Viaggi in un altro mondo
Pubblichiamo un brano tratto da The Missing Planet – Visioni e revisioni dell’era sovietica, recentemente pubblicato nella nostra collana d’arte in collaborazione con il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci.
Il museo è l’unica cosa che rimane del culto degli antenati; è un tipo particolare di culto degli antenati, che espulso dalla religione – come vediamo con i Protestanti – viene ristabilito nella forma del museo. La sola cosa superiore ai vecchi cocci conservati nei musei è la polvere, i resti dei defunti; così come la sola cosa superiore a un museo sarebbe una tomba, a meno che il museo non diventi un mezzo per trasportare le ceneri in città, o la trasformazione di un cimitero in un museo.
La nostra epoca venera il progresso e la sua piena espressione – la mostra, cioè la lotta, l’estrusione – e naturalmente vorrebbe la vita eterna per questa estrusione che chiama progresso, questo perfezionare che diverrà così perfetto da annullare il dolore che necessariamente lo accompagna, come accompagna tutte le lotte. E la nostra epoca non osa immaginare che il progresso possa diventare la conquista della storia, e questo sepolcro, questo museo, diventi la ricostruzione di tutte le vittime del progresso quando alla lotta si sostituirà l’armonia, l’unità per la ricostruzione, condizione necessaria a riconciliare progressisti e conservatori, che si fanno la guerra fin dal principio della storia.
La seconda contraddizione del museo contemporaneo è il fatto che l’epoca che attribuisce valore solamente a ciò che utile finisce per collezionare e conservare ciò che è inutile. I musei servono a giustificare il XIX secolo; la loro esistenza nella nostra età del ferro dimostra che la coscienza non è completamente scomparsa.
Altrimenti sarebbe impossibile comprendere la pratica della conservazione in questo nostro mondo brutalmente utilitarista dove ogni cosa è in vendita, com’è impossibile comprendere l’alto valore di mercato di oggetti ormai inutili e obsoleti. Conservando le cose malgrado la sua propensione allo sfruttamento, la nostra epoca, a dispetto dell’autocontraddizione, continua a servire il dio ignoto (quelli che si sentono al passo coi tempi chiamano le cose cadute in disuso «rottami», dimenticando che se una cosa in disuso è divenuta un rottame è solo perché era già rotta fin dall’inizio. L’unica cosa che non si romperà è quella che avrà la forza di resistere al deterioramento, e che al contempo avrà la capacità – un potere che risiede nella mente – di tornare sempre nuova. Solo questa capacità contiene in sé la forza per contrastare la distruzione; mentre il progresso non fa altro che rivestire il deterioramento di splendore…). Ma questo rispetto per i monumenti del passato sarà preservato con l’avanzare del progresso, con l’aumento dei bisogni fittizi ritenuti necessari in un’epoca che si preoccupa soltanto del presente?
Nelle sue Storie, Erodoto racconta che nell’antico Egitto un debitore diede in pegno la mummia di suo padre al suo creditore, che era abbastanza disposto a concedergli in cambio un prestito. Dato che la mummia aveva per lui un grande valore, il debitore avrebbe sicuramente restituito quanto dovuto per riscattare il pegno. La nostra epoca, continuando a progredire, potrà anche abbandonare completamente tutto ciò che riguarda i nostri antenati, tutti i monumenti eretti alla loro memoria; ma così l’essere umano, avendo perduto la concezione e il senso profondo della parentela, non sarà più un essere morale, e giungerà alla completa impassibilità buddista; niente gli sarà caro, e la società diventerà un vero formicaio, anch’esso per giunta capace di «progredire»!

Ma non si può distruggere il museo; come un’ombra, accompagna la vita; come una tomba, succede a tutti i viventi. Ogni uomo porta un museo dentro di sé, perfino contro la sua volontà personale, come un’appendice morta, come un cadavere, come i rimorsi di coscienza; perché la conservazione è una legge fondamentale che precede l’uomo, poiché vige da prima che comparisse. La conservazione non caratterizza soltanto la natura organica, ma anche la natura inorganica; ma soprattutto caratterizza la natura umana. Le persone hanno vissuto, vale a dire hanno mangiato, bevuto, giudicato, sistemato e messo ciò che era sistemato negli archivi (o ciò che resta della vita, dell’attività, diventa il contenuto dei musei; come i frammenti di utensili da cucina delle epoche preistoriche, per esempio), senza pensare al tempo della morte e delle perdite; la realtà ci ha insegnato che archiviare materiali e trasferire tutti i resti della vita nel museo equivale a trasferirli a un ordine superiore, a un ambito di ricerca, alle mani dei discendenti, a una o più generazioni, a seconda della posizione e dello stato in cui si trova la ricerca, e a seconda della sua estensione. Il massimo grado è raggiunto quando coloro che sistemano le cose sono gli stessi che le studiano, cioè diventano essi stessi membri del museo; in altre parole, quando la ricerca diventa autoapprendimento e così conduce al momento in cui la resurrezione segue immediatamente alla morte. Questo livello non è un tribunale, poiché tutto ciò che è depositato in un museo si trova lì per riabilitare e riscattare la vita, non per giudicare tutti quanti. Il museo è la collezione di tutto ciò che è superato, morto, non più utilizzabile; ma precisamente per questa ragione è la speranza del secolo, perché l’esistenza di un museo dimostra che niente è concluso. Ecco perché il museo offre consolazione agli afflitti, perché corrisponde al massimo grado di sviluppo della società economico-giudiziaria. Per il museo, la morte non è la fine ma solo l’inizio; il regno sotterraneo che era considerato l’inferno, nel museo è un reparto speciale. Per il museo niente è senza speranza, «esausto», ovvero impossibile da rianimare e resuscitare. Solo chi desidera vendetta non vi troverà consolazione, perché il museo non è un potere, e contenendo al suo interno una forza ricostruttiva è incapace di punire – poiché solo la vita può risorgere, non la morte, non la privazione della vita, non l’assassinio! Il museo è l’esempio più elevato del potere e del dovere di restituire la vita anziché toglierla.
Il Cremlino, trasformato in un museo, è l’espressione di tutta la passione, la completezza e l’intesa di tutte le competenze, l’assenza del conflitto interno, l’espressione dell’unità, della pace spirituale e della felicità, ovvero di tutto ciò che manca in questa nostra epoca progressista; un museo è infatti il «mondo superiore». Quando il museo era un tempio, cioè una forza regolatrice che manteneva in vita gli antenati (almeno agli occhi del popolo), allora la volontà, espressa in questa forza (ovvero nel tempio), pur essendo un’opera immaginaria, era allineata alla ragione che la giustificava e riconosceva quest’opera immaginaria come reale. A quei tempi neppure la ragione era separata dalla memoria, e l’atto della commemorazione, che oggigiorno è soltanto una cerimonia, aveva un significato reale; all’epoca la memoria non era soltanto conservazione, ma anche restituzione, sebbene soltanto immaginaria e concettuale ovviamente, ma che tuttavia serviva da garanzia reale per conservare la patria, l’origine comune, la fratellanza. Quando la ragione è separata dalla memoria dei padri, diventa un’esplorazione astratta delle cause dei fenomeni, cioè filosofia. Quando non è separata dalla memoria dei defunti, non va in cerca di principi astratti, ma di padri; la ragione, così orientata, diventa il progetto della resurrezione. La ricerca linguistica supporta questa originaria unità delle competenze: le parole (della lingua ariana, o forse anche di altre lingue) che esprimono la memoria (e nello specifico la memoria dei padri, dei defunti) e la ragione, e l’anima in generale, e infine l’umano nel complesso, contengono tutte la stessa identica radice.
Anche la ricerca psicologica dei positivisti supporta l’unità di memoria e ragione, attribuendo i processi cognitivi alla legge della memoria, dell’associazione, e trasformando la volontà nel principio regolatore dell’azione. Dunque possiamo dire che le muse e i musei sono nati dalla memoria, ovvero dall’uomo nella sua totalità. In altre parole, la ricerca linguistica e quella psicologica ci inducono a pensare che i musei e le muse sono contemporanei all’uomo stesso, sono nati insieme alla sua coscienza. Di conseguenza lo scopo del museo non può che essere lo stesso della danza in cerchio e del tempio ancestrale – che costituisce l’evoluzione della danza in cerchio – ovvero il percorso del sole, il ritorno del sole per l’estate, il risveglio della vita laddove durante l’inverno era svanita. La differenza sta soltanto nei mezzi dell’azione, che non avevano alcun potere reale nella danza in cerchio e nel tempio; l’azione di un museo deve avere un potere che restituisce, che dà veramente. Questo sarà, quando il museo stesso tornerà cenere e creerà gli strumenti per regolare le forze della natura distruttive e letali che lo controllano.
Non sarebbe un’esagerazione dire che il museo, come espressione dell’anima intera, ci restituirà la pace spirituale, l’armonia interiore, ci renderà felici come al padre il pensiero del ritorno del figliol prodigo. Il malessere della vecchiaia consiste esattamente nella rinuncia al passato, nella rinuncia a un proposito comune a tutte le generazioni. Questo malessere ha spogliato la nostra vita di ogni scopo e significato, e nella letteratura ha creato i Faust, i Don Giovanni, i Caino e in generale i tipi insofferenti, mentre in filosofia ha creato il soggettivismo e il solipsismo. Quando non c’era conflitto tra le competenze, non c’era separazione tra la religione (come culto degli antenati) e la scienza e l’arte (divine o terrestri, o occulte che fossero). Poiché l’uomo allora era un essere completo e sano, non c’era alcuna separazione tra la sfera della conoscenza e quella dell’azione. Non c’erano steccati a separare queste due sfere, non erano limitate al tempo verbale presente, volte a soddisfare soltanto il desiderio animale, come accade oggi che sono state separate dalla religione, a causa dell’ostilità verso quest’ultima. I primi saggi (non ancora filosofi) furono gli astronomi, seguaci probabilmente della musa Urania. Non erano soltanto sperimentatori della natura, nel significato corrente della parola, ma anche antropologi e teologi. Così, «saggi» e «astronomi» erano termini equivalenti, e la saggezza risiedeva nell’astronomia, che abbracciava tutto ciò che è divino e umano, celeste e terreno, morente e vivente, e non era soltanto conoscenza astratta ma anche apprendimento e venerazione dei padri-antenati. La questione della morte dell’uomo, della fine o distruzione del mondo, è una questione teo- e cosmo-antropologica, o astronomica, il che equivale a dire la stessa cosa. Non poteva nascere dalla curiosità fine a se stessa, perché all’epoca non c’era ancora chi viveva soltanto delle conoscenze acquisite nella biblioteca. E non poteva esserlo perché allora la conoscenza non era ancora separata dall’azione, nemmeno dall’azione immaginaria, di cui ancora non si percepivano i limiti, dato che ancora non si riuscivano a separare le proprie azioni da quelle della natura. I saggi ionici mettevano in discussione soltanto i mezzi dell’azione, la realtà delle azioni mitiche, che come si credeva allora trasformavano il paradiso nella terra dei morti, e dunque cercavano non solo quell’elemento a cui tutto ritorna e da cui tutto deriva, ma anche quella forza che lega insieme tutto e tutto dirige. Ad ogni modo, neppure la scienza contemporanea ha il diritto di esistere da sola, e deve considerarsi il mezzo di indagine della vera natura dell’azione reale anziché di quella mitica e artistica, ma non ha diritto a considerarsi la conoscenza fine a se stessa, né di sottrarsi all’obbligo di servire uno scopo comune. Se una tale pretesa, un tale sconfinamento nella libertà individuale, può sembrare scioccante a un uomo contemporaneo, è perché si ha l’abitudine di pensare che la libertà di un individuo sia assoluta, in un secolo che non accetta nulla come assoluto. Il diritto a questa libertà non è altro che il diritto di vivere secondo i propri capricci, rendendo la vita vuota e banale, per poi chiedersi disperati: «Vita, perché mi sei stata data?».

Ecco perché, secondo il principio dell’unità di conoscenza e azione, gli astronomi non hanno il diritto di sottrarsi all’obbligo di servire, un dovere assegnato all’uomo alla nascita; neppure gli studiosi di scienze naturali hanno questo diritto, dato che la loro scienza non è altro che una branca della scienza del cielo, una digressione dalla scienza dell’universo. In base allo stesso principio, l’osservatorio è necessario a un museo di tutte le scienze così come i sensi esterni e gli organi della percezione sono necessari a ogni uomo per i sentimenti e la memoria. Per «osservatorio» non intendiamo un organo della scienza astratta, ma dell’astronomia fisica, di una scienza chimica di tutte le sostanze, organiche e inorganiche, vegetali, animali e umane; così l’umanità (che solo nel suo complesso può costituire un museo) osserva l’universo intero dall’osservatorio, dall’esterno, e osserva l’uomo stesso dal lato antropologico. Un osservatorio osserva il mondo che, per così dire, si fonde con la memoria dei defunti, la memoria del passato. Il passato è il soggetto della storia. L’osservatorio ha la propria origine nello gnomone, del quale attribuiamo l’invenzione ai saggi ionici. Probabilmente l’uomo primitivo misurava il tempo usando la sua ombra; in seguito, con la vita urbana, a quel modo di misurare il tempo si sostituì lo gnomone, uno strumento per misurare l’agire e la vita delle persone; per questo gli orologi (perlopiù clessidre) divennero un attributo della morte. Con l’aiuto dello gnomone, l’uomo creò anche un calendario sul quale annotava non solo i tempi del declino e della rinascita della natura (vacanze), ma anche i giorni della morte dei padri, dunque i giorni della commemorazione degli antenati. Ecco perché un museo, come costruzione della memoria dei padri e di tutto ciò che riguarda il passato, è inseparabile dall’osservatorio (una torre, l’osservatorio originario e il più semplice, è un accessorio naturale e necessario del museo, perché il museo è la creazione di un essere che ha assunto la posizione verticale ed è rivolto verso il cielo, così ostile ed estraneo da metterlo nella posizione di guardiano, una posizione distaccata dal paradiso, dalla quale resta in attesa di un attacco dai suoi vicini e chiede di essere liberato). I calendari astronomici erano termali, ottici e in generale fisici e chimici, poiché le forze della natura – specialmente le forze biologiche, organiche – cambiano a seconda del momento della giornata e del periodo dell’anno.
L’importanza formativa degli osservatori come scuole esige che lo sguardo pigro sia obbligato all’osservazione, in modo che il cielo abbia tanti osservatori quante sono le stelle. Il cristianesimo platonico tentò di mantenere «alto» il pensiero, ma per evitare che il pensiero cada «in basso» bisogna alzare gli occhi al cielo e trasformare la contemplazione in osservazione.
Perciò l’osservatorio è collegato al museo come i sensi esterni (che complessivamente formano un osservatorio) sono collegati alla ragione, ma alla ragione nel senso più ampio, o meglio nel suo significato reale e nella sua effettiva importanza: alla ragione che non può essere separata dalla memoria dei padri, e che contiene in sé un tutto indivisibile; a quella ragione che solo il figlio dell’uomo possiede, elevata allo status di criterio di umanità, mentale e morale.
Il museo, allora, unendo i figli dell’uomo nello studio universale del cielo o universo, trova nell’osservatorio non un deposito di semplici registri e istantanee fotografiche del cielo e delle stelle, e in generale di osservazioni storico-naturali; per un osservatorio astronomico non esiste passato, così come non c’è passato per il moto del sistema solare, che è un evento continuo rivelato dal cambiamento della posizione delle stelle; perciò gli astronomi devono ricordare e avere sempre ben chiara in mente la posizione delle stelle, registrata nel più antico dei cataloghi. Così la memoria si fonde con la ragione, e il passato con il presente, al punto che la morte di chi osserva è soltanto un cambio della guardia che organizza la regolazione del mondo e apre la strada al controllo su di esso. L’impossibilità di esercitare questo controllo ha privato l’uomo della facoltà di mantenere e restituire la vita. Allo stesso modo non c’è passato per la scienza naturale, poiché questa non è altro che una rappresentazione umana della natura, o (cosa equivalente) un progetto dell’intera razza umana per controllare la natura messo in atto in forma di museo. Il museo, dunque, è un’impresa storica non solo nel senso della conoscenza, ma anche dell’azione: come scienza naturale, è l’astronomia con tutte le scienze fisiche che contiene; ma la scienza naturale è uguale alla storia, è il progetto del controllo messo in atto.

Tuttavia, un museo che sia soltanto un osservatorio, che offre solo ricognizione, non è che un organismo senza organi funzionanti, senza mani e piedi. Perché l’umanità nel suo complesso è ancora incapace non solo di azione ma anche di movimento, a meno che non accettiamo come tale il moto della Terra, che accade indipendentemente dall’uomo. Se città e villaggio restano separati, questo organismo (un museo con un osservatorio) resterà senza mani, e il museo storico-naturale rimarrà esterno al processo della natura, non sarà la sua ragione; le memorie conservate nel museo non saranno una resurrezione vera e materiale, né un regolatore della natura. È a causa di questa separazione tra città e villaggio, e di questa concentrazione di vita mentale nella prima, che la natura ci sembra elusiva e la accusiamo di nascondersi da noi. Non sarebbe più giusto dire che non la scopriamo per mancanza di tempo, tempo che occupiamo nella produzione e in tutte le attività correlate? Siamo così indaffarati che non possiamo formare degli osservatori e dei ricercatori, perché fin dall’infanzia li schiavizziamo nella fabbrica per soddisfare i nostri desideri più triviali. È altrettanto ingiusto dire che la natura non ci dà modo di scoprirla, e che avendoci attaccati alla Terra ci impedisce di controllarla. Queste lamentele sono tanto giustificate quanto la lamentela più antica che la natura ci ha privato della possibilità di navigare gli oceani finché non ci è riuscito Colombo. E attualmente, con le immagini fotografiche del sole, per esempio, abbiamo tutto ciò che ci serve per comprendere la natura del sole, e se ancora non abbiamo usato e interpretato tutti i dati che abbiamo a disposizione è colpa nostra.
L’astronomia, una volta riunita con le scienze da cui è stata ingiustamente separata facendo sì che quelle dimenticassero la loro origine, come la fisica e la chimica delle sostanze organiche e inorganiche (perché ci possono essere una fisica e una chimica della Terra o dei pianeti, dei soli, degli spazi interplanetari o intersolari, ma le uniche persone che possono difendere l’indipendenza e la separazione di queste scienze sono quelle che non riconoscono l’opera comune della razza umana), l’astronomia sarà trasformata in astrocontrollo, e l’essere umano diventerà l’astrocontrollore, che è la sua vocazione naturale.
Non soltanto la fisica, la chimica e le scienze naturali in generale, ma anche la filosofia: tutte sono state scollegate dall’astronomia. I primi filosofi o saggi erano astronomi, il tempio fu il primo ritratto del mondo, e la Terra era considerata un fondamento e il primo elemento dell’essere (non è possibile per l’uomo non creare somiglianze, le somiglianze sono necessarie per analizzare l’idea e in parte per la dimostrazione; e se una chiesa secolarizzata e secolarizzante è un museo, allora anche gli astrolabi, i globi, furono all’origine del museo). Ma per un filosofo, che non è un saggio ma soltanto un amatore, un virtuoso della saggezza, per un filosofo nel senso letterale della parola la Terra non è più un fondamento, un elemento. Per Anassimandro, per esempio, la Terra era una meteora e restava immobile a causa della sua equidistanza dalle estremità dell’universo. Così si cominciò a costruire la visione copernicana del mondo; il cielo non era soltanto l’altezza ma anche la profondità, circondava la Terra. La ricerca della spiegazione attraverso la teoria, e la ricerca di un fondamento, di un supporto, attraverso la pratica erano la manifestazione necessaria di un essere che assumeva una posizione verticale instabile. Lo stesso problema del fondamento riguarda la Terra nel suo complesso. Se pensiamo a come la paura della distruttibilità della Terra, della fine del mondo, è stata una costante della storia, non sarà difficile comprendere perché la questione del fondamento, di una ragione che spieghi il mondo, è sempre rimasta aperta. Che enorme cambiamento nelle visioni del mondo si dev’essere verificato quando Anassimandro, anziché darle un fondamento solido, una base, o perfino un liquido come lo considerava Talete, lasciò la Terra al centro senza alcun supporto tangibile, avendo unificato il concetto della base con quello della circonferenza del mondo, e il concetto della sommità con quello del centro; divenne necessario creare una fisica totalmente nuova, una nuova concezione dei corpi in caduta. Per Anassimene fondamento del mondo e suo primo elemento era l’aria, che considerava l’anima del cosmo e dell’uomo. Pitagora era già diventato il Copernico dell’antichità, ma in questo mondo il trionfo è andato al sistema di Tolomeo. Ma nella nuova visione del mondo il sistema copernicano non reggerà, a meno che non acquisisca un valore pratico.
La separazione della filosofia dall’astronomia ha reso incomprensibile il problema stesso delle basi, del fondamento, della ragione.
La filosofia, cercando il significato di ogni cosa, ignorava la sua stessa origine, la sua ragione d’essere, e smarrì il senso della sua esistenza. La paura della distruzione del mondo, i dubbi sulla sua stabilità, fecero emergere una nuova scienza delle condizioni di stabilità, di conservazione e ricostruzione della Terra dal suo elemento primario. L’astronomia cercava l’indistruttibile, dal quale si poteva ricostruire ogni cosa. Ma l’astronomia stessa era nata dal declino della religione, che considera sempre se stessa come la depositaria dei mezzi di conservazione e ricostruzione del mondo. Fu la questione del mantenimento e della ricostruzione a rendere comprensibili la fisica, la chimica e la filosofia stessa.
Il conflitto costante portò in primo piano il problema del mondo e della società, ed eclissò la questione universale fondamentale. La storia, avendo come oggetto gli eterni conflitti, si separò in una scienza a sé; ma finché parlerà dell’uomo come di un creatore di discordia, finché guarderà alla vita della razza umana così com’è adesso soltanto come un fatto, senza domandarsi cosa dovrebbe essere, senza un progetto di vita futura, l’umanità non scoprirà nell’astronomia, né nell’arte cosmica o nella regolazione del mondo il suo scopo comune.
Per raggiungere la pace interiore e l’armonia spirituale, senza le quali la pace esterna è impossibile, non dobbiamo essere nemici dei nostri antenati, ma grati discendenti; non basta limitarci alla commemorazione interiore – a un semplice culto dei morti –, è necessario che tutti i viventi si uniscano come fratelli nei templi degli antenati, o nel museo, che contiene non soltanto l’osservatorio ma anche il regolatore astronomico; questo trasformerebbe la forza cieca della natura in una forza diretta dalla ragione. Così l’insensibilità non prevarrebbe, non ucciderebbe il sensibile, e tutto il senso sarebbe ristabilito, e tutti i mondi sarebbero riuniti in generazioni risorte, e si aprirebbe uno spazio infinito per la loro attività congiunta. Solo così il conflitto interno diventerebbe inutile e impossibile.


