Conservare la memoria

Qual è il vero significato di un archivio? Visita al Sound Archive della British Library, tra voci dimenticate, disturbi di accumulo e hauntology strisciante

La mia scrivania è posizionata davanti alla finestra, rivolta verso una strada di Kreuzberg. Di fronte a me c’è un palazzo di cemento con un graffito in cima, di quelli che si fanno sporgendosi dal tetto e scrivendo dall’alto verso il basso. Dice «UGLY», come a sottolineare la qualità principale dell’edificio. L’appartamento del mio dirimpettaio ha un balcone incassato, che si chiama in realtà loggia. Questa è murata, dal pavimento al soffitto, di scatoloni. Sono scatoloni di plastica e di cartone, impilati e incastrati l’uno con l’altro. È la prima cosa che noti guardando dritto davanti a te. Anche dentro l’appartamento, dietro alla finestra di fianco alla loggia, si vede una catasta di scatole e roba ammucchiata. Adesso vedo che gli inquilini riescono a farsi strada tra le pile e raggiungere la ringhiera, su cui appoggiare i gomiti e fumarsi una sigaretta, ma prima non era possibile: negli ultimi tre anni non ho mai visto nessuno in quella casa, perché l’accumulo di cose ostruiva completamente la visuale.

Poi c’è stato l’incendio. Il mio sospetto è che sia stato un fuoco d’artificio, un razzo di quelli che si spara a capodanno, che atterrando in mezzo ai cartoni ha fatto un macello. Ma potrei sbagliarmi. Mi ricordo soltanto che qualche giorno dopo l’incidente, la facciata del palazzo intorno alla loggia era nera: la roba, tuttavia, era magicamente ricomparsa. Tutti quelli che dal mio balcone vedono la montagna di scatoloni ergersi sbilenca a qualche metro da noi si fanno e mi fanno la stessa domanda: «Ma chi ci abita lì? Che fanno? Sono pazzi?».

Gli hoarder, le persone che soffrono del cosiddetto «disturbo di accumulo», ci spaventano perché potenzialmente siamo tutti degli accumulatori. Ognuno di noi, almeno per un periodo della sua vita, ha avuto quel cassetto stipato di cose «importanti» che veniva aperto solo per infilarci altra roba. Quel cassetto che solo l’idea di svuotarlo ci faceva venire voglia di uscire di casa. «Se non facessi questi riordini, queste purghe, e permettessi alle pile di carta di ingolfarti rendendoti impossibile dividere l’importante dall’inutile – non sarebbe follia?», si chiede Ilya Kabakov in L’uomo che non buttava mai niente. Spesso il banalissimo motivo che ci spinge a conservare oggetti è per ricordare gli eventi che la memoria ricollega ad essi. L’essere umano è ossessionato dal tenere traccia, dal capire il presente indagando il passato, dal produrre testimonianze. Basti pensare ai diari, alla psicoanalisi, agli archivi.

Il Sound Archive della British Library (foto di Lucrezia Chiarle)

Capire che cos’è davvero un archivio, non è scontato – o almeno non lo è stato per me. Inizialmente pensavo, senza averci ragionato troppo, che fosse ciò che fisicamente raccoglie tutto quello che c’è di reperibile riguardo un determinato tema. Questo non è del tutto esatto. Foucault per esempio sostiene che un archivio non è la somma di tutti i documenti che una data cultura ha conservato per attestare il proprio passato, né è l’istituzione che rende possibile conservare e preservare determinati discorsi: l’archivio, sebbene indescrivibile nella sua totalità, è piuttosto concepibile sulla base di quei discorsi che hanno smesso di essere nostri. La sua soglia di esistenza è determinata dalla discontinuità che ci separa da quello di cui non siamo più in grado di parlare.

L’archivio insomma è ciò che regola e sistematizza l’apparizione di eventi, enunciati e artefatti, ciò che impedisce il loro accumulo amorfo e la loro iscrizione in un’ininterrotta linearità, così come la loro scomparsa. È un dispositivo esterno che l’uomo ha istituito per organizzare e rendere funzionali le sue pulsioni interne. A sua volta, per Derrida non c’è un archivio senza consegna ad un luogo esteriore che assicuri la possibilità di memorizzare, di ripetere, di riprodurre o di reinterpretare. Non c’è archivio senza esterno. Eppure, camminare in uno di essi è come farsi un giro all’interno del cervello di una persona. O almeno questa è stata la mia impressione quando sono stata portata nei sotterranei della British Library di Londra, dove si trova il Sound Archive.

Il British Institute of Recorded Sound venne fondato nel 1950, e da allora acquisisce registrazioni su vari formati. Dal 1983 si è unito alla British Library, creando appunto l’archivio sonoro attuale. Ad oggi conta più di un milione e mezzo di oggetti fisici disponibili in quaranta formati differenti: dagli LP alle audiocassette, dai cd-rom agli Stereo 8, dai cilindri fonografici ai 78 giri. Questi oggetti si dividono in «pubblicati» e «non pubblicati», dove per «pubblicati» si intende perlopiù registrazioni sonore di tipo commerciale (come gli album musicali), e per «non pubblicati» registrazioni fatte da privati come etnografi, antropologi, ricercatori e appassionati. L’archivio è suddiviso in varie sezioni: world music e musica tradizionale, musica pop, accenti e dialetti, discorsi pubblici e tradizione orale, musica classica, moving image, radio, letteratura e teatro, e registrazioni naturali e ambientali.

Il Sound Archive della British Library (foto di Lucrezia Chiarle)

Un recente studio ha stabilito che  per digitalizzare le registrazioni sonore conservate negli archivi abbiamo tra i dieci e i venti anni: superato quel periodo, l’obsolescenza degli equipaggiamenti per riprodurre determinate registrazioni, la crescente rarità dei pezzi per riparare gli equipaggiamenti, la scarsità di tecnici in grado di utilizzarli e il decadimento dei materiali su cui sono avvenute le registrazioni (come ad esempio i cilindri di cera) renderebbero l’impresa estremamente costosa e molto meno effettiva in termini di qualità. Per evitare che il nostro patrimonio sonoro vada perso, è necessario agire subito. Questo è il motivo per cui la Heritage National Lottery ha contribuito con 9,5 milioni di sterline per creare Unlocking Our Sound Heritage. Il progetto, cominciato a luglio di quest’anno, ha lo scopo di digitalizzare nei prossimi cinque anni cinquecentomila registrazioni che fanno parte del materiale «non pubblicato» conservato alla British Library, e soprattutto renderle accessibile al pubblico attraverso una piattaforma online.

In questo contesto si parla di due funzioni dell’archivio: la prima lo individua come personificazione di un’eredità culturale condivisa, che va quindi protetta e resa pubblica al di là di ogni valutazione di tipo etico; l’archivio è amorale, sostengono Calin Dan e Iosif Kiraly in Politics of Cultural Heritage: « Non sono gli archivi a dare un senso alle persone, ma le persone a dare un senso agli archivi». La seconda funzione è quella descritta da Dietrich Schüller nel saggio Technology for the Future, e si riferisce nello specifico proprio all’archivio sonoro: per Schüller il suo fine non è più la preservazione «eterna» dei supporti originali, ma del contenuto di questi supporti.

Foto di Lucrezia Chiarle

In effetti, è solo recentemente che è stata riconosciuta l’importanza su larga scala del suono. Molto è dovuto al fatto che le ricerche condotte in campo digitale sono state fatte su supporti audiovisivi. Ma è anche grazie a un cambiamento nella concezione di cosa viene considerato ricerca e cosa no – e cosa viene considerato documento e cosa no – che le registrazioni hanno acquisito un nuovo privilegio. Così come ha contribuito a questo risultato il proliferare di corsi di studio in ingegneria nel suono, o la diffusa percezione del «suono come memoria» evocata per inciso in tanti saggi e interventi sulla hauntology. Negli ultimi dieci anni c’è stata una «spinta verso il suono», sostiene Andrea Zarza, curatrice della sezione World and Traditional Music del Sound Archive.

Adam Tovell, capo del reparto tecnico di Unlocking Our Sound Heritage, mi ha spiegato che lui e i suoi colleghi si occupano in particolare della migrazione del suono dai supporti «a rischio» a uno più stabile: cioè un file wav. Il costo di questa operazione in termini di denaro e tempo varia dal tipo di supporto su cui si trova la registrazione originale e dalle condizioni in cui versa (più è danneggiato, più ovviamente è dispendioso). Il processo però si svolge a grandi linee secondo passi fissi. In primo luogo bisogna stabilire che supporto è e valutarne lo stato: per esempio un disco in vinile andrà suonato sul giradischi a una velocità diversa rispetto ad un disco in ceralacca. Subito dopo questo viene pulito e viene poi preparato l’equipaggiamento adeguato alla sua riproduzione. Viene poi fatto suonare nello stesso momento in cui viene digitalizzato. Al suono non viene apportata modifica alcuna: non viene «ripulito» né migliorato, né altro: è una perfetta copia digitale pura e semplice. Vengono poi creati dei metadati che contengono le informazioni sul processo di digitalizzazione, in cui viene riportato chi ha eseguito l’operazione, con quali macchinari, a quale velocità, e così via. Infine, il tutto viene passato ai catalogatori i quali si occupano, dopo aver ascoltato l’audio, di fornire una descrizione del file per inserirlo nella biblioteca digitale.

La svolta che il finanziamento dalla Heritage National Lottery ha reso possibile, è la creazione di altri dieci centri di digitalizzazione sparsi per tutto il Regno Unito: parte del progetto è infatti rendere disponibile non solo le collezioni della British Library di Londra, ma anche quelle che si trovano sparse per il territorio nazionale. Questo accadrà mettendo a disposizione la competenza dei tecnici di UnlockingOur Sound Heritage – che con un eufemismo tipicamente inglese Tovell ammette essere «piuttosto di nicchia» – per istruire nuovi tecnici nei centri fuori dalla capitale.

Foto di Lucrezia Chiarle

Ma la vera domanda che mi sono posta visitando il Sound Archive, è come si decide cosa va a comporre l’archivio e cosa no. Se ci si pensa, mettere in piedi un archivio equivale a creare una storia, e gli elementi che lo compongono costituiscono una narrativa determinata dalle scelte di pochi individui soltanto. Non è un particolare privo di implicazioni. Non sono scelte da operare a cuor leggero. La conversazione con Janet Topp Fargion, una delle curatrici a capo del progetto, ruota proprio attorno a queste problematiche; Janet mi spiega che c’è una gerarchia di criteri da tenere in considerazione: innanzitutto c’è da considerare il lato tecnico, nel senso che la precedenza va data a tutti i supporti il cui deterioramento è imminente. Ma è a livello curatoriale che entrano in gioco altri fattori: la qualità (cioè se la registrazione ha una qualità sufficientemente alta), l’unicità (cioè se è l’unico documento che nell’archivio rappresenterà un dato fenomeno, una data cultura), e la rilevanza (cioè se é una registrazione «rara» in assoluto).

Nella sua area di competenza specifica, le registrazioni con cui ha a che fare sono tutte «non pubblicate» e quindi rare per definizione. Quando si tratta di scegliere cosa acquisire e cosa no (nonché cosa digitalizzare e cosa no) deve pensare alla collezione nel suo insieme: «Abbiamo già qualcosa che rappresenti quel genere musicale o quella cultura? Se sì, quanto simile? Ce ne serve un altro?». Ma ci sono anche altre questioni delicate, a cominciare da quelle di appartenenza e appropriazione culturale: «Se una registrazione è stata fatta da un italiano in Italia, direi che debba stare in Italia: per esempio a Santa Cecilia o a Bologna. Se invece la registrazione è stata fatta da un britannico o un ricercatore che risiede in UK ma con materiale italiano, allora dovrebbe stare qui».

Le chiedo però come fa un curatore a non farsi influenzare dalle sue preferenze personali, dalle sue inclinazioni e dai suoi interessi. La prima risposta è puramente diplomatica: un curatore deve essere «estremamente disciplinato» e non può lasciare entrare in gioco i propri gusti. Ma poi Janet ammette che la personalità di un individuo interferirà sempre nella scelta, che una selezione è per forza di cose faziosa, mediata attraverso il retroterra e le inclinazioni della singola persona. Certo, l’importante è esserne consapevoli e cercare di contrastare la parzialità al meglio delle proprie possibilità: l’obiettivo generale, dopotutto, è quello di rappresentare nientemeno che le culture del mondo.

Foto di Lucrezia Chiarle

A Janet, ma anche ad Andrea e ad Adam, faccio infine la stessa domanda: che effetto lascia dietro di sé lavorare a un progetto come il Sound Archive. Andrea mi dice che ha sempre saputo di voler lavorare in un archivio sonoro perché è una grande appassionata di radio: voleva insomma stare nel posto in cui finiscono le registrazioni dopo esser state mandate in onda. Adam mi racconta della sensazione che gli fa camminare per il corridoio degli studi e sentire richiami di uccelli della foresta amazzonica misti a sintetizzatori anni Ottanta e letture di poesie, tutti contemporaneamente. Mi racconta dell’eccitazione che ogni volta prova prima di premere il tasto play, perché sa che nove volte su dieci quello che starà per ascoltare è un piccolo tesoro. Janet invece mi dà la risposta più romantica di tutte: «Che motivo c’era di conservare la Magna Carta? È storia, è parte di quello che siamo. Ma molti dei modi che noi abbiamo di stare al mondo, non sono stati scritti o annotati: sono stati registrati. Queste registrazioni ci documentano, e ci documentano in quanto esseri umani». E a venire in mente, sono le parole di Hans Magnus Enzensberger su Leibniz in Mausoleum: «Registrazione, elaborazione/ e memorizzazione dei dati: Schedatura delle conoscenze. / Monatliche Auszüge, Journal des Savants, Acta eruditorum. / Ciò che il mondo perplesso eredita, è un fienile/ colmo di annali, perizie, aide-mémoires, cataloghi, / miscellanee; un guazzabuglio di indici ed indici/ di indici ed indici di indici di indici…»