La storia che lega l’essere umano alle mappe è lunga e diversificata. Se ne ritrovano tracce fin dal Paleolitico e sui muri delle grotte di Lascaux dove sono stati osservati dei puntini dipinti databili al 16.500 a.C., una rappresentazione del cielo notturno in cui si possono riconoscere Vega, Deneb e Altair (il cosiddetto triangolo estivo), nonché le Pleiadi. Curiosamente le prime mappe conosciute non erano dedicate alla terra ma all’esplorazione dei cieli notturni; una vocazione alla conoscenza, questa, che sembra andare al di là del desiderio di territorializzazione che ha mosso tanta produzione cartografica dei secoli successivi.
Una delle mie antiche mappe preferite è il disco di Nebra, un disco di bronzo intarsiato con lamine in oro e risalente al XVIII o XVII secolo a.C. su cui sono rappresentate la luna piena, la luna calante e di nuovo le Pleiadi. Non ci è dato sapere che tipo di utilità avesse questo oggetto, se fosse un ornamento, un oggetto magico-rituale, un oggetto didattico o altro; quel che appare evidente è che gli elementi che lo compongono non sono casuali, ma sono il frutto di osservazioni astronomiche approfondite. Questa antichissima vocazione alla produzione di mappe e cartografie oggi sembra ancora più essenziale, in un mondo che ha fatto di modelli e confini l’oggetto della propria definizione e che tende invece a spostare continuamente individui, oggetti e risorse.
Tutto questo è alimentato da un’ulteriore ambiguità di fondo: lo stesso concetto di spazio è oggi in crisi, la rete ha annullato ogni possibile distanza proiettandosi nel mondo globale. Nel frammento Del rigore della scienza, contenuto all’interno della raccolta Storia universale dell’infamia (pubblicato per la prima volta nel 1935 e poi riveduto e corretto nel 1954), Jorge Luis Borges racconta dell’ambizione di un imperatore di costruire una mappa talmente dettagliata del proprio regno da richiedere una scala 1:1 per la sua rappresentazione:
«[…] In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all’Inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche».
Con questo racconto Borges ci invita a riflettere sul ruolo preponderante del linguaggio scientifico come strumento di rappresentazione e sull’ambiguità del suo rapporto con la conoscenza. Come possiamo facilmente evincere dal racconto, una mappa di questo tipo diventa illeggibile e dunque inutile: una volta che smette di essere un simbolo, essa non è più in grado di sottrarsi alla complessità del reale.
In un testo del 1981, Jean Baudrillard parte proprio da questo racconto di Borges per affermare come, con l’avvento dei mass media, simulacri e simbolismi della cultura di massa si siano profondamente radicati nella realtà percepita al punto da divenire indistinguibili. Dall’avvento della computazione in poi e oggi con l’affermarsi di tecnologie avanzate basate sull’intelligenza artificiale ci troviamo costantemente a misurarci con modelli discreti di rappresentazione del dato di fronte ai quali occorre farci delle domande ben precise: quali sono le limitazioni di questi modelli? Come l’architettura tecnologica sostiene questi modelli e i loro limiti? In che modo i modelli coincidono con quello che viene plasmato dalle tecnologie stesse?
Compito degli aspiranti cartografi è la definizione di nuovi spazi e di nuovi percorsi in grado di far luce nell’oscurità computazionale
La linea attuale del progresso tecno-scientifico sembra replicare ed estendere logiche preesistenti di accumulazione e colonialismo, come ci fanno notare Ben Vickers, K Allado-McDowell, curatori del volume Atlas of Anomalous AI: «Il capitalismo ha sempre avuto una dimensione spaziale. È sempre dipeso dalla terra per l’accumulo di ricchezza». Proprio l’intelligenza artificiale, a una lettura approfondita, appare come un territorio dominato da risorse estrattive, cioè i dati; i dati, a loro volta, determinano l’attribuzione dei server, la proprietà dei software e gli algoritmi in grado di elaborarli. Come afferma Matteo Pasquinelli in Atlas of Anomalous AI, «l’architettura dell’AI può essere una black box ma il suo territorio non lo è». Ripartire allora dall’esplorazione di questo territorio è al centro delle pratiche di artisti, attivisti e ricercatori. Vi è una costellazione di ricerche che nascono con l’obiettivo di riscrivere cartografie che abbiano a che fare con la complessità del mondo interconnesso secondo un approccio che potremmo definire forense, ossia volto a ricostruire una fenomenologia a partire dai suoi processi interni.
Ne è un caso interessante il lavoro condotto dall’attivista dei diritti umani María Salguero, che a partire dal 2016 inizia a raccogliere dati, spesso direttamente e recandosi sui luoghi delle cronache, per rintracciare i casi di femminicidio in Messico e colmare così le lacune lasciate dai documenti ufficiali. Per ogni episodio, Salguero inserisce un pin su una mappa, arrivando a raccogliere e classificare informazioni dettagliate su oltre cinquemila casi e andando così nel giro di pochi anni a mostrare l’evidenza di un fenomeno tutt’altro che irrilevante per il Messico.
Le mappe sono uno degli strumenti di indagine principali anche per il gruppo di ricerca multidisciplinare Forensic Architecture, fondato all’interno della Goldsmiths University of London e diretto dall’architetto israeliano Eyal Weizman. Un esempio tra i tanti possibili del lavoro del gruppo è la ricostruzione degli scavi archeologici intrapresi a Gaza dal 1995 al 2005 che rivelano la presenza di strutture di epoca romana ed ellenistica poste a rischio dai bombardamenti israeliani. In collaborazione con giornalisti a Gaza e all’estero, residenti e archeologi, Forensic Architecture ha raccolto, verificato e localizzato centinaia di prove e ha utilizzato tecnologie di modellazione 3D per ricostruire la trasformazione dell’area, in quello che è un esempio pionieristico di applicazione di tecniche di indagine visiva open source a un sito di interesse archeologico. Il presupposto di questo progetto ruota attorno al concetto di gestione del patrimonio culturale come forma di controllo e di esercizio del potere. Come afferma lo stesso Weizman, «privare un popolo della sua cultura equivale a svuotarlo della sostanza stessa che costituisce la spina dorsale del suo diritto all’autodeterminazione». Rendere visibile il dato equivale invece in questo caso a restituire parte di ciò che si è perduto, a sostituire l’evidenza con l’oblio.
Altro caso emblematico di utilizzo dell’approccio forense e cartografico è quello dell’artista statunitense Trevor Paglen, che si definisce geografo sperimentale e che concentra le sue indagini sulla possibilità di tradurre in metafore visive le immagini frutto dello sguardo tecnologico della macchina. Ne è un esempio il progetto Landing Sites, in cui Paglen esamina le infrastrutture materiali di Internet e della sorveglianza di massa, individuando e fotografando i principali luoghi di snodo in cui più cavi sottomarini raggiungono la terra e collegano insieme i continenti. Ogni fotografia di questa serie risponde a due “regole”: in primo luogo, la congiunzione dei cavi internet deve essere all’interno della cornice dell’immagine; in secondo luogo, la linea dell’orizzonte deve esserne il centro. Questo set di regole rende le immagini, accompagnate dalle mappe che mostrano le infrastrutture, ancora più astratte, perché rivelano la distanza tra ciò che normalmente è visibile e le dinamiche invisibili delle stesse architetture di internet. Più tardi, lo stesso artista in Deep Web Dive si immergerà letteralmente nelle profondità sottomarine nel tentativo di toccare con mano tali infrastrutture.
Particolarmente significativa in quest’ambito è l’esperienza dell’artista e ricercatore serbo Vladan Joler che ha fatto della cartografia lo strumento principale di indagine in grado di rivelare le dinamiche complesse dei sistemi di comunicazione digitali. Fondatore del Research & Investigation Share Lab, Joler conduce indagini basate sulla raccolta dati e la produzione di vere e proprie mappe. Nelle scorse settimane, con Calculating Empires: a genealogy of technology and power, 1500-2025, la Fondazione Prada Osservatorio a Milano gli ha dedicato una mostra che raccoglie il lavoro di ricerca condotto negli ultimi sette anni e partito nel 2016 con The Facebook Algorithmic Factory. Il progetto, come nel caso di Paglen, nasce a seguito delle rivelazioni di Snowden ed esplora le dinamiche immateriali alla base del funzionamento delle principali piattaforme di social network, con particolare attenzione ai processi di sfruttamento delle risorse lavorative e all’impiego di strutture di sorveglianza. Attraverso questa analisi, Joler identifica le nuove forme del controllo territoriale che attraversano le reti informatiche.
Secondo lo stesso artista, «la mappa dell’impero algoritmico è simile nel dettaglio ad alcune delle mappe dell’antichità»: proprio come queste ultime, essa si fonda su evidenti asimmetrie di potere. In Anatomy of AI System, Joler collabora con Kate Crawford, tra le maggiori ricercatrici nell’ambito dell’intelligenza artificiale, alla realizzazione di una cartografia che, proprio come un sistema anatomico dettagliato, analizza il processo produttivo alla base della realizzazione di un assistente vocale come Alexa. All’interno di questo complesso sistema, infrastrutture ambientali e umane contribuiscono alla produzione di quello che, rubando una nota definizione di Timothy Morton, potremmo definire un iperoggetto di cui proprio l’oggetto finale, il device, non è che la punta di un iceberg. Secondo Daphne Dragona, autrice della prefazione Black Box Cartography. A critical cartography of the internet and beyond (recentemente edita da Krisis Publishing e che raccoglie tutti i principali progetti visivi e testuali di Joler), Anatomy of AI System spinge la ricerca dell’artista alle sue estreme conseguenze, chiedendosi in particolare: «cosa succede quando un utente è sia una risorsa, che un lavoratore e un produttore allo stesso tempo»?
La stessa domanda riecheggia in New Extractivism, ultima ricerca di Joler, una mappa piuttosto articolata che usa l’espediente dell’allegoria e del simbolismo per esplorare il complesso sistema di estrazione dei dati che, secondo l’artista, è ascrivibile a un nuovo colonialismo planetario. Andando avanti con il percorso cartografico, Joler acquisisce un linguaggio più autonomo, meno analitico e più poetico. Ogni allegoria contribuisce alla realizzazione di una più grande macchina simbolica. Tra le diverse allegorie, una che risulta di chiara evidenza è quella denominata Platocticon, una struttura ispirata alla nota architettura di sorveglianza, il panopticon, che allude al mito della caverna di Platone, dove però, al posto delle ombre dei carcerieri, ci sono le proiezioni dei feed delle nostre piattaforme social. Il Platocticon è il cuore della macchina del capitalismo cognitivo, una struttura articolata in cui l’individuo è al contempo spettatore, produttore di contenuti e oggetto dell’estrazione dei dati. Attraverso la cartografia, Joler, come molti altri artisti, conduce un’indagine materialista volta a dare visibilità all’invisibile, nel tentativo di tradurre in forme e simboli l’evidenza dei dati. Se oggi la conquista dello spazio non è più esclusivo dominio della geografia, compito degli aspiranti cartografi è la definizione di nuovi spazi e di nuovi percorsi in grado di far luce nell’oscurità computazionale.