In questi mesi è capitato, parlando con un’attivista milanese e araba coinvolta nelle iniziative per il popolo palestinese, di dirci che avremmo voluto tatuarci la stella a otto punte di Inanna/Ishtar, che indica il pianeta Venere, per sottolineare il sostegno femminista e ancestrale che ci unisce simbolicamente a tutti i territori del medio oriente. È difficile, d’altra parte, prendere parola pubblica in questo momento storico tacendo il genocidio in Palestina. Per affrontare un argomento così alieno ai nostri ambienti politici come l’attivismo spirituale, noi scegliamo di farlo con la Palestina nel cuore. Partiamo dunque dal vicino oriente antico e chiediamo alle grandi dee pre-islamiche di aiutarci nel lavoro politico a sostegno di tutte le popolazioni che subisco l’imperialismo culturale e religioso delle nazioni teocratiche. Invochiamo Inanna regina del cielo e della terra, nata nel cuore dell’Iraq, un tempo Sumer, tra il fiume Tigri e l’Eufrate che nascono sulle grandi montagne kurde per raggiungere poi il Golfo Persico. Inanna Stella del mattino e Tempesta tonante, una dea ancora non addomesticata ai pantheon del patriarcato. Eccoci salire in quota sull’impervia montagna dell’attivismo spirituale per i sentieri dell’immaginario, dove la fabula speculativa di Donna Haraway incontra il mito vivo di Furio Jesi e Károly Kerényi e il fare anima di James Hillman.
Il libro Inanna regina del cielo e della terra pubblicato nella collana Selene, che come Ippolita curiamo per Mimesis edizioni, raccoglie i miti della divinità sumera, ritrovati su tavolette d’argilla circa 4000 anni fa e tradotti dal cuneiforme, la prima scrittura codificata di cui abbiamo conoscenza. Prima di Gilgameš, Ulisse, Enea e Dante, la più antica discesa negli inferi di cui abbiamo registrazione è stata compiuta da una donna, Inanna. È lei che per prima affronta la catabasi iniziatica, guidandoci alle sette porte del mondo infero. Questi miti sono composti vicende che abbiamo sempre attribuito agli eroi dell’antichità, per esempio, nella cultura sumera la conoscenza è contenuta nei me, concrezioni che rappresentano qualità della sapienza stessa; questi codici sono custoditi da Enki, il Dio della Saggezza. Inanna decide di sottrarli con l’astuzia (proprio la metis di Ulisse) e dunque porta in dono la conoscenza rubata agli dei (come Prometeo) al popolo di Uruk.
In queste narrazioni la potente forza cosmica, intellettiva e sessuale delle grandi dee del passato non è stata ancora del tutto asservita alle istituzioni; si tratta perciò di una testimonianza unica e preziosissima. Le figure di filo immaginate da Donna Haraway in Chthulucene, che si intrecciano tra passato e presente, ci indicano che dobbiamo cambiare il modo di raccontare la realtà, non per evadere dalla materialità dei conflitti, ma per stare a contatto con i problemi attraverso un immaginario radicale e trasformativo. Pensare specularmente, razionalizzare, praticare il pensiero critico, dedurre logicamente non sono attività prive di narrazione, rêverie, evocazioni. Il pensiero immaginale lavora sempre assieme a tutte le altre forme di astrazione teoretica. Le attività della mente inoltre sono sempre situate nei corpi, nel posizionamento di genere e classe, in una prospettiva politica.
La parola “spirituale” suona pericolosamente disincarnata, collusa con la violenza patriarcale della Chiesa quanto col dualismo cartesiano. Ma se fosse possibile un materialismo magico che metta in scacco il realismo capitalista?
Questo è il motivo per cui le ricerche della biologa evolutiva Lynn Margulis sono state lungamente respinte. L’idea che la simbiosi mutualistica fosse il motore della selezione naturale era meno gradita alla comunità scientifica di quanto non lo fosse l’idea neodarwinista di competizione, caposaldo del pensiero liberale e antropocentrico. Anche la scienza è una narrazione ed è figlia di una specifica visione del mondo. La vita si basa sulla cooperazione, scriveva la biologa, dallo sviluppo individuale fino ai fenomeni macroevolutivi come la speciazione, tutto dipende in primo luogo da una collaborazione tra viventi, che si realizza spesso sotto forma di unioni simbiotiche. Nei nostri ambienti politici forse (e a fasi alterne) si comincia ad accettare che la scienza sia una narrazione politicamente orientata e meno “oggettiva” di quanto siamo portati a credere, ma l’idea di mettere assieme la parola “attivismo” con “spirituale” risulta terribilmente indigesta. Che l’immaginazione crei mondi può andare bene fintanto che si adegui agli obiettivi politici condivisi dal nostro ceto intellettuale e ai gatekeeper del giornalismo culturale. Qualora la narrazione si discosti dalle posizioni più consolidate, senza confutazioni scientifiche dai precetti del positivismo, è relegata a credenza e superstizione, irrazionalità, terrapiattismo.
Mitologie e riti, divinità e spiriti invisibili facilmente vengono screditati come roba di destra. La parola “spirituale”, per le nostre orecchie lacerate dall’indottrinamento cattolico, suona pericolosamente disincarnata, collusa con la violenza patriarcale della Chiesa quanto col dualismo cartesiano. Ma se fosse possibile un materialismo non riduzionista? Un materialismo magico che metta in scacco il realismo capitalista? Noi mutuiamo la locuzione “attivismo spirituale” da Gloria Anzaldua di cui abbiamo curato la pubblicazione di Luce nell’oscurità / Luz en lo oscuro. Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà nella nostra collana Culture Radicali di Meltemi.
“Nel tentare di dare un senso a ciò che sta accadendo alcune giungono a una profonda consapevolezza (conocimiento) delle situazioni politiche e spirituali e dei meccanismi inconsci che fomentano l’odio, l’intolleranza e la discordia. Il conocimiento ci esorta a reagire non soltanto con le pratiche della spiritualità (contemplazione, meditazione e rituali privati) o con le tecnologie dell’attivismo politico (proteste, manifestazioni, assemblee), ma con l’amalgama delle due: l’attivismo spirituale, che pure abbiamo ereditato assieme alla sombra. Il conocimiento ci spinge a impegnare lo spirito ad affrontare il nostro morbo sociale con nuovi strumenti e pratiche il cui scopo è dar vita ad uno smottamento. Lo spirito del mondo diviene cosciente, e noi diventiamo coscienti dello spirito del mondo. La guarigione delle nostre ferite sfocia nella trasformazione, e la trasformazione sfocia nella guarigione delle nostre ferite”
Nella cornice di senso di Anzaldua, ma più in generale nello sciamanesimo femminista, la spiritualità è intesa come unità tra mente e corpo, come qualità percettiva, per “sentire” con il corpo oltre i confini della nostra pelle. Anzaldua parla di “viticci di consapevolezza” che tastano fisicamente il mondo prolungamenti dell’anima-corpo che posso arrivare molto lontano, anche a una dimensione trans-specie, anche ai non viventi. La “spiritualità” diventa una qualità percettiva, fisica, somato-psichica attraverso la quale accediamo a una seconda attenzione, in cui le regole del mondo ordinario possono essere sovvertite. Per l’autrice scegliere di percepire la realtà in questo modo è anche un atto politico, perché riguarda l’elaborazione psichica del senso delle cose, in modo decoloniale, queer, femminista. Per esempio ci permette di cogliere che gli umani non sono “la misura di tutte le cose”, ma che abitiamo e siamo abitate da altri esseri (batteri, fantasmi, malattie, antenate) che siamo parte di una sostanza materiale, un tessuto immanente che lega tutte le cose, una trama che alterna vuoti e pieni. In quanto parte del mondo che ci circonda guarire noi stesse dalle ferite del patriarcato e del razzismo significa sanare parti della realtà che condividiamo con altri esseri, viventi e non viventi.
È importante attualizzare le pratiche sciamaniche e le conoscenze sapienziali senza naturalizzare il “femminile”, evitando di farlo diventare l’unico depositario possibile dei saperi ancestrali. Divinità Queer. Candomblé, Santería e Vodou: transcorporeità nelle religioni dell’atlantico nero, un volume di Roberto Strongman che abbiamo pubblicato di recente sempre nella collana Selene, mostra come le persone queer siano state fortemente presenti, anche con ruoli di guida spirituale, nelle religioni afrodiasporiche modificandole e arricchendo di possibilità il rapporto con il divino per l’interezza di comunità. A fare da filo conduttore del saggio c’è il concetto di transcorporeità; la stessa parola declinata in modo diverso, ma in qualche modo affine, dal nuovo materialismo femminista è la base del saggio di Stacy Alaimo, Allo scoperto. Politiche e piaceri ambientali in tempi postumani. In Divinità queer la transcorporeità: “[è un] immagine tipicamente afrodiasporica che rappresenta la psiche umana come molteplice, rimovibile ed esterna al corpo, che le serve da recipiente […] Questa visione peculiare del corpo, nella quale l’ego (lo spirito, l’anima) è orientato verso l’esterno rispetto al corpo fisico, consente la ri-generazione dei corpi che sono montati e cavalcati da divinità di genere diverso da quello della persona iniziata durante l’estasi rituale della possessione in trance”.
occorre fare un hacking del sé. Un ritirasi dell’ego, come nell’esperienza della possessione, in cui lasciarsi andare a una metamorfosi imprevista, un viaggio, una resa alle forze dell’immaginazione
Modificare i nostri saperi ontologici occidentali significa mettere in discussione il modo in cui la realtà del mondo ci è stata presentata, le gerarchie di dominio che si sono andate stratificando nella nostra cultura. La concezione di mestiza di Anzaldua passa dall’identità di chi è una persona razzializzata per arrivare ad abbracciare il vissuto chi è bisessuale e transgender, valorizza in particolare le persone che vivono tra diverse realtà senza mai appartenere pienamente all’una o all’altra. Queste sono le nepantleras, coloro che sono in grado di attraversare il Nepantla, parola nahuatl (lingua originaria della popolazione azteca) che significa spazio di mezzo: “el lugar tra i mondi, tra immaginazione ed esistenza fisica, tra realtà ordinarie e nonordinarie”.
Nel volume di Alaimo Allo scoperto la transcorporeità è intesa in senso ecologista, il soggetto umano è continuamente attraversato dalla materia del mondo, è parte del suo divenire, sia nel suo lato vitalistico e gioioso sia nelle tossicità ambientali nei quali è coinvolto. Sia nella transcorporeità di Strongmann che in quella di Alaimo assistiamo a uno sconfinamento che coincide con una perdita di sovranità del soggetto classico. I nostri corpi sono “abitati” da altre forze e questo diventare spazio aperto del corpo coincide con un impoteramento della nostra coscienza. Alaimo ci invita ad abbracciare una transcorporeità capace di dischiudersi dinanzi a un mondo materiale più ampio, un sé penetrato da ogni genere di sostanza e agentività materiale, siano queste “registrabili” o meno. L’immunità non esiste, dobbiamo accettare la penetrabilità e capire come questo punto di vista sia l’unico che può guidarci nel cammino per costruire nuove alleanze di corpi. “Non si tratta certo di affermare che il «corpo» sia utopico e pacifico e mai violento, o che una scopata salverà le foreste; al contrario, si tratta di ampliare le possibilità di un’etica e di una politica che non prendano più come punto di partenza l’individuo delimitato e capitalista”.
Dall’altra parte, Strongman è chiaro sul fatto che le religioni afrodiasporiche non sono scevre da omofobia, transfobia e misoginia, ma la penetrabilità dei corpi propria di questo peculiare concetto di anima e di possessione, le ha rese parzialmente accessibili anche alle donne, alle persone queer e trans. “La capacità di essere penetrate sessualmente rispecchia quella di servire come ospiti degli orisha più facilmente rispetto agli uomini etero, consentendo ai corpi […] di incanalare meglio le divinità. Le preferenze e capacità sessuali rappresentative di alcuni tipi di corpi funzionano come illustrazione secolare e visibile della sacralità delle tendenze e abilità di questi corpi”. La possessione cross-gender consente una profonda risoggettivazione della persona. Strongman è convinto che tramite la nozione di transcorporeità sia possibile individuare una convergenza femminista e queer nell’uso delle potenzialità del Vodou per sviluppare modelli di incarnazione più abilitanti.
A noi di Ippolita questa visione transcorporea parla di hacking del sé, un’idea che abbiamo usato in diversi contesti per definire il nostro approccio per negoziare la relazione tra il mondo delle tecnologie e i nostri corpi. Se l’informatica del dominio è un dispositivo di assoggettamento, ovvero una tecnologia del sé consustanziale all’infrastruttura che “si prende cura” di come costruiamo la nostra identità e le relazioni, allora occorre fare un hacking del sé. Un ritirasi dell’ego, come nell’esperienza della possessione, in cui lasciarsi andare a una metamorfosi imprevista, un viaggio, una resa alle forze dell’immaginazione. Il rapporto con la tecnologia va interamente rivisto alla luce di un etica ecologica che non riguarda solo il ciclo produttivo delle macchine, ma l’estrattivismo del nostro mondo interiore, assieme naturalmente alla codifica delle nostre relazioni, poiché l’identità si produce solo nella relazione (con umani e non umani). Il discorso è complesso e non abbiamo qui modo per meglio delinearlo, ci sembra però importante lanciare una cima tra mondi che solo all’apparenza sono tra loro distanti.
Un’occasione per allargare un po’ lo sguardo ce l’ha fornita il festival Le Alleanze dei corpi curato da Maria Paola Zedda con la cerchia di discussione Materialismo Magico che abbiamo organizzato invitando a discutere Arianna Forte, Jessica Murano e Marta Palvarini.