Videogiochi e nostalgia
Qualcuno ci aveva già avvertiti. «La nostalgia esiste per i media, grazie i media e nei media», diceva Fred Davis qualche tempo fa, un sociologo americano che ci aveva visto lungo. Che poi è quello che ci racconta anche Blade Runner quando ci suggerisce, sornione, che i ricordi di Deckard siano installazioni artificiali di multinazionali post-capitalistiche. Nostalgia: parola che Immanuel Kant più di due secoli fa ci descriveva come il desiderio di tornare indietro nel tempo o, meglio ancora, il desiderio di regredire agli archetipi infantili. Se oggi il filosofo decidesse di farsi una passeggiata per le vie del mondo occidentale (con quella cadenza precisa e matematica che lo resero un personaggio pittoresco per la sua Koningsberg) rimarrebbe sconcertato da come le manifestazioni della cultura popolare stiano passando una brutta sbandata per la nostalgia: musica, cinema, serialità. E anche videogiochi.
È passato qualche anno da quell’instant classic che fu Retromania di Simon Reynolds: era circa il 2010 e un po’ tutti abbiamo cominciato a riempirci la bocca di quella parola. Secondo l’autore, l’epidemia nostalgica all’interno del contesto musicale è (anche) conseguenza dell’evoluzione tecnologica, precisamente della digitalizzazione del formato musicale e del suo esistere in uno spazio-museo che è un insieme fatto di hard-disk, lettori mp3 e soprattutto Internet. La questione retromaniaca negli anni si è affinata, e con l’esplosione di alcune manifestazioni che vanno dalla vaporwave all’alt-right all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, qualcuno ha cominciato a preoccuparsi. L’anno scorso, uscì sul Guardian un articolo piuttosto angosciante dello scrittore Mohsin Hamid secondo il quale la nostalgia rischia di fotterci il futuro e l’unica salvezza da un mondo dominato dalla tagline Make America Great Again è quella di sforzarsi di guardare dopo l’orizzonte degli eventi, insomma, tornare ad essere pionieri delle cose. Detto poco.
Chi invece si interessa di videogiochi potrebbe tornare a un articolo dell’Atlantic di un paio di anni fa e dal titolo altrettanto drastico: Nostalgia Is Ruining Videogames; ci dice che oggi una fetta del mercato videoludico è fatto per adulti che hanno bisogno di tornare indietro nel tempo, con prodotti nei quali si fanno riferimenti ad artefatti altrettanto retrò ma provenienti da media altri come la televisione (X-Files, Twin Peaks) e la musica «di una volta». Sappiamo benissimo come funziona l’estetica retromaniaca in una certa corrente videoludica: in questo pezzo per Everyeye, avevo tentato una breve carrellata di videogiochi più o meno rimasti affascinati dall’estetica Ottanta. In breve, da qui vengono giochi come Far Cry: Blood Dragon, il cui fattore retromaniaco sta nei nei colori, nelle citazioni e nell’appeal, ma che è dotato di un gameplay coerente all’epoca videoludica attuale; ma ci sono anche giochi che arrivano a mimare un gameplay vintage come Thimbleweed Park. Qui però vorrei spostare il discorso su un altro fenomeno che nel mercato dell’industria del gaming sta avendo un certo peso: quello dei remake e dei remastered, assimilabili, per certi versi, agli equivalenti cinematografici.
Il remake nel cinema è un rifacimento, e si riscrive e dirige tutto da zero; nei remake videoludici invece il codice del software non si riscrive da zero, ma ci sono (o ci possono essere) dei pesanti cambiamenti sia grafici che nella trama che nel gameplay. Il remastered invece può essere visto come una sorta di restauro di una pellicola, dove vengono ripulite le texture e alcuni effetti grafici come l’aliasing, si può migliorare l’audio e fare un upscaling della risoluzione. Al fianco della coppia remake/remaster possiamo infilarci anche il reboot, che sarebbe la scrittura da zero del codice sorgente, in tutto e per tutto, per dare il via ad una nuova ondata di guadagni sfruttando le atmosfere del vecchio franchise (che brutta parola). Facciamo tre esempi. Un caso di remake è la saga di Crash Bandicoot per Playstation sulla 4 con il titolo di N. Sane Trilogy; un remaster piuttosto noto è quello di The Last of Us; mentre un reboot di una saga è stato quello di Devil May Cry.
Negli anni abbiamo notato una forte correlazione, nei media sopracitati, tra remake/remaster/reboot e tipica retromania di stampo reynoldsiano. E se giochiamo a comparare le cose, notiamo alcune assonanze ma anche qualche dissonanza. Di sicuro, sia il mercato cinematografico (e televisivo) che quello videoludico condividono una florida produzione di remake o reboot. Non c’è bisogno di tirare fuori i numeri, ma mai come negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una tale stagione di caccia nei confronti di vecchie glorie: Nightmare, Conan, Robocop, Ghostbusters, i reboot ricorsivi della Marvel, Star Wars, Jumanji, Mad Max, giusto per tirare fuori qualche nome. Per non parlare di operazioni televisive come Stranger Things, che portano il giochetto a un livello diverso, inserendo nel proprio DNA – un po’ come certi videogiochi – un citazionismo costante e religioso. Le accuse a simili operazioni sono state importanti. Già nel 2011 un vero e proprio pioniere della critica videoludica italiana come Matteo Bittanti aveva ben inquadrato il decennio a venire, con parole durissime nelle quali la retromania (in questo caso videoludica) veniva considerata come sintomo di una «logica passatista e parassitaria».
Come accennavo sopra, tra cinema e videogiochi c’è però anche una dissonanza, ed è anche abbastanza evidente. Il tempo che passa tra l’opera originale filmica e il suo rifacimento, solitamente è di circa venti/trent’anni, mentre tra il videogioco originale e il suo remake/reboot l’impressione è che il tempo si stia sempre più accorciando. I primi anni di questo decennio hanno assistito a casi emblematici (e che Bittanti nel suo articolo già notava) come la rimasterizzazione di God of War avvenuta solo cinque anni dopo l’originale. È come se a Hollywood decidessero di fare un restauro di The Wolf of Wall Street: avrebbe senso? Al cinema evidentemente no; ma per il videogioco è diverso.
Immaginiamo di disegnare delle linee, dei segmenti, tra un punto A che rappresenta l’artefatto originale e un punto B d’arrivo che indica il suo rifacimento. Mettendo a confronto la linea cinematografica con quella videoludica e facendo una media sulle due si scopre che il segmento del rifacimento videoludico è di molto più breve. Perché insomma, paragonata ad altri media, nei videogiochi la nostalgia è particolarmente forte?
L’articolo dell’Atlantic tira in ballo l’immersività, un’esperienza attiva in cui il cervello elabora e immagazzina il videogioco in un modo molto diverso da come farebbe per il ricordo di un film di Carpenter o di una canzone dei Ramones. Un’altra considerazione interessante la fa Flavio Pintarelli sul suo blog: ancora più di altri artefatti, il videogioco è immerso nella logica neocapitalista dell’obsolescenza programmata, data dalla forte dipendenza del software videoludico nei confronti dell’hardware. Vero, per decenni abbiamo fatto a gara di bit, e si passavano i pomeriggi sotto il sole di maggio della pubertà a tirarsela su chi ce l’aveva più lungo: «la mia console ha 32 bit, la tua solamente 16». Le cose con gli anni sono diventate sempre più veloci, e tra obsolescenza programmata e legge di Moore, il formato videoludico è divenuto fragile.
In un testo intitolato Sognando Shadow Moses, Luca Papale scrive qualcosa di illuminante sulla scena di Metal Gear Solid 4: Guns of Patriots in cui il protagonista viene catapultato in un flashback della vecchia Shadow Moses, la base militare resa famosa nel primissimo Metal Gear Solid. Tra il primo e il quarto capitolo passano esattamente dieci anni, che a pensarci non sono poi così tanti. Quello che ci dice Papale, è che dopo un momento di «nostalgia implosa» succede che il giocatore si rende conto, di fronte alla mediocrità (nei confronti delle nuove) delle vecchie texture e della bassa risoluzione del primo MGS, di percepire una perturbante agonia, una sensazione di pugno muto nell’occhio. Compiendo una dissolvenza dal volto statico e a quadrettoni del vecchio/giovane Snake, a quello stanco e così umano del nuovo/anziano, Hideo Kojima (l’autore di Metal Gear) gioca con il giocatore, ponendogli una sorta di dilemma esistenziale (videoludico). Di più: quello che fa Kojima con il quarto episodio di MGS, e cioè mischiare soluzioni meta-ludiche al semplice riciclo di codice software già scritto, è quello da qualche anno sta facendo l’intera industria videoludica.
La questione nostalgica è legata indissolubilmente alla fruizione dell’artefatto. Quando pensiamo a un film in bianco e nero, un appassionato di cinema (certamente non il randomico frequentatore di un multisala nel deserto) non prova quel senso di disagio che può avere il sognatore di Shadow Moses. Come dice Pintarelli, il videogioco invecchia velocemente. Il problema è che nella mente del videogiocatore, una volta divenuto ricordo, il videogioco viene percepito con una certa soglia di mitopoiesi percettiva che fa da incantesimo. Il gioco, nella mente del giocatore, non invecchia. Poi certo ci sono i retrogamer, i feticisti del passato, ma quella è un’altra storia.
Non sono uno psicologo, ma mi affido alle parole del sito The Psychology of Videogames quando propone una sua interessante analisi della «questione sensoriale». In pratica, la fruizione videoludica comporta inevitabilmente il relazionarsi con uno spazio (evocato dal software) che implica la fatidica immersività. La «spatial presence», studiata da una decina di anni, è definita come quel fattore che fa percepire reale il virtuale, che dà allo spettatore la sensazione di far parte di un ambiente scritto in codice sorgente. È una caratteristica che va per gradi di intensità, rispettando alcuni punti che servono a quantificare un complesso modello ambientale: ad esempio, la «Multiple channels of sensory information» ci dice che l’intensità esperienziale è direttamente proporzionale alla quantità di informazioni ambientali che interagiscono sul videogiocatore. Questo è il motivo del grande successo di un’opera come The Witcher 3, dove la flora si muove al nostro passaggio, giorno e notte si accavallano, gli zoccoli del cavallo sul quale domina lo strigo smuovono la polvere e schioccano mentre rincorriamo un gruppo di banditi appena incontrati sulla via che ci stava conducendo a una quest secondaria.
Un altro punto focale è la «Completeness of sensory information», l’attributo che osserva quanto un videogioco sia ricolmo di vita interna e scollegata alle azioni dell’avatar, come ad esempio succede in un qualsiasi Assassin’s Creed. Non è mia intenzione sviscerare un argomento denso come quello dell’immersività, ma da questi studi si arriva alla conclusione che è principalmente per questo che nei videogiochi la nostalgia gioca un ruolo persino più pesante di quanto faccia in altri media e altri linguaggi.
Una delle cose che mi hanno spinto a fare ordine nei mie personali appunti mentali su nostalgia, retromania e remastered/remake, è stata la notizia dell’apertura dei server vanilla di World of Warcraft da parte della casa di produzione Blizzard. World of Warcraft Vanilla è la prima versione di World of Warcraft, quella del 2004: è il mondo di Azeroth, suddiviso tra le due grandi isole Kalimdor e i Regni Orientali. Lo spazio-tempo di Vanilla è quello postumo a Warcraft III, l’ultimo capitolo in versione RTS, mentre nel mondo reale Vanilla ha un periodo storico che va dal 2004 al 2007 (anno in cui uscirà l’espansione The Burning Crusade). La scelta della software house californiana è in linea con quello che sta succedendo nel mercato attuale: la notizia è stata ufficialmente data all’ultima edizione del BlizzCon tra la soddisfazione di giocatori e appassionati. Eppure già da tempo era possibile giocare al Vanilla per altre vie, per esempio su dei server privati o legacy. Perché quindi tanto giubilo?
Se si fa una breve ricerca sul web, usando poche parole chiave («nostalgia World of Warcraft») scopriamo un’intera sezione dedicata su Reddit, domande di analisi sul fenomeno su Quora, o articoli di Kotaku. Da dove viene questa nostalgia per WoW Vanilla? È qui che si fa forte l’analisi sull’immersion del videogiocatore: quelle che si leggono tra post e forum sono parole che bene o male si rifanno al concetto di «old-time». In effetti tredici anni, quelli passati dall’uscita della versione originale di WoW, non sono pochi, ma non è questo il punto: il punto è la voglia di tornare indietro nel tempo al punto tale da arrivare a una sorta di reverse engineering di un mondo virtuale ai fini di farlo ringiovanire invecchiandolo.
Si potrebbe tentare un paragone con il mondo degli umani. Da bambini abbiamo una concezione dello spazio che non ha nulla a che vedere con quella da adulti. Immaginiamoci che un tizio abbia trascorso l’infanzia tra la scuola e la casa dei nonni: un mondo piccolo e modesto, dove lo spazio è ridicolo ma le percezione lo rendeva vasto. Oggi il tizio ha trent’anni, viaggia per lavoro e divertimento, possiede un’automobile e si paga l’affitto per vivere in un bel bilocale del centro. Il tizio però prova nostalgia nei confronti della sua infanzia e degli spazi del suo piccolo mondo antico, nonostante nella sua contemporaneità esistenziale lo spazio sia più ampio e la vita più sfaccettata rispetto a quella di quando era bambino. Una notte, mentre dorme, viene svegliato da un gruppo di architetti dell’universo nel quale vive, degli dei barbuti e occhialuti, che gli concedono la possibilità di tornare al periodo della sua infanzia. Il tizio accetta in preda ad una febbrile felicità.
Ok, più o meno è questo quello che è successo a molti giocatori di World of Warcraft. Ma in più c’è qualcosa che suona di curativo, religioso e ispirazionale. «Perché la nostalgia è così potente su WoW?», titola un post sul forum della Blizzard. Le risposte sono davvero interessanti; si leggono cose come «Quando ho cominciato a giocare a WoW erano gli inizi del 2005, non ero nel migliore degli stati mentali e avevo problemi di depressione. Però quando ripenso alle mie esperienze di tanto tempo fa su WoW provo sensazioni positive e a volte travolgenti». Oppure: «le persone si ricordano di quando tutto era nuovo e tutti dovevano passare attraverso le stesse fasi per arrivare dove si voleva arrivare». O anche: «perché non possiamo davvero tornare indietro nel tempo per riviverlo. La nostalgia diventa tanto più potente quanto più non puoi tornare sui tuoi passi e far collidere percezioni e realtà. Non può che crescere sempre di più». Simili toni dimostrano quantomeno una certa consapevolezza delle cause cognitive che portano alla nostalgia della loro «infanzia» su Azeroth.
Gli spunti sulle cause di quel segmento sempre più breve che intercorre tra il videogioco originale e il suo rifacimento non mancano. Una risposta è insita nel codice stesso, nella sua dipendenza dalla tecnologia e nella fruizione attiva e affettiva del videogiocatore. Ma quanto è pericolosa l’economia del remake/remastering e del reboot nel mondo del gaming? Da quanto ne sappiamo, possiamo evitare di essere troppo apocalittici: certo, alcune operazioni potrebbero essere evitate (si veda robaccia tipo Assassin’s Creed: The Ezio Collection) ma è fuorviante pensare che la nostalgia stia tarpando le ali del game design odierno. Negli ultimi anni sono usciti videogiochi – penso per esempio a Horizon Zero Dawn, Witcher 3, Dark Souls III, Titanfall II, Inside, The Witness, Stardew Valley, ma i titoli sono tantissimi – che possono tranquillamente essere considerati piccoli o grandi capolavori; nuovi generi sono nati o si sono perfezionati, come il walking simulator o il survival a là Long Dark; la stessa Nintendo, che sulla nostalgia è tornata a fatturare come se non ci fosse un domani, sta sfornando roba tecnicamente pesantissima come Super Mario Oddisey, Splatoon o l’ultimo Zelda: Breath Of The Wild. Tutti questi giochi sembrano volerci dire qualcosa di molto preciso: il mondo dei videogiochi sta vivendo uno dei suoi periodi più ricchi e fortunati, e affanculo la nostalgia.