado di riprendersi e anzi si sono sottomesse e sono state integrate nell’ordine liberale in posizione subalterna – ed è proprio da lì che viene Giorgia Meloni. Sarà anche coatta, insomma, ma si è ripulita. 

Piuttosto, Giorgia Meloni è antica. Oggi non c’è da bastonare operai che occupano le fabbriche, ma da affrontare l’aumento della concorrenza sul mercato mondiale, perché a scricchiolare non è l’egemonia del liberalismo in Occidente ma il dominio dell’Occidente sul mondo. Non siamo dunque nel 1920 ma in pieno Ottocento – e Giorgia Meloni è antica, ottocentesca.

I rapporti di forza interni sono più che favorevoli – l’inesistenza di qualsiasi partito in grado di rappresentare i lavoratori alle ultime elezioni politiche ne è una chiara indicazione – e non c’è bisogno di scomodare il fascismo. Ma questi rapporti di forza favorevoli sono una magra consolazione di fronte a rapporti di forza internazionali in costante peggioramento, che sono ciò che preoccupa l’Occidente e ciò su cui si vuole andare ad agire. Chi sia a farlo è indifferente; Trump con i dazi alla Cina o Biden con le sanzioni alla Russia e le armi all’Ucraina, Draghi o Meloni. Non c’è nessun mostro antiliberale che emerge dal seno del liberalismo. C’è semmai il liberalismo stesso che regredisce a quando era un mostro, prima che il movimento dei lavoratori lo costringesse ad assumere fattezze umane.

Giorgia Meloni non è fascista, è l’espressione di uno stadio evolutivo dell’Occidente liberale, che torna alle origini. Anche in questo caso non viviamo in una timeline sbagliata: semmai la timeline si è finalmente corretta. Tutti Giorgia Meloni, tutti Anders Breivik, tutti miliziani del battaglione Azov fino a prova contraria.