Steve Goodman, Audio Virology 2020

Audiovirologia per l’era pandemica

Fantasonica, Burroughs, Ishmael Reed e Covid-19: ascoltare il virus

Rumore, rumore, rumore… Il più gran vettore patogeno individuale delle civiltà
J.G. Ballard, “Lo spazzasuoni

Nell’aprile 2020 Markus Buehler, musicista e scienziato presso il MIT, ha creato un modello per le proprietà vibrazionali della proteina spike di SARS-CoV-2, la caratteristica che rende il COVID-19 particolarmente contagioso, consentendo la transcodifica in musica di alcuni aspetti della struttura del virus. Il risultato sono rintocchi e tintinnii che ricordano il koto giapponese, con un sinistro sottofondo di rumori gorgoglianti. Viral Counterpoint of the Corona Virus Spike (“Contrappunto virale del Corona Virus Spike”) è una composizione algoritmica multi-livello che rende udibili oggetti nanoscopici grazie a una tecnica chiamata “equivalenza trasposizionale”, nella quale le vibrazioni della proteina vengono trasposte nello spettro audio mantenendo i valori relativi delle vibrazioni tra amminoacidi.

Per Buehler, estetizzare il virus ha lo stesso potenziale di altre pratiche antivirali: producendo musica dal loro linguaggio, si apre un portale sul mondo delle proteine. Secondo Buehler, sonificare una gamma di virus, le loro mutazioni, le risposte ai cambi di temperatura ecc., potrebbe facilitare l’analisi e il confronto tra anticorpi e le corrispondenti strutture melodiche o ritmiche a loro volta legate alla proteina spike. Buehler sostiene che una simile rappresentazione musicale del virus sia più accurata dei consueti testi infarciti di diagrammi, che non sempre sono in grado di visualizzare la dinamica data dai continui movimenti e vibrazioni del virus.

La musica, dal suono relativamente gradevole, “non sembra trasmettere gli esiti letali che questa particolare proteina ​​sta producendo in tutto il mondo. È un aspetto della musica che mostra la natura ingannevole del virus, la maniera in cui si impossessa del nostro corpo così da replicarsi e quindi danneggiarci. In questo senso, la musica è una metafora di come la natura del virus sia quella di ingannare l’ospite e di sfruttarlo per la propria moltiplicazione”.

Buelher non è il primo a produrre musica a partire da virus mortali. La compositrice Alexandra Pajak, ad esempio, nel suo Sounds of HIV del 2010 ha reso udibili gli schemi di nucleotidi e aminoacidi trascritti dal virus dell’AIDS. Simili progetti rimandano inoltre ai formalismi della musica generativa ispirata alle ricerche sulla vita artificiale (e più recentemente sulle reti neurali e il machine learning): qui, la trasposizione in suono della genetica evolutiva fornisce un modello per ipotetiche mutazioni morfologiche automatizzate.

Un anno dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, il New York Daily News pubblicò un articolo che annunciava una fuga di notizie dai rapporti riservati dei NASA Medical Research Laboratories, secondo i quali esistevano nuove prove che malattie virali come AIDS e Ebola potevano essere trasmesse per via visiva.

Meno formaliste e interessate semmai a drammatizzare il lato oscuro di queste “agenzie acustiche artificiali” in una speculazione sulla loro militarizzazione, le trasposizioni di Buehler ricordano piuttosto il progetto del sound artist svedese Leif Elggren Virulent Images, un cd di fantasonica del 2003.

Stando al testo di accompagnamento di Elggren, esattamente un anno dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, il New York Daily News pubblicò un articolo che annunciava una fuga di notizie dai rapporti riservati dei NASA Medical Research Laboratories, secondo i quali esistevano nuove prove che malattie virali come AIDS e Ebola potevano essere trasmesse per via visiva.

L’idea era che l’esposizione alla microfotografia delle strutture del virus riusciva, attraverso un processo descritto come “dematerializzazione/materializzazione”, a passare attraverso la retina e il cervello, per poi riemergere come un “effettivo virus vivente” ed entrare in una relazione distruttiva con alcune parti del corpo. La paura che Elggren cercava di evocare era chiaramente il potenziale che un’arma così potente poteva avere nelle mani dei terroristi. “Se le immagini possono essere virulente”, domanda Elggren, “lo può essere anche il suono?”.

Elggren era affascinato da come i mezzi audiovisivi riescono ad avvolgere il corpo per via diretta. Il CD che accompagnava il progetto presentava otto microstrutture di altrettante virografie  (ovviamente dietro avvertenza sanitaria) e sosteneva di contenere otto registrazioni audio di virus estremamente potenti: HIV, rabbia, influenza, lassa, parotite, Ebola, Sin Nombre e vaiolo. Secondo le note di copertina, le micro-registrazioni erano state effettuate in un laboratorio governativo di Tripoli, in Libia, per poi essere spedite in Svezia nel gennaio 2002 in formato minidisc. La fantasonica epidemiologica di Elggren riguardava la trasmissione di un codice virale biologico attraverso i canali della cultura dei media. Il risultato era una trasmissione affettiva della struttura del virus sotto forma di increspature digitalizzate di intensità: un vettore transmediale che trasmette il codice-virus al livello microbiologico e poi a quello audiovisivo, per poi da lì essere nuovamente compresso in forma di codice. Ma anche privati dall’immaginario contesto popolato da DNA mutanti, i suoni erano piuttosto inquietanti – delle mutazioni sonore acute e al contempo viscose.

Il tema dei media contagiosi riporta direttamente a La rivoluzione elettronica, il testo che William Burroughs scrisse nel 1970-1971 – il suo manuale tattico su come utilizzare dei cut-up audio per provocare violenze di massa. Qui, Burroughs si chiede ironicamente se un virus “altro non consista che di unità molto piccole composte da suono e immagine […]. Forse per costruire un virus in laboratorio avremmo bisogno non solo di un biochimico, ma anche di una telecamera e di un fonico”.

Burroughs inaugurò quello che sarebbe diventato un tema ricorrente della fantascienza cyberpunk anni Ottanta e Novanta: il virus quale entità anomala in bilico tra natura e cultura, capace di rendere tale distinzione irrilevante, e proprio tanto dell’umano quanto della macchina.

Le idee di Burroughs sui virus culturali risuonano – con una punta di spinozismo – nelle parole del regista David Cronenberg quando dichiara che “per comprendere i processi fisici della Terra è necessario rivedere la teoria secondo la quale siamo tutti creature di Dio – il tipico sentimentalismo vittoriano. Bisognerebbe piuttosto includere anche le malattie, i virus e i batteri. E perché no? Un virus sta solo facendo il suo lavoro. Sta cercando di vivere la sua vita. Il fatto che ti stia distruggendo non è mica colpa sua. Bisogna comprendere le interrelazioni tra organismi, anche quelli che percepiamo come malattie. Penso che la maggior parte delle malattie resterebbero semplicemente scioccate dal sapere di essere considerate malattie. È una connotazione molto negativa. Per loro, semmai è un trionfo. Dovremmo imparare a invertire la normale comprensione di ciò che ci accade dal punto di vista fisico, psicologico e biologico”.

Sulle orme di un antropocentrismo trascendente, la citazione di Cronenberg illustra un filo comune delle virologie audio: l’inversione di polarità, di ciò che si considera positivo e negativo, e l’identificazione con il virus. Nel romanzo di Ishmael Reed Mumbo Jumbo, ad esempio, il protagonista centrale è il virus Jes Grow, che Reed definisce “anti-peste”. Questa anti-peste prende il nome dalla capillare diffusione di pezzi ragtime che, attraverso i network radiofonici degli Stati Uniti di inizi XX secolo, “just grew” – “proliferarono e basta”. Il Jes Grew rappresenta un contagio culturale particolarmente interessante perché cura le sue vittime dall’influenza ritmicamente regressiva della civiltà musicale eurometrica. Invece di danneggiare il corpo, aumenta la capacità affettiva del corpo stesso. Jes Grew è un’anti-peste perché non fa “deperire” il suo ospite, ma lo “ravviva”. Nel romanzo di Reed, funziona come un’arma in una battaglia che diventa di proporzioni cosmiche, e che culmina nello scontro tra portatori di Jes Grew e Atonisti, i sostenitori della mitologia della civiltà occidentale – uno scontro tra magia nera e magia bianca. Gli Atonisti del Wallflower Order notano come il Jes Grew si propaghi “attraverso radioline e dittafoni”, e monitorano i media per controllare “l’andamento dell’epidemia”. Non bastasse, per gli Atonisti il Jes Grew altro non è che un “germe” epidemico progettato per causare “la fine della civilità”.

Ma visto che la trasmissione musicale di tradizioni spirituali incanalate nel Jes Grew quali il voodoo è crittografata dalla prospettiva dell’episteme occidentale, il virus prolifera, con l’effetto collaterale di scatenare il panico bianco nei confronti della “nerezza”. Al tempo stesso, come gli hacker, gli afroamericani di Reed dispongono di un preciso “bioware” che gli consente di leggere il programma del Jes Grew come un’anti-peste. Qui, il virus musicalmente trasmesso diventa una tecnologia nera segreta, e la favola di Reed si rivela un archetipo dell’Atlantico Nero.

Anche la techno ha una sua mitologia virale. Nella fantasonica del collettivo techno di Detroit Underground Resistance (UR), troviamo uno dei sistemi iperstizionali più espliciti nel delineare un’evoluzione dei ceppi genetici ritmici, in cui il colonialismo viene ricollocato all’interno di una storia più ampia di lotta della popolazione razzializzata che, come Mumbo Jumbo, è una battaglia di proporzioni cosmiche. Le note di copertina dell’album Interstellar Fugitives elaboravano una specie di virologia del ritmo. In un rapporto fittizio pubblicato dall’ “Intergalactic Bureau of Investigation”, la città di Detroit diventa una “ritmacchina” che emette meccanicamente onde pulsanti a intensità crescente nel tessuto epidermico urbano, trasportando parassiti sonori capaci di sabotare il sistema nervoso. 

Secondo UR, questi guerrieri sonici sono portatori di un potente gene mutante R1 e sono definiti “segreti guerriglieri di Ebola digitale con capacità rafforzate di percepire il ritmo”. Attivando il potenziale del ceppo genetico mutante, simile al Jes Grew, si scatena la mobilitazione della popolazione in una danza. I test diagnostici rivelano che il ceppo R1 è “più antico dell’umanità e fu sequenziato nel genoma umano secondo probabilità che restano ignote. R1 comunica attraverso segreti andamenti ritmici codificati che si basano sul tamburo, comune a tutte le società umane. Bisogna notare che il ritmo in questione può anche essere vocalizzato, espresso attraverso la danza o l’arte e trasmesso da macchinari incentrati sul ritmo”. Nella fantasonica degli UR, la missione di controllo del Bureau diventa una risposta immunologica. Il report prosegue descrivendo una pericolosa mutazione: in una “ricerca costante di modalità per combattere la crescente malvagità dei programmatori di sistemi, R1 recentemente è ricorso a uno spaventoso gene cugino mutante bioignegnerizzato poco conosciuto, sviluppato nell’arco di tempo che va dal Quattrocento alla fine dell’Ottocento nelle aree colonizzate di tutto il mondo e in particolare del nuovo mondo delle Americhe. Il cugino, che chiameremo z (per zero), a indicare la sua completa rimozione dalla storia, era il prodotto di esperimenti genetici di riproduzione illegali condotti su umani asserviti della stirpe del gene R1”. 

Il modello z era sfuggente, “camaleontico, imprevedibile e definitivo (si vedano gli schiavi fuggiaschi) e benché potesse funzionare ingannevolmente all’interno di qualsiasi società, accettava vere direttive soltanto da R1 e grazie alla percezione accentuata del ritmo poteva decifrare le direttive di R1 in qualunque modo, dal canto di lavoro nei campi al flusso ritmico dei versi di una poesia ai moderni macchinari automatizzati”.  

Combinando il revisionismo della storia nera alla fantascienza, alle teorie genetiche e all’etnomusicologia, UR “applica una colonna sonora” alla storia, revisionandola per portare i suoi spettri in primo piano. Oggi, la techno-virologia UR solleva molte domande, e qualsiasi celebrazione dell’epidemia di techno nell’ultimo paio di decenni è stemperato dal whitewashing insito nel processo, l’infezione ritmica del corpo bianco (infettato dal movimento ma non, secondo il report, dalla dimensione spirituale africana della musica) abbinata al parassitismo economico. Eppure, è chiaro che per Reed e per UR la fantasonica, le virologie audio, offrono uno strumento speculativo, un mezzo per politicizzare, cooptare strategicamente, infiltrare tatticamente e aggirare la piaga della supremazia bianca, contrastando l’autoimmunità e la sorveglianza dei confini nei sistemi economici e culturali razzializzati che si oppongono al cambiamento. 

La fantasonica spesso apre a una dimensione in cui il suono e il virus condividono gli stessi mezzi di incubazione, trasmissione, infezione, mutazione e minaccia.

Come possiamo interpretare questa rassegna (effettivamente parziale ed eterogenea) di virologie audio? Perché abbiamo bisogno del concetto di “infezione” culturale se esistono termini neutrali a disposizione? Nel nostro tempo pandemico, che conta quasi due milioni di morti nel mondo in un solo anno, non è semplicemente di cattivo gusto? La maggior parte delle virologie audio sono una reazione retorica all’agentività inumana di un ambiente in cui spesso gli umani si ritrovano a essere ospiti impotenti. Se non altro, la fantasonica mette in scena il fatto che non tutto va per il verso giusto. C’è chi dice che, nel migliore dei casi, l’inumano coronavirus si è dimostrato capace di ottenere ciò che gli umani radicali potevano soltanto sognarsi: uno sciopero generale mondiale. [Ad esempio, nel divertente “What the Virus Said” (2020), un virus antropomorfizzato spiega all’umanità come ci stia facendo un favore “spegnendo la macchina di cui non riuscivate a trovare il freno di emergenza”, NdA.]

La metafora della “musica come virus” è stata formulata in una varietà di modi e attorno a una quantità di presupposti che riguardano il codice, gli effetti concreti dell’astrazione, l’invisibilità e il potere latente della decodifica e della deterritorializzazione. Queste non sono semplici canzoni sui virus. L’analogia può andare a sondare varie speculazioni concettuali: da strumento di diagnosi medica di Buelher a dispositivo per analizzare l’evoluzione culturale (la memetica dei tormentoni), passando per la fantasonica della viralità quale metodo estetico (cut-up, dub, remixologia) o arma sul campo di battaglia delle reti digitali. La fantasonica spesso apre a una dimensione in cui il suono e il virus condividono gli stessi mezzi di incubazione, trasmissione, infezione, mutazione e minaccia. In un saggio per The Quietus, David Toop scrive che il coronavirus “imita la trasmissione e la diffusione della musica, il sistema di memoria che scorre attraverso i territori e i confini, agendo come un virus che muta senza sosta in nuove forme spettacolari. La differenza, ovviamente, è che uno è la morte; l’altra è la vita”. Eppure, quando sono particolarmente affascinanti, le virologie audio spesso vanno al di là della mera analogia per abbracciare un’identificazione weird, una transvalutazione che inverte le polarità negative in positive, si allea alla minaccia e prova a reindirizzare, a rendere costruttiva, la sua energia negativa. 

Benché il modus operandi della musica pop sia sempre stata una proliferazione di tormentoni, sono state la pirateria e la centralità della replicazione digitale ad accelerare la viralità contemporanea della cultura musicale e l’immunoreazione del capitalismo delle piattaforme. Ormai le statistiche streaming assomigliano sempre più a una ricerca epidemiologica. Inquietanti “agenzie acustiche artificiali” mascherate da avatar infestano le piattaforme come cavalli di troia, inaugurando un’epoca di insulsaggine algoritmica. “Diventare virali” è sinonimo di successo. 

Attingendo a piene mani dalla biologia teorica, dall’epidemiologia medica, dalla programmazione di software, dalla culture theory, dalle strategie di marketing e dalla fantascienza cyberpunk del biohacking che immaginava entità mutanti capaci di abitare liberamente le fessure nel continuum natura/cultura, la viralità permeava i discorsi che toccarono l’apice negli anni Novanta. Negli anni Venti del Duemila hanno raggiunto l’età adulta. Da un’economia dell’hype che si regge sul marketing contagioso, la logica virale del capitalismo digitale e il potenziale infrastrutturale devastante di virus del computer imbracciati come armi, per non parlare del coronavirus, la realtà si è messa al passo. Che cosa stai incubando oggi? 

Originariamente pubblicato in inglese all’interno di Intermission: Relections on a Year of Upheaval (pag. 277-286), Unsound Festival 2020. Il testo è una sintesi e un aggiornamento dei capitoli 24-29 di Sonic Warfare: Sound, affect and the ecology of fear, MIT Press 2009.