Vivere nel McCapitalismo
Ho 25 anni e vivo in Svizzera. Ho terminato la scorsa estate un importante master in Arti Visive ed ora sto cercando di costruire la mia vita. Sappiamo tutti che il passaggio tra scuola e lavoro è difficile, ancora di più in un campo complesso, precario e selettivo come quello dell’arte. Oggi pomeriggio ho avuto un piccolo attacco di panico: ero sdraiato a letto e non avevo le forze per alzarmi. Stavo pensando alla mia impossibilità di essere economicamente indipendente in questa fase della vita, all’affitto da pagare ed all’assicurazione sanitaria mensile in questa terra stupenda dove la sanità è privata.
Ero dunque sdraiato nel mio letto, cercavo di concentrarmi sul mio respiro per calmarmi, ed è in questo preciso momento che è arrivata la beffa. Nella stanza accanto il mio coinquilino ascoltava musica su Soundcloud. Dopo una canzone di Lana Del Rey parte la pubblicità; a questo giro tocca a McDonald’s promuovere il suo prodotto. La voce artificiosa, con la sua tonalità serena e la sua cadenza perfetta, consiglia di scaricare l’app McDonald’s e, tramite la scansione di un codice QR, vincere fantastici premi. Tra questi, un’automobile e… il pagamento del vostro affitto da parte di McDonald’s.
È difficile per me spiegare la sensazione che ho provato in quell’istante: tristezza, disillusione, rassegnazione. La chiusura del cerchio, la prova concreta, tangibile, durante un momento di crisi, di vivere all’interno di un incubo distopico. Come è possibile che gli eventi del mondo ci abbiano portato a tutto ciò, a dover sperare di essere i fortunati prescelti dal capitale, ad arrivare a compiacere la gentilezza della multinazionale miliardaria McDonald’s di essere così buona da pagare l’affitto a uno dei suoi clienti?
La verità è che come sappiamo questa minuscola azione filantropica è una forma propagandistica volta a mostrarci quanto il capitale sia buono, interessato ai suoi consumatori, addirittura disponibile a donare dei soldi attraverso un atto caritatevole. Si nasconde così il fatto che è il capitale stesso ad aver creato l’intero meccanismo nel quale ci troviamo. La narrazione capitalista punta all’individualizzazione e al merito, il merito di essere il miglior consumatore o il più fortunato: il predestinato all’interno di una logica perversa che tende a dividere in modo sempre più marcato le eccellenze e le eccezioni dalla mediocrità, o meglio, dalla normalità. Questo discorso vale sia che si parli di consumatori, sia che si parli di soggetti sottoposti alla dinamica dell’iper performatività nei vari contesti socio-economici.
Come è possibile che io debba pregare il dio McDonald’s per avere il mio affitto pagato e poter usare i miei soldi, il mio tempo e le mie energie in qualcosa che non sia un *bullshit job* – come, per esempio, lavorare per lo stesso McDonald’s, a cui ho inviato 6 candidature e che non mi ha mai richiamato?
Sto pensando ai miei genitori, che con la loro dedizione dogmatica al lavoro tipica di Bergamo, città dove sono cresciuto, faticano a capire che proprio la retorica del merito, del “se vuoi puoi”, e la narrazione del lavoro come strumento essenziale per la dignità di un essere umano che li permea, hanno contribuito nel giro di 50 anni a distruggere quasi ogni forma di assistenza al cittadino e alla persona. Al posto dello stato sociale è stato invece proposto un sistema socio economico che punta all’ottimizzazione di ciò che viene ora considerato spreco (ovvero tutto ciò che non è capitalizzabile) e all’interno di questo sistema spesso trova spazio solo chi rappresenta l’eccellenza, nel compimento di un processo di selezione che avviene nell’accezione più darwiniana del termine.
La cosa che più mi inquieta è che i 50/60enni non riescono a percepire la differenza tra il mondo nel quale sono cresciuti e quello nel quale si avviano a un pensionamento che tarda ad arrivare; e mentre in questo momento Parigi è a ferro e fuoco per l’innalzamento dell’età pensionabile voluto da Macron, in Italia la retorica dei giornali sfocia in titoli paternalistici del tipo “I francesi in rivolta perché non hanno voglia di lavorare di più”. Come è possibile che io debba pregare il dio McDonald’s per avere il mio affitto pagato e poter usare i miei soldi, il mio tempo e le mie energie in qualcosa che non sia un *bullshit job* – come, per esempio, lavorare per lo stesso McDonald’s, a cui ho inviato 6 candidature e che non mi ha mai richiamato?
Il mio carissimo amico Giovanni, fonte inesauribile di spunti sulla contemporaneità, mi parla dello streamer statunitense Hasan, che reacta su Twitch un video dello youtuber più famoso al mondo, MrBeast, nel quale quest’ultimo si offre di pagare l’operazione alla retina a 1000 persone che non possono permettersela, per poi poter filmare le loro reazioni e avere un nuovo video da caricare su YouTube. Queste sono le parole di Hasan dopo pochi secondi dall’inizio della reaction: “You watch this video go oh how cute and how nice… I watched this video and I’m filled with rage: that we shut off access to a 10 minutes procedure because we paywalled it and decided that some people just simply can’t get it. It is so insanely frustrating that it’s up to one YouTube guy to decide to make content out of it. That is it people who are too poor can’t just fucking see. That’s insane”
Guardando il video per la prima volta mi viene da chiedermi come sia possibile non vedere distopia in tutto ciò. La frustrazione di cui parla Hasan mi scorre dentro le vene mentre guardo Mr Beast donare 10000 dollari come premio alle persone che hanno appena recuperato la vista, dopo un intervento durato solamente dieci minuti. Mi sembra ovvio non dover spiegare dove stia il problema, ma per chi non è familiare a certi ragionamenti provi solo a pensare che gli Stati Uniti, il paese che retoricamente si pone come l’esportatore delle libertà e dei diritti civili impedisce a delle persone di sottoporsi a un intervento di 10 minuti che potrebbe ridarle la vista, perché, concependo la sanità come un business, chi non può permettersi il servizio, semplicemente, non vi accede.
La conseguenza è, tra le altre cose, l’impedimento a questi soggetti di proporsi come forza lavoro, inabilitati dalla loro cecità, e quindi costretti a rimanere ai margini, improduttivi, all’interno di una società dove l’accesso alla sanità è una questione di privilegio economico. È curioso notare come nel video buona parte dei soggetti sottoposti all’intervento dicano come prima cosa di essere felici di poter ritornare a lavorare, a fare il cassiere, per esempio.
L’obiettivo del sistema dell’arte sembra quello di proporre sempre qualcosa di cool, che funzioni esteticamente o, nel migliore dei casi, che abbia uno sguardo di pretesa sui diritti civili (super good!), sull’ecologia (good too!) ma che, in chiave liberale, elimina completamente lo sguardo sui diritti sociali.
Sta alla benevolenza di Mr Beast, il nostro youtuber/imprenditore gentile, decidere che questi mille cittadini possano riacquistare o no la loro vista. Le lacrime delle persone stremate, che ringraziano MrBeast come fosse un dio, quando in realtà (pur non volendo discutere la concretezza e l’empatia che sicuramente, in parte, esiste nel suo gesto) realizza il progetto solo per diventare virale su YouTube, riassumono esattamente la tristezza che provo ogni giorno, quando devo pensare a costruirmi un futuro all’interno di un mondo nel quale mi sembra che ogni cosa vada al contrario.
Ho la fortuna ed il piacere di essere in contatto ogni giorno con artisti italiani, svizzeri, francesi e di vari altre nazioni europee e non solo, artisti che stanno costruendo carriere importanti con opere nei musei, ma anche studenti, musicisti con contratti major, fotografi; persone che almeno in teoria dovrebbero disporre di una sensibilità particolare, non solo artistica, ma, credo, anche sociale e politica. Penso che un altro sintomo della incredibile vittoria del pensiero liberale che ci permea sia riscontrare questa sensibilità politica in una percentuale estremamente ridotta di queste persone. L’obiettivo del sistema dell’arte sembra quello di proporre sempre qualcosa di cool, che funzioni esteticamente o, nel migliore dei casi, che abbia uno sguardo di pretesa sui diritti civili (super good!), sull’ecologia (good too!) ma che, in chiave liberale, elimina completamente lo sguardo sui diritti sociali, sulla costruzione di un pensiero di classe, di un pensiero alternativo collettivo.
Riscontro questo sentire soprattutto nella ricerca delle persone occidentali, mentre noto in chi viene da altre parti del mondo una sensibilità politica maggiore, che però non sempre si trasforma in urgenza artistica ed estetica. Ne ho discusso con Mayara Yamada (Belém, 1992) cara amica e artista brasiliana che da ormai 5 anni vive e lavora in Europa. Il primo punto che tocchiamo nel nostro discorso riguarda la consapevolezza del proprio privilegio.
“Un artista non può non pensare a dove si colloca, da quale contesto viene e quale posizione sociale ricopre mentre prepara il suo lavoro. Io sono consapevole di essere privilegiata in Brasile, ed ora ho anche la fortuna di lavorare con i ricchi strumenti di cui dispone la Svizzera. Uso il mio privilegio cercando di collaborare con più persone possibile dal Brasile, anche se mi interrogo spesso riguardo alla mia posizione e al fatto che il mio lavoro parli della mia regione di origine (Amazzonia, n.d.r.) nonostante io non la abiti più da tempo; comunque non mi permetterei mai di proporre in Europa un lavoro che non mi sentirei di fare anche a casa mia. In Brasile i conflitti sociali e le dinamiche frutto della colonizzazione sono troppo evidenti per non essere notati, per non essere al centro del dibattito quando si parla di arte, per non obbligare le persone a prendere una posizione con la propria arte”.
Mayara Yamada, Estar à altura (2021), performance e installazione. Courtesy of the artist.
Uno dei più forti atti politici presenti nel lavoro di Mayara è parlare della sua cultura senza esoticizzarla: nella serie di performances Marara Kelly Art Show, Mayara incarna Marara Kelly, una divinità della festa, un essere incantato ispirato dagli elementi sacri e profani delle culture e delle religioni amazzoniche, l’essenza di una popstar che porta il party e le sue dinamiche non produttive in ogni luogo nel quale si manifesta. Parlando di dinamiche produttive e visione liberale, Mayara mi dice: “Non ho mai visto una concezione dell’esistenza così lineare come in Europa. Qui la gente a 25 anni già deve essere risolta, sapere quello che farà nella vita e quale sarà il suo futuro. In Brasile tutto questo è impossibile anche solo per una mancanza di accesso alle risorse, andare a scuola è costoso e non sai quando potrai permettertelo, la vita è mutevole e ciò porta ad aprirsi all’imprevedibile ed alla magia della vita stessa”.
“Marara è una pop star”, mi dice Mayara, “ma non voglio che sia una pop star occidentale, perché nulla è lineare: non voglio essere sedotta dall’idea di un percorso ascendente”. Anche nella sua pratica da dj, Mayara mi parla di come la sua ricerca sonora in Brasile fosse completamente scollegata dall’approccio prettamente tecnico che abbiamo in Europa, tanto da essere più volte fraintesa al suo arrivo in Francia. “In Brasile avevo accesso al materiale soltanto al momento del live set, quindi imparavo a suonare e performavo allo stesso tempo, è un modo di relazionarsi alla pratica artistica completamente diverso”. Questa differenza di metodo porta poi per forza di cose a uno shift estetico, un’urgenza comunicativa che va oltre il rapporto con la qualità estetico/tecnica e altri standard binari dai quali siamo ossessionati in Occidente.
Vedere la competizione promossa dai docenti e dal direttore, vedere studenti non dormire la notte per proporre progetti sfornati come merce da catena di montaggio, mi ha riempito di angoscia durante il mio periodo di studi.
A proposito di urgenza estetica e comunicativa, Giovanni mi parla anche di CoreCore, un microgenere/trend su TikTok nel quale vengono proposte in rapidissima successione una serie di immagini, meme, glitch, brevi video che collassano su loro stessi e si tramutano in altre immagini, provocando un effetto di nonsense concettuale e, in qualche modo, anche un appagamento sensoriale. Ho visto un video nel quale un giovane tiktoker parla di come il CoreCore sia a tutti gli effetti un movimento artistico dei late 10s e early 20s. È interessante notare come la persona in questione spieghi che il CoreCore fallisce la sua missione artistica dal momento in cui i tiktok CoreCore, che inizialmente contenevano nelle loro immagini una spinta politica, anticapitalista ed ecologista, si trasformano in vuote clip di nonsense e depressione. Scoprire che questo ragazzo associa il successo di un movimento artistico alla presenza o meno del messaggio politico al suo interno mi scalda il cuore.
Questo passaggio, che per me dovrebbe essere ovvio, è invece lontanissimo dalla mentalità di tantissimi artisti e creativi. Mi chiedo come il mindset capitalista liberale sia riuscito a permeare così profondamente all’interno delle menti giovani; del resto, l’istituto in Svizzera dove ho frequentato il mio master assomiglia molto di più a una multinazionale che a una scuola d’arte. Vedere la competizione promossa dai docenti e dal direttore, vedere studenti non dormire la notte per proporre progetti sfornati come merce da catena di montaggio, mi ha riempito di angoscia durante il mio periodo di studi, tanto che sono arrivato a pensare di regalare a ogni studente della scuola una copia di La società della stanchezza di Byung Chul Han per metterli in guardia sui pericoli del burnout.
Nell’arte, spesso ciò che viene estetizzato è politicamente perverso, mentre in Italia estetizzare argomentazioni di sinistra nel mainstream sembra ancora un’utopia. Mi vengono in mente piccoli esperimenti di nicchia che apprezzo tantissimo, come la pagina Instagram automatizzatocomunismomemetico, e i miei cari amici della fantahouse2019, che con la loro canzone Siamo Ragazzu hanno portato migliaia e migliaia di ragazzin* a riflettere sulla questione dei pronomi e quindi dell’identità di genere. Vorrei fare un piccolo appello ai creativi, agli artisti, ai musicisti: non abbiate paura di politicizzarvi e di estetizzare il politico. Anzi, forse è proprio ciò che, dal mio modesto punto di vista, dovreste fare. Politicizzare senza rendere le cose noiose anziché proporre vuoti involucri cool.
Mentre io mi sto ancora riprendendo da ieri, dal mio piccolo attacco di panico sdraiato sul letto, dall’ansia per l’affitto, dalla pubblicità di McDonald’s, penso che questa è la mia più grande sofferenza: vedere tutte queste persone farsi la lotta tra di loro per “emergere” mentre pregano che un McMiracolo paghi il loro affitto. Anziché contribuire alla creazione di un pensiero alternativo, di un movimento estetico e politico che possa, magari, arrivare a trasformare in coscienza collettiva l’idea che pagare 600 euro al mese per una stanza è una distopia.