Buon Halloween a tutti, e chi se ne frega della tradizione

Quale pedigree deve avere una ricorrenza per diventare una «nostra tradizione»? E Halloween è solo un altro inno al consumismo o può diventare occasione di sovvertimento e condivisione?

Quest’anno, la dirigente scolastica della scuola primaria di mio figlio ha comunicato ai genitori che il 31 ottobre, giorno di Halloween, ai bambini non sarà permesso di indossare costumi e maschere a scuola – cosa che invece possono fare liberamente a Carnevale, il Martedì Grasso. La motivazione data è che la festa di Halloween «non appartiene alla nostra tradizione». Questo tipo di obiezione protezionista è apparsa con una certa regolarità sui giornali degli ultimi vent’anni: già nel 1998 Ernesto Galli Della Loggia avvisava i lettori del Corriere della Sera del pericolo presentato da Halloween, festa anglosassone adottata solo per via della vacua esterofilia dei giovani italiani. Messaggio rinforzato in seguito da figure di spicco della gerarchia vaticana come Carlo Maria Martini e Tarcisio Bertone, nonché dall’ ultracattolico storico Franco Cardini, tanto per citarne alcuni. Più recentemente Il Giornale ha addirittura accusato Halloween di essere un pericoloso ritorno di fiamma dell’irrazionale e dello spiritismo, se non proprio una festa di Satana, ammonendo i lettori di guardarsi dalla «banalità del male» che si cela dietro le zucche intagliate.

In tutti questi casi l’argomentazione è sempre espressa con lo stesso vocabolario di stampo reazionario: Halloween non fa parte della nostra tradizione, è una contaminazione culturale, è un tradimento dei nostri valori, ed è una festa consumistica ed esterofila – o addirittura infusa da principi satanici e anticristiani. Halloween è dunque ripetutamente sotto attacco da parte di voci reazionarie, patriottiche, tradizionaliste, e religiose. Ma se al contrario avesse senso difendere Halloween come festività… progressista?

Storia (brevissima) di Halloween

La festività di All Hallow Even (da cui il termine Halloween) è di origini celtiche e da ricercarsi nel Samhain, un festival liminale che celebrava la fine dell’estate, l’ultimo raccolto, l’inizio dell’inverno e l’incombere dell’oscurità del mese di novembre, suggerendo connotazioni sovrannaturali: un periodo dell’anno in cui l’aldilà e l’aldiquà si trovano in stretta prossimità. Questa ricorrenza pagana venne successivamente assimilata nel calendario cristiano e fusa con la festa di Tutti i Santi e la commemorazione dei defunti: una festività dalle origini medievali e da sempre celebrate in tutta Europa, Italia compresa.

Nell’Inghilterra medievale la festa di Hallowtide veniva celebrata – perlopiù in comunità rurali lontane dai centri urbani protestanti – con una notte di divertimento, giochi in società, e dispetti ai vicini antipatici, ma anche come occasione per predire il futuro grazie all’intervento di forze soprannaturali: dal futuro sposo di una ragazza in età da marito al successo del raccolto l’anno successivo. Se già nel XVIII secolo, Halloween (come iniziò ad essere chiamato) divenne sempre più l’occasione per rituali di corteggiamento tra giovani, giochi e bricconate, è con l’esportazione della festa verso gli Stati Uniti nel tardo ‘800, trasportata da emigranti Irlandesi e Scozzesi, che questa venne integrata in un contesto urbano, abbandonando quindi la maggior parte degli aspetti rituali e divinatori propri di una comunità rurale.

Da festività associata a una certa identità etnica e religiosa – quella degli immigrati irlandesi cattolici – Halloween acquistò sempre più popolarità tra tutti gli strati della popolazione. In questo nuovo contesto, Halloween divenne rapidamente una festa celebrata perlopiù dai giovani, e occasione per ogni tipo di scherzo, piccoli atti di vandalismo, e disordine urbano. Come osserva lo storico Nicholas Rogers, all’alba del XX secolo, «l’appeal di Halloween derivava dal fatto che questa continuava ad essere una notte di inversione sociale ed esuberanza giovanile, in un’era in cui le altre festività divennero sempre più incentrate sulla casa, sempre più rispettabili e istituzionalizzate».

Sebbene maschere e travestimenti di vario tipo siano sempre stati parte integrante delle celebrazioni, è solo intorno agli anni Venti che l’estetica di Halloween che conosciamo iniziò a essere codificata: gatti neri, pipistrelli, streghe, e le zucche intagliate ed esposte fuori casa a riprendere l’antica tradizione irlandese di commemorare le anime in purgatorio mettendo candele all’interno di rape svuotate. L’importazione di Halloween in Italia avviene invece molto più recentemente, e tramite il cinema e la televisione più che per via dell’influsso migratorio. Sebbene in Italia esistano da sempre tradizioni molto simili ad Halloween, e con simili origini pagane – ad esempio la festa dei «Fucacoste e Cocce Priatorje« (falò e teste del purgatorio) a Orsara di Puglia, dove da sempre la notte del 1o Novembre vengono esposte zucche intagliate, o la Notte delle Lumere, festa diffusa in tutto il Nord Italia – l’Halloween celebrato oggi in tante città italiane deve più alla festa statunitense che alle tradizioni regionali nostrane.

La realtà dei fatti è che – possiamo concederlo al tradizionalismo dei patrioti – in Italia Halloween si celebra in modo organizzato e su scala nazionale da circa vent’anni a questa parte. Se negli anni Novanta era raro incontrare bambini e ragazzi per strada vestiti da vampiri, mummie, o Jason Voorhees andare chiedere dolciumi ai vicini di casa, oggi Halloween è conosciuto e celebrato con regolarità dai più giovani, nelle grandi città come nei piccoli centri. Questo dato di fatto – che piaccia o meno a cardinali e dirigenti scolastiche italiane – solleva due domande importanti: quali origini e quale pedigree deve avere una ricorrenza per diventare una «nostra tradizione»? E anche: ha senso difendere Halloween, o è solo un’altra ricorrenza posticcia, cinicamente piazzata sul calendario da una società capitalista interessata a incrementare le vendite di maschere e dolciumi nel mese di ottobre?

Appropriazione culturale vs tradizione

La critica all’appropriazione di tradizioni altrui non proviene come sappiamo solamente dalla destra. Al contrario: in ambito anglosassone, il dibattito sulla cultural appropriation riemerge con costernante regolarità, e gli opinionisti di sinistra si interrogano sulla presunta problematicità morale, per bianchi e occidentali, di fare yoga, di usare l’henné per decorarsi le mani (il Mehndi) o di portare i dreadlocks in testa. E però questa insistenza sulla preservazione museale delle identità culturali è non solo – paragonata a quei pressanti problemi di giustizia sociale su larga scala che, una volta, preoccupavano la sinistra – paternalista e dal retrogusto vagamente orientalista, ma rischia di non tenere conto che quella che su una scala temporale di pochi decenni viene additata come «appropriazione», su scala più ampia potrebbe semplicemente chiamarsi «evoluzione»; dall’alba della nostra specie, le comunità culturali assimilano e riutilizzano elementi originari di culture diverse: usanze, rituali religiosi, tecnologie, linguaggi, forme architettoniche, scale musicali, accostamenti culinari… Esistono dinamiche conflittuali e rapporti di forza, certo; ma non tutto è riducibile alle collezioni di Gucci che giocano sullo stereotipo esotista.

Dal punto di vista formale, lo sdegno tutto intra-occidentale per l’esplosione dello yoga negli Stati Uniti è, per quanto ben intenzionato, non troppo diverso da quello espresso su Facebook dagli elettori di Salvini di fronte alla fake news che gli immigrati ci vorrebbero imporre l’uso dei «numeri arabi». Ma per quanta resistenza ci possa essere da parte di un popolo profondamente campanilista come il nostro, è necessario riconoscere che l’ordinamento sociale e le sue tradizioni – di qualsiasi tipo – sono creazioni storiche umane e contingenti e non verità imposte dall’eterno e Ordine delle Cose. E come tali, sono fatte per essere assimilate, ripensate, modificate, e deformate dalla lente di contesti culturali diversi.

Coloro che si oppongono all’inevitabile (e a volte indubitabilmente difficile) processo storico di fusione culturale – che vengano da sinistra e critichino l’«appropriazione culturale» o che vengano da destra e si scaglino contro la «contaminazione» delle nostre patrie usanze – manifestano uno spirito profondamente ignaro dell’evoluzione della cultura umana e di come la normatività (tra cui usanze, leggi, convenzioni linguistiche…) sia un prodotto storico, e non naturale o divino. Quelle che oggi sono feste che «non appartengono alla nostra tradizione», tra qualche secolo saranno probabilmente considerate come beneamate ricorrenze italiane. Non esiste alcun magico momento di genesi di una tradizione nostrana, come se questa nascesse già formata dall’Italico suolo, irrigata dai sacri valori nazionali, e l’antichità di una tradizione non gli conferisce nulla più che una lunga storia.

La difesa della purezza dell’atavica tradizione nazionale è parte della retorica sovranista Blut und Boden tanto cara ai salviniani di oggi, una forma di xenofobia mascherata da preoccupazione per il mantenimento della certificazione DOC di usanze e forme culturali. Il momento in cui una ricorrenza viene adottata e regolarmente celebrata (e con gioia) dai bambini italiani, ipso facto questa diviene una nostra tradizione. Più recente e dalle origini estere, certo. Ma nondimeno «nostra». Ciò non significa rinnegare o abbandonare usanze e tradizioni locali, ma piuttosto essere aperti al continuo rinnovamento e arricchimento storico di una cultura.

Halloween e la comunità

Al di là di questa breve riflessione sulla genesi e riproduzione delle «tradizioni», è possibile difendere l’adozione della festa di Halloween anche su un piano più prettamente socio-politico? Distinguendo la teoria di una ricorrenza dalla sua prassi sociale sappiamo bene come, ad esempio, la giustificazione liturgica del Natale – ricorrenza cristiana creata per celebrare l’ipotetica data di nascita di Gesù di Nazareth – sia eclissata dalla sua prassi sociale imperniata sullo scambio (e l’acquisto) di doni: malgrado tutti sappiano che Natale è una celebrazione di Gesù, l’attività sociale che cattura l’attenzione pratica di adulti e bambini è quella dello scambio di regail. L’icona del Natale – quel Babbo Natale rubizzo e carico di pacchetti la cui estetica venne gradualmente codificata agli inizi del 1900 – incarna la prassi natalizia meglio del bambinello nella mangiatoia. Ma tralasciando le valutazioni di merito riguardo alla deriva consumista del Natale (un altro terreno minato, dove ha luogo un’altra curiosa comunità di intenti tra critici religiosi/tradizionalisti e pensatori anticapitalisti), possiamo comunque osservare come il Natale, nella sua interpretazione migliore – e al di là del suo contenuto religioso o della sua prassi consumista – risulti un’occasione di incontro intergenerazionale, anche se perlopiù all’interno dei nuclei familiari.

Come abbiamo già osservato, Halloween ha quasi del tutto abbandonato i caratteri originanti nella religiosità pagana ed è, oggi, una celebrazione pseudo-catartica dell’orrido, del macabro, e dello spaventoso. Scheletri appesi alle finestre, braccia mozzate che escono dal bagagliaio della macchina, ragnatele e pipistrelli: l’intero repertorio dell’estetica horror maturata perlopiù tramite il medium cinematografico dell’ultimo secolo, e codificata da classici del genere come Halloween di John Carpenter (1979) o il più recente Trick ‘r Treat di Michael Dougherty (2007). Ma è soprattutto dal punto di vista della prassi che Halloween si differenzia dalle altre festività – come ad esempio dal più nostrano Carnevale.

Pur condividendo lo spirito socialmente sovversivo del travestirsi e mascherarsi, livellando le distinzioni sociali grazie all’anonimità, permettendo la flagrante violazione delle norme societarie, e promuovendo la promiscuità  – tanto che, negli Stati Uniti, Halloween è da sempre una celebrazione dell’orrido quanto un’occasione per abbandonare i freni inibitori e darsi alla celebrazione sfrenata, spesso declinata in termini sessuali – Halloween presenta, nella sua prassi, una caratteristica molto specifica: il trick-or-treating o l’atto di andare a chiedere, porta per porta, dolci ai vicini.

Quella del «dolcetto o scherzetto» (traduzione che purtroppo ha prevalso sulla più eufonica e allitterante «dolcetto o dispetto»), è un attività che merita un’analisi che supplementi la mera ricostruzione storica: le origini sono da ricercarsi nella tradizione del souling, o preparazione di pane o dolci da distribuire ai poveri in cambio di preghiere per l’anima dei defunti, e venne reintrodotta negli Stati Uniti attorno agli anni Quaranta per moderare gli scherzi e il vandalismo che stavano sfuggendo di mano, con la conseguenza di rendere l’attività più mirata ai bambini che agli adolescenti, riducendo dunque la componente anarchica della festa.

Per un giorno all’anno quella che è solitamente una barriera sacra e invalicabile – la porta di casa tenuta sempre ben chiusa – diventa una soglia che invita allo scambio piuttosto che uno sbarramento che separa e tiene fuori.

Ciononostante, il trick-or-treating praticato dai bambini in maschera preserva un aspetto di sovversione, permettendo ad Halloween di distinguersi dalla natura istituzionalizzata e domestica di tante altre festività. Il valore aggiunto di Halloween risiede proprio nell’apertura dello spazio domestico sotto forma di una quasi letterale irruzione dell’Altro – dei bambini – nelle nostre case. Anche qui Halloween funge da festa ibrida e spazio liminale rompendo, tramite l’innocente bussare a porte chiuse da parte di bambini, la distinzione tra quelle feste che hanno luogo in un contesto familiare, intimo e domestico (come il Natale) e le celebrazioni di strada (come il Carnevale). Una notte all’anno, andare a bussare alla porta del negoziante o al campanello della vicina diventa consentito, magari la stessa persona con cui non si sono mai scambiate più di poche parole in molti anni di vicinato. Quello che il resto dell’anno è considerato uno scherzo da monelli (suona e scappa) diventa uno «scherzetto» ritualizzato a cui si può sfuggire solo grazie a un dono simbolico, molto meno carico di aspettative come il dono natalizio.

Il tabù della violazione della proprietà privata viene dunque brevemente sospeso, e la notte delle streghe e dei fantasmi promuove un senso di solidarietà del vicinato, espresso tramite l’accoglienza e la generosità nei confronti dei bambini – che siano facce conosciute o, più spesso, rese anonime dalle maschere. Questo spirito di accoglienza e comunità è di solito reso impossibile dalla topografia urbana, dalla diffusa diffidenza verso il prossimo, e dalla moderna ansia per il camminare in strade buie di notte, tutti tratti che caratterizzano la nostra vita cittadina.

All’anonimo incontro dell’Altro per la strada si aggiunge dunque la breve condivisione dello spazio domestico, un incontro che permette una nuova, pur se temporanea, esperienza vissuta dello spazio urbano. Chiunque abbia mai accompagnato un gruppo di bambini durante il trick-or-treating si sarà reso conto di come quella che di solito è una breve e anonima strada residenziale – percorsa ogni giorno sulla via di scuola o del lavoro, senza prestare particolare attenzione a case e portoni – diventa improvvisamente ricca di nuove affordances (per usare il termine Gibsioniano), o «inviti all’uso». L’anonima e pragmatica topologia urbana che viviamo di giorno in giorno si arricchisce di possibilità inesplorate: «mamma, proviamo quella porta lì!». Porte che solitamente sono semplicemente parte dell’arredo urbano, che magari non vedremo mai aperte e dietro alle quali potrebbe non esserci nulla, diventano improvvisamente gli ingressi di case vissute, dimore di persone in carne ed ossa e potenziali donatori di caramelle o dolcetti. Ancora di più nel caso – relativamente raro da noi – di quelle case che vengono adornate di oggetti mostruosi o che espongono zucche intagliate, lanterne nella notte che invitano i bambini con un muto richiamo: «siete i benvenuti, venite a bussare».

Per un giorno all’anno quella che è solitamente una barriera sacra e invalicabile – la porta di casa tenuta sempre ben chiusa – diventa una soglia che invita allo scambio piuttosto che uno sbarramento che separi e tenga fuori, un luogo ibrido tra il privato e il pubblico dove ha luogo un atto di accoglienza e generosità. In questo contesto di sospensione delle regole quotidiane i bambini godono di un temporaneo empowerment provando quell’eccitazione, propria dell’infanzia, tratta dallo spaventare – assumendo l’aspetto di figure proibite e macabre – quegli adulti in genere così seri e distanti. Ad Halloween diventa dunque possibile fare quello che di solito non è consentito fare, anzi, quello che è esplicitamente vietato: parlare a sconosciuti e accettare caramelle in regalo. Come spiega l’antropologa Cindy Dell Clark: «i bambini amano Halloween in parte perché gli permette di indossare costumi da adulti, assumere l’atteggiamento assertivo proprio dei grandi, e dominare simbolicamente gli adulti tramite la raccolta di dolcetti. I bambini acquistano potere tramite la licenza datagli di scegliere un costume e di giocare il ruolo di potere di chi chiede un “dolcetto o scherzetto”».

Il bambino mascherato da mostro che attraversa il vicinato in cerca di dolcetti, dunque, ha modo di vivere uno spazio e di giocare un ruolo in genere preclusi, e gli adulti coinvolti nell’attività (accompagnatori o donatori di caramelle) prendono parte a un momento di solidarietà, scambio, e apertura spesso molto più genuino e spontaneo della «bontà» natalizia riservata unicamente ad amici e parenti.

Malgrado non possegga il puro lignaggio di festa patriottica, sia oggi lontano dalle sue origini rituali pagane, e sia confezionato per essere un prodotto commerciale, Halloween – e in particolare la prassi di Halloween tra le strade e le case a cui si va a bussare – preserva il suo ruolo di momento di rottura e di inversione degli equilibri sociali e della rigida separazione tra il privato e il pubblico, nonché occasione di solidarietà tra sconosciuti. Visto in quest’ottica, non è troppo azzardato affermare che Halloween istanzia quei valori «orizzontali» (accoglienza, comunità, generosità, apertura all’altro) tradizionalmente difesi dalla sinistra progressista, oltre ad essere un momento importante di divertimento e crescita per i bambini.  Piuttosto che abbandonarlo agli attacchi allarmisti di critici reazionari e tradizionalisti, o tollerarlo come fastidiosa festività mirata ad adescare giovani esterofili, potremmo iniziare ad apprezzare Halloween come la festa sovversiva e gioiosa che – malgrado le sue varie evoluzioni storiche e geografiche – ha sempre mirato ad essere.