Il fantasma dell’America
Shadowbahn di Steve Erickson (Il Saggiatore, 2018) è un libro infestato da fantasmi.
Cos’è un fantasma? Un fantasma è un’illusione o uno spettro. La prima appartiene a un contesto naturalistico (un’allucinazione, la percezione deformata di qualcosa), l’altro è un elemento soprannaturale. Entrambi sono accomunati dall’essere apparizioni. Al di là della realtà o meno dell’oggetto – decretata a posteriori –, l’apparizione è caratterizzata dal presentarsi agli occhi in maniera improvvisa o inattesa. È la modalità con cui si presenta a sconvolgere chi guarda, ancora prima della realtà o irrealtà del fenomeno: nel momento in cui appare, l’apparizione è sempre reale, perché percepita, e irreale, perché non dovrebbe essere lì dov’è.
In Shadowbahn i fantasmi sono molti e molteplici. Il primo fantasma è un riferimento che nel libro non c’è ma che in qualche modo sembra prefigurarne l’idea nucleare della trama: in Jesse di Scott Walker, contenuta nel capolavoro di angoscia che è The Drift, Elvis Presley è probabilmente alle porte dell’overdose che lo ucciderà («Nose holes caked in black cocaine») mentre parla a suo fratello gemello Jesse, morto alla nascita quarant’anni prima; Elvis ha una visione delle Torri Gemelle che cadono. La canzone si chiude con il lamento di Walker nei panni di Elvis, che sembra collegare il suo destino a quello delle Torri e ripete «I’m the only one left alive».
La storia di Shadowbahn parte con un’immagine: le Torri Gemelle riappaiono a vent’anni di distanza dal crollo, nel mezzo delle Badlands del South Dakota. La gente accorre. Nessuno sa che al novantatreesimo piano di una delle due torri c’è anche Jesse, il fratello nato morto di Elvis Presley.
Questa è l’idea di base. Molto del libro resterà un enigma. Da un certo punto in poi la traccia che abbiamo seguito comincia quasi a dissolversi, mentre le voci dei personaggi e i loro destini individuali prendono il sopravvento sullo sviluppo del romanzo. Anche loro come spettri attraversano il libro e ne escono, quasi che il romanzo fosse appunto la Shadowbahn nominata nel libro, una semi-leggendaria autostrada fantasma.
La strada perduta ci porta a un mondo alternativo, in cui è sopravvissuto Jesse Presley e non il fratello. In questo mondo non si è mai affacciato nessun Elvis, non sono esistiti i Beatles e Kennedy non è diventato presidente. E Jesse è perseguitato dalla consapevolezza di quello di cui ha privato il mondo con la sua nascita.
La strada perduta è quella cercata e percorsa dai due fratelli Parker e Zema, che attraversano l’America per raggiungere le Torri riapparse, mentre ascoltano nell’autoradio le vecchie playlist del padre. La strada di Shadowbahn è il suo viaggio e allo stesso tempo la sua colonna sonora. È il viaggio stesso che emana la sua colonna sonora. La musica è il paesaggio.
Voci
L’EVP (Electronic Voice Phenomenon) è quel presunto fenomeno per cui voci soprannaturali potrebbero abitare radio e altri dispositivi elettronici. Ma la radio è di per sé abitata da fantasmi: voci sconosciute che percorrono il tempo cantando le stesse parole, destinate esattamente a noi, esclusivamente a noi in quel preciso momento.
In Shadowbahn le canzoni si inscrivono nel testo stesso, frasi in corsivo che recitano una strofa di una canzone non specificata. Come interferenze radio o voci di fantasmi.
È interessante ripensare adesso a quel segreto spunto iniziale della canzone di Scott Walker, perché sembra collegare fondativamente il libro alla musica: le canzoni ne sono i fantasmi più numerosi e forse più ingombranti. Shadowbahn prova a realizzare il sogno di una storia d’America attraverso un’immaginaria playlist potenzialmente infinita e onnicomprensiva. L’identità esplosa di una nazione esplosa ricostruita attraverso le sue canzoni. La musica diventa storiografia, che diventa paesaggio nel momento in cui viene vista attraverso il finestrino di un’auto in corsa.
La ricerca dell’identità è un tema principe di Shadowbahn. È successo qualcosa, prima degli eventi raccontati nel libro, una «Disunione» che ha lacerato gli Stati Uniti (da notare che da qualcuno il libro è stato descritto come il primo romanzo dell’era post-Trump). Il viaggio dei fratelli Parker e Zema assume il significato di una ricerca identitaria che ha valore a un tempo individuale e collettivo. La ricostituzione di questa identità perduta passa per i testi delle canzoni che ascoltano, come versi di un libro sacro recitati dall’autoradio.
Nella playlist si va da Venus in Furs a Naima, da Summer Wine a Hellhound on my Trail, da One Nation Under a Groove a Seven Nation Army. Se cercate, troverete online diverse playlist del libro generate dai lettori, tutte un po’ diverse tra loro. La musica scelta per il libro è assemblata con criteri più o meno trasparenti: certe volte viene evocata una frase del testo di una canzone perché ha senso in uno specifico punto del libro, certe volte per raccontare una storia dietro il brano, certe volte per il musicista che l’ha suonata.
Come ogni playlist è arbitraria. Come ogni selezione è arbitraria. Ma soprattutto racconta del libro ed è raccontata dal libro. Sembra nascondere il nucleo del testo nelle rifrazioni dei brani e allo stesso tempo dilatarlo. Interferenze che rendono il libro quasi una forma ipertestuale. Lo abitano e lo animano, sono le sue Geistervariationen.
Possessioni
Il fantasma è una musica.
Nel 1854 Robert Schumann tenta il suicidio gettandosi nel Reno. Viene salvato e internato in manicomio, dove resterà fino alla sua morte. Sembra che il giorno del tentativo di suicidio sua moglie Clara abbia suonato per la prima e ultima volta le «Variazioni del fantasma», l’ultima composizione di Robert. Le Geistervariationen le sono state consegnate dal marito pochi giorni prima. Robert dice di aver ricevuto la visita notturna di Schubert e Mendelssohn, che gli cantano un tema musicale misterioso e seducente. Robert trascrive rapidamente il tema per non dimenticarlo. Ma Schubert e Mendelssohn sono morti da tempo, e il suggerimento del tema avviene dunque per opera di due fantasmi. Già da tempo Schumann crede che la sua musica gli venga suggerita dalle voci degli spiriti.
Le Geistervariationen (già elaborate come ossessione/maledizione nei Memoriali sul caso Schumann di Filippo Tuena) possiedono il corpo di Schumann e lo condannano già nel momento in cui lo visitano e gli donano una musica «dettata dagli angeli».
Anche la musica di Shadowbahn lavora come una possessione. Infesta e possiede le Torri, l’auto di Parker e Zema, i loro corpi, il libro stesso che stiamo leggendo.
Le Geistervariationen non sono un testamento né un addio, e non sono nemmeno soltanto espressione della pazzia. Sono l’emblema della possessione del fantasma: come tali sono il canto di un corpo in lotta, già sulla strada per il manicomio ma ancora fuori da esso. Rappresentano l’ultima creazione di Schumann o la prima dei suoi fantasmi. Sono un saluto al mondo e a Clara e allo stesso tempo una rivendicazione (come se Robert dicesse: «Io sono qui, adesso, già altrove, e questa è la mia voce»).
La possessione è una forma di nostalgia. Una voce, una musica, una creatura di un altro tempo possiede un corpo presente. Ma la distanza tra i due esseri non può essere annullata, perché la possessione è falsa prossimità. Il corpo abitato non può essere davvero toccato, nessun fantasma ritorna davvero.
Nostalgia
Il fantasma ruota attorno a un’assenza, e la nostalgia è lo sguardo su un’assenza o da un’assenza.
Nelle poesie di Georg Trakl torna spesso la figura di un certo Elis, in un componimento definito «fanciullo». Non si sa se Elis sia un ragazzo effettivamente esistito, morto prematuramente, o il simbolo di un mondo perduto.
Un cespuglio di rovi risuona,
dove sono i tuoi occhi lunari.
Oh, da quanto tempo sei tu, Elis, estinto.
Ma sia se un rimpianto per un mondo perduto, sia se il lutto per un bambino effettivamente esistito, è difficile non sentire nel lamento per Elis un lamento di Trakl per lo stesso Trakl. Non è il suo stesso fantasma, quello che Trakl piange? Non è anche Elis un doppio, un altro Jesse per un altro Elvis?
In Trakl, le cose sono vere e allo stesso tempo fantasmi perché sono viste da uno sguardo alieno, come se il poeta vedesse le cose dopo la sua stessa morte.
Dice Nicola Lagioia: «Il momento più alto della poesia di Trakl è farci sentire (ma in un modo così sottile che la sfioriamo e dubitiamo subito dopo di averla avuta tra le dita) la sensazione che quel paesaggio il poeta lo stia guardando dal futuro, quando non solo il paesaggio sarà un altro o distrutto, ma il poeta stesso sarà morto.»
È lui il dipartito (Abgeschiedene, come si definisce Trakl. Straniero, allontanatosi dal resto degli uomini). Lui può evocare le cose chiamandole al mondo attraverso la sua poesia. La possessione, quando incorporea, diventa evocazione.
Il fantasma del poeta parla non solo rivolto al passato, da un altrove, ma racconta il tempo che verrà, ne preconizza le tragedie della storia e le future guerre («Io anticipo le catastrofi mondiali», scrive Trakl in una lettera a Johannes Klein). La poesia di Trakl è intessuta di un presagio di minaccia ineliminabile.
La catastrofe è una chiusura della Storia. Baudrillard: «La catastrofe è l’evento bruto massimo […] l’evento senza conseguenze e che lascia il mondo in sospeso». Ogni catastrofe chiude un senso del tempo e non lo fa proseguire (per questo non ha conseguenze). Il crollo delle Torri è la catastrofe che avviene già nel tempo alla fine della storia.
Il crollo delle Torri lascia il corpo dell’America monco. L’eliminazione dell’arto crea talvolta in certi pazienti un arto fantasma, che è – nelle parole di Thomas Metzinger – «la persistente e inconfondibile impressione che l’arto amputato sia ancora presente e faccia ancora parte del loro corpo».
Ma il crollo è fondativo dell’identità post 11 settembre. La catastrofe avvenuta all’inizio o alla fine del tempo senza storia non fa iniziare un nuovo tempo, ma permane come fantasma battesimale. Talvolta d’altronde l’arto fantasma è sentito anche da chi è nato senza arti: «Per quanto ne aveva memoria [la paziente AZ], aveva sempre avuto esperienza di immagini mentali delle sue braccia […] e delle sue gambe […]» e «la consapevolezza dei suoi arti fantasma veniva temporaneamente interrotta solo quando qualche persona o qualche oggetto invadeva la loro posizione sentita, o quando osservava se stessa allo specchio». E spiega Metzinger: «La domanda interessante è questa: le braccia e le gambe allucinate di AZ sono componenti di un modello corporeo innato?»
Il fantasma che non muore
L’America è rimasta post-Crollo e non ha inaugurato una nuova epoca. Esiste il fantasma di un corpo totale, integro, dove ancora esistono le Torri. In piedi solo come fantasmi: esse hanno già nel loro destino (presente o passato, senza tempo) il Crollo.
Ogni sguardo a esse rivolto sarebbe già nostalgico. Da che lato staremmo? Sarebbe il vivente che rimpiange il morto o il fantasma che rimpiange la vita?
Relativamente al Crollo delle Torri, Žižek suggerisce di ribaltare la prospettiva: «Si dovrebbe quindi rovesciare l’usuale interpretazione secondo cui l’attacco al World Trade Center ha costituito l’intrusione del Reale che ha sconvolto la nostra Sfera illusoria: al contrario noi vivevamo con la nostra realtà prima del crollo delle torri […] Quel che è successo l’11 settembre è stato l’ingresso nella nostra realtà di quell’apparizione fantasmatica sullo schermo. Non è successo che la realtà sia entrata nella nostra immagine, ma che l’immagine sia entrata e abbia sconvolto la nostra realta».
Il Crollo delle Torri è l’esplosione di un fantasma nella nostra realtà; è l’immaginario che satura l’immaginario. Pertanto, quando in Shadowbahn ritornano, le Torri tornano come simbolo di loro stesse. Tornano come simbolo del loro crollo e allo stesso tempo della loro esistenza. La loro immagine è icona e ologramma. Nell’ologramma ogni parte contiene l’oggetto nella sua interezza: allo stesso modo le Torri riapparse contengono già in esse tutte le forme da loro assunte nel tempo, dunque inevitabilmente anche il loro crollo e la loro assenza. Pertanto sono simboli di loro stesse soltanto.
Il mondo dopo la catastrofe è condannato all’orizzontalità estrema di un deserto. Ancora Baudrillard: «Oggi non vi è più trascendenza, ma la superficie immanente dello svolgersi delle operazioni, superficie liscia, operazionale, della comunicazione […] Siamo nell’estasi della comunicazione». Il viaggio che cantiamo è un viaggio ininterrotto, che deve solo continuare, una ineluttabile Lost Highway senza destinazione, a piacimento estendibile in ogni suo detour. Alla ricerca e in attesa di un evento che ci anticipa e che non possiamo raggiungere (Rilke, citato in Paul Virilio: «Ciò che accade possiede un tale anticipo su ciò che pensiamo, sulle nostre intenzioni, che non possiamo mai raggiungerlo, né conoscere la sua vera apparenza»).
Lutto rielaborato a dismisura e mai silenziato dalla coscienza americana, in Shadowbahn il Crollo riemerge ancora, non come feticcio consunto ma in un’aumentata lucidità. Le Torri non rappresentano purezza perduta, non rappresentano il Potere decaduto o la fine di un mondo: l’unica cosa che significano, con l’enigma del loro mostrarsi, è l’abisso smisurato della loro mancanza. Dicono del sopravvissuto, dicono del corpo monco degli Stati Uniti, dicono dell’America abbandonata che è rimasta tale e che nella sua versione contemporanea è nata proprio da quella caduta: nelle parole di Jean-Luc Nancy «non siamo forse nati nell’abbandono, il greco e il tragico – quello di Edipo –, l’ebreo e l’esiliato – quello di Mosè –, l’uno e l’altro definiti o destinati dall’abbandono […] Essi sono abbandonati alla nascita: cioè dal principio, nel loro principio, e votati indefinitamente a nascere. Nascere significa precisamente non finirla mai di nascere».
Questa condanna a una nascita infinita è pertanto elegia funebre e canto di benvenuto (a proposito di Naima, nel libro si legge: «a song of both morning and mourning»). Una musica che non si spegne e che ci conduce all’ultimo fantasma, quello del romanzo americano, idea quasi metafisica e difficilmente esauribile in un singolo romanzo. Qui l’idea si trasfigura e si dissolve, cantando la propria scomparsa e allo stesso tempo provando a eternizzarsi, strada ombra perduta nel nulla che ripete se stessa e si tramanda con il comandamento di continuare, continuare all’infinito e non fermarsi mai.