Una stanza piena di solitudine che affaccia su un mondo di glamour e decadenza
Era il 28 maggio 2012 il giorno in cui Classical Curves, il debutto di Jack Latham, in arte Jam City, raggiunse finalmente i nostri padiglioni auricolari trovandoci totalmente impreparati a quei suoni così taglienti, lucidi e perfettamente digitali. È vero, c’erano già state ovviamente delle avvisaglie, e queste provenivano in parte dal suo Waterworx EP, dell’anno prima. Ma c’è da dire che quelle caratteristiche non erano esclusivamente peculiari della sua poetica, dal momento che sia Waterworx EP che Classical Curves erano stati prodotti da Night Slugs. Questa etichetta nasceva dalle ceneri di una serata post-dubstep londinese, e fu fondata da Bok Bok e L-Vis 1990, due nomi che, assieme a Jam City e altri, popolavano la celebre serie di compilation che prese avvio dal 2010, Night Slugs Allstars.
Dalla label londinese nacquero infatti alcune tra le più innovative proposte nel campo della musica elettronica dell’ultimo decennio. Il sostrato sul quale queste sperimentazioni venivano collaudate era il grime di matrice wileyana, naturalmente privato della componente vocale – o quantomeno di quella legata all’hip-hop. Se il grime, perlomeno quello proto- di Wiley, risultava ancora grezzo e freddo, ancorato a cadenze e sensazioni provenienti dalle famose «quattro discipline», nei dischi Night Slugs si arricchiva di tutte quelle asprezze e al tempo stesso di quelle rotondità gommose tipiche del dancefloor. Il giro Night Slugs e quello della sottoetichetta Fade to Mind, che valorizzava i momenti più spigolosi e oscuri dando asilo discografico a gente come Kingdom, Massacooramaan, Fatima Al Qadiri, Kelela, Ngunguzu, Leonce, Rizzla e altri, rappresentarono un’esperienza particolare della Londra pre-Brexit: un modo per ribadire come, dopo gli splendidi impantanamenti hauntologici della nostalgia raver di Burial, il grande basso dell’hardcore continuum che pulsava da anni nella capitale inglese tornasse a battere con la freccetta direzionata verso il futuro. Classical Curves fu certamente l’album più audace da questo punto di vista.
Ma Jam City sembra essere animato da uno spirito pluridimensionale, dal momento che a fare seguito a quel capolavoro di bassi e linee di synth impossibili ci fu un disco che poco aveva a vedere con il precedente. Dream a Garden usciva nel 2015 sempre per Night Slugs, ma era un disco che toglieva il piede sull’acceleratore del grime per mettere in risalto piuttosto la sua vena funky e addirittura cantautoriale. Si tratta di un disco sperimentale, ma sotto forma di canzoni vere e proprie che intrallazzavano con i rumorismi dell’elettronica astratta e i suoni del synth-pop anni Ottanta. Nonostante le premesse sonore, il disco prendeva spunto dai disordini inglesi del 2011 – che visti a posteriori tanto fanno pensare a quelli americani di quest’anno – e dagli scritti dell’autrice femminista bell hooks. L’EP Trouble dell’anno successivo proseguiva su quella stessa onda.
Da quel momento non abbiamo più avuto dischi di Jam City. Negli anni di silenzio discografico c’erano state molte produzioni, come quella per Kelela o altre che avevano contribuito allo sdoganamento del suono latino al di fuori del vecchio machismo reggaeton, come ad esempio quelle per Bad Gyal, La Zowi e Florentino. All’inizio di quest’anno, dopo aver informato del fatto che il suo account Twitter era stato violato, preannunciava una collaborazione con Charli XCX. Dopo qualche mese, esattamente il 5 novembre, attraverso questo video annunciava l’arrivo imminente di un nuovo album intitolato Pillowland. E con l’arrivo di Pillowland, arriva un nuovo cambiamento. I suoni si fanno lisergici e pieni di colore, tutto è sbiadito come nei sogni. Un disco pieno di melodie che sembra uscito dalla discografia di Ariel Pink. Un disco pop bellissimo.
Davanti all’ennesimo cambio di rotta mi sono ritrovato piuttosto spiazzato – piacevolmente spiazzato, così ho chiesto chiarimenti direttamente a Jack.
Riccardo Papacci: Cosa hai fatto in questi cinque anni di assenza?
Jam City: Ho lavorato un po’ di più dietro le quinte, scrivendo e producendo con diversi artisti come Troye Sivan, Kelela, Conan Gray, Bad Gyal e molti altri. La mia vita è cambiata parecchio dopo Dream A Garden, quindi non ho sempre avuto il tempo e la concentrazione per sedermi e fare un disco di Jam City, anche se mi sarebbe piaciuto. Ho attraversato un sacco di cambiamenti, sia personali che professionali, sono cresciuto molto, ho fatto il punto sulle mie relazioni e su dove mi trovo nella mia vita… quindi a volte comporre la mia musica non sembrava la più grande priorità, sia emotivamente che creativamente. Diciamo che a volte la vita si mette in mezzo, ecco. Ma all’inizio della pandemia stavo finalmente finendo Pillowland e avevo pianificato dei modi per eseguirlo dal vivo, insieme ad altri musicisti, con immagini, scenografie e spettacoli. Sarebbe dovuto essere un live davvero spettacolare – una sorta di Opera sperimentale! Quindi, quando invece a marzo hanno chiuso tutto, mi è venuta voglia di mollare. Ma in un certo senso, penso che qualcosa sulla gravità della situazione e questa nuova deprimente vita che siamo stati tutti costretti a vivere mi ha fatto sentire di dover pubblicare questo album. Volevo disperatamente sentire una connessione con il mondo esterno… Gran parte del disco riguarda la solitudine, il desiderio, la brama di qualcosa che non puoi avere, temi che sono diventati molto appropriati quest’anno, per tutti quanti. Ho solo pensato: devo pubblicare questo album adesso, in un modo o nell’altro.
Considero Classical Curves uno dei dischi più importanti degli ultimi dieci anni. Puoi dirmi cosa ricordi di quegli anni e come consideri quel disco oggi?
Onestamente volevo solo divertirmi e fare qualcosa di diverso in quel momento. Avevo anche appena incontrato la mia attuale moglie (era intorno al 2011): è a lei che va il merito di avermi dato la sicurezza di provare a dire qualcosa con la mia voce per la prima volta. Penso che la maggior parte degli artisti, me compreso, tendano a voler prendere le distanze dal loro lavoro passato, è naturale. Ma negli ultimi anni mi sono affezionato di nuovo a quell’album, ha un posto speciale nel mio cuore.
Ti interessa ancora la scena dance? C’è qualcosa nel campo della musica elettronica che stai seguendo ultimamente?
Assolutamente. Sono molto indietro con le nuove uscite, ma circa una volta ogni sei mesi provo a fare un grande recupero su Soundcloud, Boomkat, Bandcamp, presentazioni demo, ascolto di mix radiofonici ecc… Onestamente la amo così tanto in questo momento che è difficile ricordare tutto, ma mi sono divertito con questa techno molto dura e oscura che gira in questo momento. Amo la musica di Baby Blues, Boy Harsher, Emma DJ, ho adorato il disco di Oli XL, l’album di Zora Jones, Florentino, l’ultimo album di Andy Stott… Actress è ormai diventato una leggenda, ed è sempre stato un’enorme ispirazione per me. Adoro gli ultimi album di Arca, SOPHIE e Cashmere Cat. Inoltre, nella scena elettronica non se ne parla molto, ma i sound design e le produzioni di livello più avanzato li stiamo vedendo nella scena hip-hop e loop library. Ho conosciuto alcune di queste persone e sono costantemente ispirato dal loro approccio alla produzione e alle melodie.
Classical Curves è stato un disco che ha cambiato la musica elettronica, Dream a Garden e Trouble sono una sorta di mix tra l’elettronica astratta e la canzone pop anni Ottanta. Nel frattempo ci sono stati remix a Perfume Genius, produzioni con Kelela e Bad Gyal, e ora Pillowland: mi sembra un album pop a tutti gli effetti. Possiamo chiamarlo così? Come lo definiresti tu?
Sì, anche se devo aggiungere che tutti i miei dischi da Classical Curves in poi sono pop, ma prima di tutto sono dischi underground. Lavorare con vere pop star mi ha insegnato esattamente il tipo di lavoro che va fatto per dischi che hanno l’ambizione di diventare veramente popolari e di piacere alle persone su una scala molto più vasta, ma nel mio cuore resterò sempre uno, come dire… strano! Quindi, quando si tratta di musica di Jam City, faccio solo quello che sento. Posso essere un po’ weird o free, ma le canzoni dovrebbero essere sempre melodiche, carine e possibilmente orecchiabili, oltre a essere costruite su forti progressioni e hook. Queste sono tutte cose che esigo, e devono essere ben fatte.
Come ti sei ritrovato a scrivere canzoni per chitarra e flanger? È cambiato qualcosa in te o semplicemente hai voluto sperimentare nuove sonorità? Voglio dire, non è che per caso, nel frattempo hai avuto qualche folgorazione… tipo l’emo-trap, o cose di questo genere?
Suonavo la chitarra quando ero più giovane, ma non l’ho mai presa troppo sul serio. Poi l’ho ripresa perché mi sembrava che la musica che stavo facendo mancasse di emozionalità. Ora la uso come un piccolo album da disegno, dove posso elaborare accordi e melodie e poi se mi va trasformarli in qualcosa di più futuristico e moderno… Adoro il suono della chitarra, è uno strumento così versatile. La maggior parte dei synth lead su Pillowland sono in realtà di chitarra, ma elaborati attraverso Ableton in modi particolari che mi sembravano interessanti.
In Pillowland ho trovato diverse sonorità anni Settanta e Ottanta, ma mixate secondo quella formula retromaniaca che andava molto di moda qualche anno fa. Gente come Ariel Pink, Neon Indian ecc. Ti piace quel genere?
Sono un grandissimo fan di Ariel Pink. Scared Famous, Loverboy… sono tutti dei classici. Autore straordinario, produttore straordinario.
Il mio amico Marco Caizzi ha trovato molto Prince nel tuo Pillowland, ma io ci ho trovato anche diverse atmosfere simili ai T-Rex. Quali sono i tuoi riferimenti musicali del passato?
Amo molto i T-Rex e trovo la storia di Marc Bolan molto interessante, in particolare il fatto che abbia origini umili e un background working class ma sia riuscito a creare uno stile completamente nuovo di musica e immagine. Raggiunse quel tipo di vita da pop star classica ottenendo esattamente ciò che sognava per poi perdere tutto. Per non parlare del suo declino e della sua morte così tragica. La produzione di Tony Visconti su quei dischi è fenomenale, l’uso di delay e double tracking, e gli arrangiamenti di archi e i suoni di batteria asciutti. Si sente l’influenza di molto di ciò che è successo dopo nella musica elettronica. E proprio ultimamente stavo ascoltando un sacco di rock che sarebbe potuto essere in qualche modo elettronico, o viceversa: Suicide, T-Rex, Throbbing Gristle, i Velvet…
Mi sono sempre piaciuti gli artwork dei tuoi dischi, ma quest’ultimo è psichedelico e pieno di colore. Cosa rappresenta per te?
Una stanza piena di solitudine, speranza e desiderio, che affaccia su un mondo fantastico di glamour, decadenza e significato che resta sempre appena fuori portata.
Da quanto ho capito, ti sei trasferito negli Stati Uniti. Se posso chiedertelo, perché questa scelta?
La mia compagna ha trovato un lavoro in California e io ci stavo andando spesso nello stesso periodo per suonare in alcuni show. Quando sono arrivato, sono stato coinvolto da Kelela per Take Me Apart e ho incontrato anche il mio attuale editore, quindi sono rimasto negli Stati Uniti per circa un anno. Vivo a Londra adesso, ma, Covid permettendo, tendo ad andare negli Stati Uniti per un paio di mesi all’anno per lavorare a progetti di altre persone.
Quale è stata la tua esperienza della pandemia e in generale di questa situazione caratterizzata dal Covid-19?
È stata dura. E io sono uno dei fortunati. Parlo con molti amici artisti e siamo tutti d’accordo sul fatto che avere questo sbocco creativo aiuta sicuramente: avremo sempre qualcosa con cui tenerci occupati, anche se il lockdown non è esattamente una cosa che ci «ispira» a fare musica. Ma ogni momento di tempo libero per lavorare sulla musica compensa la mancanza di amici, famiglia e della vita reale. È tragico, cos’altro dire…