Il 2030 è alle porte, la fine del mondo è ormai certa, le profezie sul collasso si vanno avverando una dietro l’altra, eppure i vecchi vizi restano. Per esempio: i commentatori di destra e del mondo fascioconservatore non smettono di ricorrere all’epiteto “radical chic” come forma di insulto rivolto a una generica intellighenzia progressista diretta filiazione del cosiddetto ceto medio riflessivo.
Bene, già che l’Apocalisse è prossima, ribadiamolo una volta per tutte: questo è offensivo per qualsiasi vero radicale e per qualsiasi autentica persona chic.
Anni e anzi decenni di cortine fumogene partorite ad arte dai nemici del bello e dell’eleganza ci costringono infine a ribadirlo: cosa mai avrebbero di radicale, questi pavidi frequentatori di saloni del libro il cui picco di trasgressione è rappresentato da uno spritz Campari anziché Aperol? Cos’hanno di chic, questi lettori di trashame tipo le pagine culturali del Foglio la cui realizzazione si misura dal numero di Adelphi ordinatamente disposti per colore sugli scaffali?
con la sfiga non vogliamo avere niente a che fare – già siamo costretti a subirne troppa in questa congiura contro il buongusto che è il mondo
È chiaro come tutte le accuse che vengono rivolte a queste grottesche macchiette dell’ortodossia liberal il cui political compass oscilla tra Jovanotti e Marco Pannella siano drammaticamente vere – a pazienza se, pronunciate da fogne a cielo aperto quali Libero o La Verità (viene da cercare un collutorio solo a pronunciare il nome) perdono qualsiasi consistenza e viene quasi da parteggiare per loro. Ma il vero Radicale e il vero Chic non ammette pietà alcuna: nostro obiettivo qui è riaffermare la distanza incolmabile che separa la classe dalla sfiga, perché noi con la sfiga non vogliamo avere niente a che fare – già siamo costretti a subirne troppa in questa congiura contro il buongusto che è il mondo, di cui non possiamo che salutare con gioia la fine imminente.
E allora, cosa sarebbe mai la fantomatica “sinistra radical chic” di cui blaterano gli scoreggioni “dissidenti” per i quali il top della provocazione è scopiazzare monnezza vecchia di un secolo tipo Papini e Marinetti? A definirla, pare di capire, non è tanto un atteggiamento politico più moscio di un discorso di fine anno di Mattarella, quanto una serie di… chiamiamoli consumi che anche noi purtroppo abbiamo imparato a conoscere bene: leggono libri, organizzano “incontri”, mangiano in ristoranti arredati in ferro battuto in cui servono vini biologici, e poi… boh, e poi nient’altro.
Bene, questa gente ahimé esiste davvero, non saremo noi qui a negarlo. Solo che i libri che leggono fanno cagare, i (costosissimi) ristoranti che frequentano servono cibo di merda, il vino bio di cui decantano le qualità balsamiche è a tutti gli effetti indistinguibile da un balsamo (per capelli) e in generale il loro gusto estetico, in un’ipotetica scala Petronio da uno a dieci, precipita direttamente nella misteriosa landa transdimensionale dei numeri negativi.
Dove sta la radicalità, dove sta la chiccheria? Chiamiamoli moderat-kitsch, piuttosto.
Diamogli il nome che meritano e mandiamoli a fare in culo dove preferiscono, magari in qualche fiera dell’editoria dove avranno modo di confrontarsi con le loro fascio-controparti perché “lo scambio di opinioni è il sale della democrazia” (è gente cresciuta a Slow Food ma che a quanto pare non sa dosare le spezie).
E allora: i moderat-kitsch se ne stiano pure nelle loro riserve chiamate Isola, Porta Venezia, Esquilino, Monti, convinti che il mondo si arresti ai pochi isolati che chiamano “città”, nella bislacca allucinazione di vivere in una copia di serie B della noiosissima Manhattan a suo tempo dipinta da Maestri Indiscussi del Cringe tipo Woody Allen. Il vero Radical Chic sa che è oltre le circonvallazioni, le tangenziali e i raccordi anulari che sta il divertimento, la droga migliore e soprattutto LO STILE, e quando tra dieci anni vedremo le tech Nike persino sulle passerelle di un premio Strega a caso, allora vestiremo già di nuovi tessuti, perché il moderat-kitsch insegue (male), il Radical Chic è avanti.
Vestiti come da catalogo H&M del 2006, i moderat-kitsch citano a memoria romanzieri americani anni Novanta, cantautori folk a cui nessuno ha apparentemente spiegato l’esistenza dell’autotune, e ancora pensano che Shiva sia il nome di una divinità indù. Per il vero Radical Chic, invece, l’unico Dylan degno di appartenere al pantheon degli Anziani è quello che di cognome fa Dog, e in onore di Shiva (libero!) l’autotune ce lo siamo fatti direttamente impiantare nelle corde vocali così neanche avremo più bisogno di un abbonamento Spotify – anche perché l’abbonamento lo paghi e, come ogni vero Radicale sa, non c’è niente di meno Chic che il denaro (e tutto quello che serve a procurarselo, a cominciare dal lavoro – bleah).
Cosmopoliti quanto può esserlo un don Buro in gita ai giardinetti centrali, i moderat-kitsch sproloquiano di inclusività e “confronto tra culture” non tanto per mettersi la coscienza apposto con la donna delle puliz… collaboratrice domestica dello Sri Lanka, quanto perché pensano che il “confronto tra culture” significhi saper distinguere tra un borek e un samosa (che comunque confondono). La loro idea di “multiculturalità” è presto detta: più ristoranti vietnamiti, peruviani, coreani, più qualsiasi altro paese sufficientemente “etnico” (…) di cui in altri tempi è stata pubblicata una guida Lonely Planet.
Ma al contempo niente batte la bellezza delle campagne senesi, la nostra cultura teniamocela stretta e nessuno tocchi le Langhe di Pavese e Fenoglio. Il vero Radical Chic invece tifa Sostituzione Etnica Subito, se davvero esistesse un piano Kalergi sarebbe il primo a firmarlo, tutto pur di trasformare ogni singolo quartiere gentrificato in un suq dove almeno gira roba di qualità e non c’è rischio di imbattersi in espressioni dozzinali tipo “graphic novel” – e già che ci siamo solo giornaletti sui nostri scaffali, o più che sui nostri scaffali nei nostri cessi, perché da sempre è il cesso l’unico e vero Tempio del Piacere, a cominciare da quello Anale.
I moderat-kitsch sono più ignoranti di un Paolo Mieli a caso e intanto rompono le palle con argomenti triviali tipo “i libri”, usano espressioni volgari come “dialogo”, difendono valori rozzi quali “l’impegno”, se gli chiedi dove si compra la droga non sanno risponderti e intanto pretendono pure di esporre il loro “punto di vista”, hanno gusti mediocri, non sono divertenti – non sono Radicali, non sono Chic.
E allora perché attribuirgli qualità che non meritano, insignirli di titoli di cui non sono degni, promuoverli a esempio di un modello per loro irraggiungibile? Questo è l’ennesimo gioco sporco dei nemici dell’eleganza e dello stile, un’astuta contorsione logico-linguistica che, blandendo con epiteti tanto nobili i loro cosiddetti “avversari”, altro non fa che confermare la storica collusione fascioliberal all’insegna della lotta al bello.
Così parla un vero Radical Chic.
Basta, boh, che altro dire, abbiamo finito: andate affanculo, sfigati!