Guida al suono di Atlanta

Da Gucci Mane ai Migos, da T.I. a Future, quindici anni di mutazioni tra Southern Rap e Trap

Due anni fa il mondo scopriva che il rapper newyorkese Desiigner aveva – oltre che una strana fissa per i panda – «broads in Atlanta», aggiungendo subito dopo «twisting dope lean and Fanta». Probabilmente è solo assonanza, o come spiegato dallo stesso artista su Genius: «il fatto è che avevo una tizia ad Atlanta, tutto qui». Ma il fatto che un artista e rapper di New York – e quindi della città per eccellenza dell’East Coast rap americano – citi nel suo primo e più famoso pezzo una città del Sud degli USA come Atlanta, è abbastanza significativo.

Dell’importanza di Atlanta nel panorama musicale odierno si parla ormai da tempo: anche rapper come Asap Rocky o Bun B sono intervenuti sul tema, e non sono ovviamente gli unici. Poco meno di un anno fa il New York Times sentenziava: «se qualcuno volesse capire lo stato della musica pop basandosi sui successi del 2017, scoprirebbe che l’unica cosa che conta a quanto pare è Atlanta». Si veniva d’altronde da un successo come «Bad and Boujee» – la prima vera hit dei Migos, vedi oltre – e da due dischi consecutivi di Future, entrambi finiti in cima alla classifica Billboard. Con il tempo, solo lo scorso anno (e solo per citarne due), sono usciti fenomeni come Lil Yachty e 21 Savage, mentre appena qualche settimana fa i Migos hanno deciso di vomitarci addosso ventiquattro nuove tracce raccolte sotto il nome Culture II.

Se poi guardiamo all’Italia, sulla bocca di chi ascolta rap o prova a farlo c’è una sola e chiara parola: «trap». E se c’è chi urla «Nel 2003 T.I. parlava già di trap!» e chi invece «be’, se dici trap dici Gucci Mane», forse non tutti hanno ben chiaro in mente che entrambi, banalmente, fanno parte di quella grossa cupola che proprio Atlanta si chiama, e che della trap resta la culla oltre che il serbatoio principale.

Visto che adoro le linee temporali, ho pensato di raccogliere grossomodo i dischi più influenti (alcuni oggettivamente, altri per il sottoscritto) del cosiddetto «suono di Atlanta»; lo spunto mi viene dal fatto che è appena partita la seconda stagione di quel gioiello di serie tv che proprio Atlanta si chiama, e dai quindici anni esatti che ci separano dal Trap Muzik di T.I.: nessuno all’epoca poteva prevederlo, ma da lì sarebbe partita un’epopea che avrebbe mutato in maniera irreversibile i geni del cosiddetto Southern Rap (o Dirty South che dir si voglia), per poi dare un calcio in culo a New York e monopolizzare l’intera musica black. E visto che di quindici anni si parla, non potevo che scegliere quindici dischi – uno per anno – nel tentativo forse disperato di capire non tanto cos’è il suono di Atlanta, quanto come si è evoluto e chi sono i suoi protagonisti principali. Buon ascolto.

T.I.
Trap Muzik
(Atlantic, 2003)

Nel 2003 T.I. ha quasi 23 anni e Pharrell Williams lo ha già definito «il Jay-Z del Sud»; il rapper ha alle spalle un disco d’esordio che non ha convinto né la critica né il mercato, ovviamente diversi problemi legali, numerosi mixtape e già un contratto rescisso. Con Trap Muzik, che esce nell’estate di quell’anno, T.I. collabora con gente del calibro di Kanye West, e il disco vende più di 100.000 copie nella prima settimana; peccato che, come è d’uopo per chi si ritrova nella trappola, T.I. non si goda il successo a causa dei soliti problemi giudiziari.

Le sonorità di questo disco non sono prettamente trap, tanto che a oggi viene perlopiù definito semplicemente uno dei migliori album Dirty South di tutti i tempi. Guardando il titolo, però, e ascoltando anche solo distrattamente le 16 tracce che compongono l’album, quando si prova a parlare di trap non si può non piantare una bandierina nel 2003. Qui per forza di cose sta – se non altro a posteriori – l’inizio della nostra narrazione.

Trillville & Lil Scrappy
The King of Crunk & BME Recordings Presents: Trillville & Lil Scrappy
(Warner Bros, 2004)

Quella della trap come genere è (o perlomeno è stata) una lunga successione dinastica: assomiglia a una di quelle famiglie reali esiliate ma che mantengono la loro parvenza di nobiltà, in attesa che gli sfarzi di un tempo tornino parte fondamentale della loro vita. Nel 2004 da Atlanta proviene un disco come Confessions di Usher, e a farla da padrona è quindi l’R&B. Ma qualcuno memore del precedente di Trap Muzik ancora c’è, e quel qualcuno è Lil Scrappy – lo stesso che poi si farà chiamare Prince of South, quasi una forma di rispetto nei confronti del King of South, e cioè proprio T.I.

Questo è un disco diviso in due parti, il Trillville Side e il Lil Scrappy Side. Per quanto sia diventato disco d’oro, va detto che in realtà non è nulla di memorabile, almeno nella prima parte. Ma nella seconda ci sono alcune perle che dimostrano che nonostante il rap mondiale sembrasse allora andare da tutt’altra parte, il suono di Atlanta era pronto per vivere e lottare assieme a noi. «No Problem» è una di queste.

Young Jeezy & Dj Drama
Trap or Die
(Gangsta Grillz, 2005)

Il 2005 è l’anno in cui la trap entra finalmente in gioco a muso duro, ribalta il tavolo con tutte le carte e urla: «Bene, adesso ci sono io». Questo è infatti l’anno dei debutti ufficiali di due pilastri come Gucci Mane (che pubblica il primo volume di Trap House) e di Young Jeezy, che esce con Let’s Get It: Thug Motivation 101: se avete mai sentito dire da qualche ragazzino di Rione Monti «Esghere», be’, ora sapete perché.

Se per il 2005 prendo a riferimento questo mixtape e non i due album appena citati è, banalmente, per mera completezza: in Trap or Die infatti troviamo sia Young Jeezy che Gucci Mane, oltre che ovviamente T.I. e soprattutto Dj Drama in veste di host.

Young Dro
Best Thang Smokin’
(Grand Hustle, 2006)

Il 2006 è l’anno in cui esce King, la definitiva consacrazione di T.I., che si apre con quel pezzo leggendario che è «King Back». La dimostrazione di questo suo essere davvero il re deriva anche dal fatto che, come Re Mida, qualsiasi cosa T.I. tocchi diventa oro: ne deriva che quando un tale Young Dro, con all’attivo un solo album indipendente, decide di pubblicare un disco con produzioni di gente del livello di Jazze Pha e Nitti, basti un featuring con T.I. per rendere quel disco il numero 1 in Billboard di categoria e il terzo nella classifica generale.

Il 2006, infatti, vede impazzare per le radio americane «Shoulder Lean», che per Young Dro sarà il primo e unico singolo in Top 10. Solo un anno dopo verrà migliorata e remixata da Lil Wayne in Da Drought 3.

Soulja Boy
Souljaboytellem.com
(Interscope, 2007)

Di cosa parliamo quando parliamo di trap? La relativa pagina di Wikipedia Italia la descrive come «suoni di batteria presi dalla drum machine Roland TR-808, kick pesanti, sub-bassi distorti, hi-hat a velocità doppia con frequenti rullate e un tempo che mediamente si attesta tra i 120 e i 140 bpm». In pratica la realtà è che nessuno la sa definire, e ascoltando molte di queste tracce sicuramente qualche intenditore alzerà la mano e dirà «Ehi, ma questa non è trap, è solo South!». Be’, sì, sticazzi. Intanto però, nel 2007 arriva colui che secondo Ice-T «ha ucciso l’hip hop» e che ascoltando un qualsiasi disco rap di ora (anche italiano) è praticamente l’ABC di quella che chiamiamo trap (cfr: «Sfera Ebbasta ha ucciso il rap, con la Sprite e l’autotune/sì lo so che un po’ ti scazza, perché non lo hai fatto tu»).

A Soulja Boy si deve (oltre che il puro divertimento di aver dato vita a un dissing basato sulla velocità della propria Lamborghini): aver in qualche modo lanciato l’azienda di vestiti BAPE; aver fatto un sacco di casini con Twitter (vedi il dissing con Chief Keef su una collana rubata) e Instagram (dove ha postato foto con la fidanzata di Lil Yachty e commentato in modo poco elegante le foto dell’ex fidanzata di Chris Brown); aver sdoganato le sonorità latine nel mondo della South, che oggi sono praticamente ovunque. Per un rapper che di originale non ha probabilmente neanche il nome, di certo non male.

Shawty Lo
Units in the City
(Warner Bros, 2008)

Questo è l’unico disco in studio registrato da Shawty Lo, un personaggio che va menzionato anche solo per aver avuto il coraggio di campionare i Coldplay. «Viva La Vida» a parte, secondo la critica Units in the City è uno dei migliori prodotti mai usciti da Atlanta, anche perché in qualche modo si stacca prepotentemente dalle sonorità di T.I. e Young Jeezy, due personaggi quantomeno ingombranti per l’epoca; è d’altronde il periodo in cui Jeezy (insieme a Nas) compone un inno per Obama che recita testualmente «My President is black, my Lambo is blue» e che è destinato a monopolizzare ogni classifica e rotazione televisiva.

Il singolo «Dunn Dunn» è anche secondo Complex una delle migliori tracce mai uscite da Atlanta, nonché l’inizio del personale beef di Shawty Lo col «king» T.I.

Gucci Mane
The State vs Radric Davis
(Warner Bros, 2009)

Quando Gregory Haley di All Music scrive che il sesto album in studio di Gucci Mane è «il culmine del Dirthy South», probabilmente segna un punto di svolta in quella disperata ricerca del fantomatico «inizio del suono trap». In America The State vs Radric Davis riceve critiche contrastanti: c’è chi è esaltato dalla profonda essenza rap del disco, coi suoi cliché e i numerosi ospiti, e chi invece pensa che «the worst crime in rap is commited by Gucci Mane in this album: be boring».

In realtà quest’album è probabilmente un ottimo manifesto di quella che possiamo definire «poetica di Gucci Mane». Da qui comincia il lancio definitivo di Atlanta e del suo suono, tra dischi di riferimento, one hit wonder e sonorità ormai classiche.

Waka Flocka Flame
Flockaveli
(Asylum, 2010)

Con l’inizio degli anni Dieci, Atlanta inizia a sfornare volti più o meno nuovi, che prendono ciò che i predecessori hanno creato, lo riducono all’osso e vomitano dei prodotti d’impatto, scarni, ma di una potenza inaudita.

E quando si parla di «potenza inaudita» non si può non citare Waka Flocka, probabilmente una delle poche cose che l’Italia non è riuscita a importare. Waka Flocka porta all’esasperazione il concetto del «gangsta» che si mischia con l’uomo di strada – con quello che ha da puzzà, per farla semplice. Tra gli ospiti anche Rick Ross from New York, forse uno dei primi segnali che l’inversione di tendenza è iniziata.

Future
Streetz Calling
(A1 Recordings, 2011)

Forse per parlare di Future bisognerebbe aspettare il 2012, visto che è quello l’anno in cui esce Pluto, il suo primo album ufficiale. Ma l’uscita nel 2011 di Streetz Calling è già di una potenza devastante, nonostante sia solo un mixtape.

Future sdogana, o meglio rivoluziona, l’uso dell’autotune. Come più tardi faranno personaggi del calibro di Young Thug, la voce diventa un mero strumento, tanto quanto il beat: c’è chi parla di «cellphone», chi di evoluzione pop del genere. Questo mixtape apre le porte a quella che probabilmente è la penultima rivoluzione di Atlanta, dettando un trend che ancora oggi la fa da padrone nel panorama musicale street.

Trinidad James
Don’t Be S.A.F.E.
(Def Jam, 2012)

Il concetto di one hit wonder è qualcosa che bisogna avere molto a cuore per cercare di capire il rap americano. Ciclicamente, ogni scena che si rispetti, ha un rapper che esplode in maniera quasi incomprensibile, si pensa che rivoluzionerà a lungo il gioco e poi scompare nel quasi totale silenzio.

Ecco, per quanto solo due anni fa Trinidad James abbia pubblicato un singolo molto valido con Lil Dicky e Mystikal, è indubbio che l’autore di «All Gold Everything» rientri in questa categoria. Con una metonimia che ha dell’indecente, dunque, a rappresentare il 2012 c’è questo mixtape dimenticabile che contiene però un brano che nel 2012 era a un passo dal diventare inno nazionale.

Migos
Y.R.N. (Young Rich Niggas)
(Quality Control, 2013)

E se si parla di one hit wonder, non si può non parlare di chi questo rischio lo ha sventato, arrivando poi a rivoluzionare un suono intero. Una traccia come «Versace» è indubbiamente la miglior pietra fondante di una carriera che in soli sei anni ha reso Offset, Quavo e TakeOff dei mostri sacri del genere, alla faccia dei puristi. Y.R.N. segna il passaggio di consegne da Gucci Mane e Soulja Boy, ma soprattutto dimostra una semplicità nel linguaggio che suona più o meno come un pugno dritto sul setto nasale – come la cocaina chiamata «Hannah Montana», per intenderci, o il Motorola che vibra nella cucina di Chinatown.

Gucci Mane / Young Thug
Young Thugga Mane La Flare
(1017 Brick Squad Records, 2014)

Questo progetto è la prova definitiva che se ad Atlanta ricevi la benedizione di Gucci Mane, non puoi che avere il futuro assicurato. Dopo aver firmato per la 1017 Brick Squad nel 2013, il 2014 è sicuramente l’anno della definitiva consacrazione per Young Thug, che con il tempo si farà chiamare prima Jeffery e poi Sex (notizia di questi giorni). Così, mentre in radio passa «Stoner» e Gucci va dentro e fuori di prigione, esce questo mixtape che vede accostarsi due rapper sulla carta molto distanti. Secondo Pitchfork, all’epoca, Young Thugga Mane La Flare era la prova che ci trovavamo davanti a qualcuno che «is operating in another stratosphere» e bisogna dire che ci hanno visto lungo.

Future
DS2
(Epic, 2015)

A chi dice che il terzo album è sempre il più difficile, andrebbe infilato nelle orecchie a forza Dirty Sprite 2. Dopo aver tentato il cosiddetto sistemone l’anno prima con Honest, un album a dir poco confuso, e dopo «aver provato a diventare una pop star ma essere diventato un mostro», Future realizza un album estremamente cupo, distanziandosi al contempo dal colore della trap degli one hit wonder ma anche dall’esuberanza del Dirty South classico.

Si potrebbe quasi dire che DS2 è un album emo, se purtroppo oggi questo termine non fosse immediatamente riconducibile a rapper come Lil Peep, che valgono meno di un quarto del Future di DS2. In un brano come «F*ck Up Some Commas», poi, notiamo tutto ciò che ha reso Future grande e quella curiosa tecnica di sad bragging che è a un passo dall’autocompiacimento è che è una nuova forma di elogio del proprio io.

Young Thug
Jeffery
(300 Entertainment, 2016)

Per quanto sia un po’ da stronzi giudicare la musica dal lato estetico, non si può negare che l’apporto di Young Thug al genere sia fondamentale anche dal punto di vista di quello che – seppur con la morte nel cuore – possiamo chiamare swag. Fin dalla copertina, che sfoggia un capo d’abbigliamento firmato da un designer italiano, Thugga si stacca completamente dai canoni tipici della scena, vestendo un abito femminile con il suo nome, grande e in corsivo, in copertina. Non un bold che ricorda la roccia, ma un corsivo elegante, pacato. «You could be a gangster with a dress or you could be a gangster with bagni pants» è la frase che racchiude al meglio il significato di un album che merita di essere ascoltato piuttosto che descritto.

Migos
Culture
(Quality Control, 2017)

Il 2017 è l’anno in cui Atlanta è definitivamente sulla mappa: non solo perché giusto a fine 2016 Donald Glover aveva tirato su la miglior comedy degli ultimi dieci anni dandole proprio il nome della città in questione. È che da Atlanta escono tutte le nuove correnti che influenzeranno l’America, ma non solo: basti pensare a 21 Savage e Lil Yachty, due rapper agli antipodi, che escono nello stesso anno, con lo stesso fenomenale impatto e che, tra mille controversie, sono degli esponenti di spicco della scena.

Se però dobbiamo scegliere un album per definire il 2017 di Atlanta – ma forse Atlanta in generale – non possiamo che scegliere Culture, la definitiva consacrazione dei Migos che riescono a portare al numero uno di Billboard la canzone con meno contenuti della storia (dato non scientifico). «Bad and Boujee» è solo l’apice dell’iceberg che sono diventati TakeOff, Offset e Quavo e oggi, in qualsiasi club, persino nella provincia più remota, siamo sicuri che a un certo punto partirà «T-Shirt»