Sesso e fantasy nella Terra Piatta

Introduzione a Tanith Lee

Pubblichiamo l’introduzione a Sovrani delle tenebre. Ciclo della Terra Piatta, il volume antologico di Tanith Lee in uscita il 16 novembre per Oscar Vault Mondadori, ringraziando l’editore per la disponibilità. 

Nasce nel 1947 da una coppia di danzatori, Bernard e Hylda. Tanith Lee, con questo nome già così evocativo, impara a leggere e scrivere con un lieve ritardo rispetto alle compagne e ai compagni per una forma non diagnosticata di dislessia – il merito del recupero lo riconosce soprattutto al padre. Ha una famiglia accogliente, che ama giocare e in particolare adora i giochi di parole e di invenzione: molto presto inizia a scrivere, e nei primi anni Settanta comincia una feconda collaborazione con il grande editore Macmillan, per il quale pubblicherà diversi libri per l’infanzia prima di pubblicare Nata dal vulcano (The Birthgrave, titolo quasi intraducibile – “La tomba di nascita”? – che mostra perfettamente la passione di Lee per i giochi di parole), romanzo che segna il suo ingresso nel mondo della scrittura fantastica per persone adulte. Tales from the Flat Earth, il Ciclo della Terra Piatta, del quale qui troverete i primi tre libri, si compone di Night’s Master (Il Sovrano della Notte) che esce nel 1978, riscuotendo da subito un notevole successo; la saga prosegue, nel 1979, con Death’s Master, Il Sovrano della Morte, e Delusion’s Master, Il Sovrano del Miraggio nel 1981. Le traduzioni dei primi due titoli sono di Roberta Rambelli, il terzo è invece di Claudia Salvatori: entrambe autrici a loro volta di opere di narrativa fantasy e fantascientifica.

Seguono ancora Delirium’s Mistress («La Sovrana del Delirio», certo, ma anche l’amante della follia) nel 1986, e una raccolta di racconti, Night’s Sorceries («Incantesimi della Notte») nel 1987. Il successo non è solo di pubblico, ma anche di critica: Il Sovrano della Notte è nominato ai World Fantasy Award del 1979, Il Sovrano della Morte vince nel 1980 il British Fantasy Award per il miglior romanzo (e forse è interessante scoprire che è il primo romanzo scritto da una donna a ricevere questo premio, e sarà l’unico fino al 2012, quando Among Others Un altro mondo di Jo Walton si aggiudicherà il Best Fantasy Novel – nel frattempo le categorie si sono fatte più complesse). Nel 1988 Night’s Sorceries è nuovamente nominato al World Fantasy Award come migliore raccolta di racconti. Ai libri del ciclo si affiancano anche alcuni racconti pubblicati separatamente, che accompagnano le storie della Terra Piatta fino al 2009. Pare che esista un sesto libro del ciclo, e che sia, purtroppo, rimasto incompiuto al momento della prematura morte di Lee, nel 2015.

Lee ha sperimentato una grandissima quantità di generi, dalla sci-fi all’horror, passando per il puro fantasy. Io ho conosciuto la sua scrittura grazie a un racconto contenuto in un’antologia di scrittrici visionarie e femministe che ho avuto l’onore di tradurre e che mi ha posta davanti a notevoli difficoltà in pur poche pagine di testo: il racconto si basa su un gioco di parole specifico, ma oltre a questo permane, come in tutte le opere dell’autrice, un gusto quasi concreto per la parola, che si unisce in concrezioni e sinestesie, crea nuovi colori e nuove impressioni, rendendo ogni traduzione una sfida. Northern Lights, questo il titolo, era un racconto che rispettava ogni crisma del fantasy, e contemporaneamente sovvertiva una delle leggi non scritte più importanti del genere fino ad allora: l’eroina era una donna, una cavaliera, una guerriera. Ed ecco, forse la prima cosa da dire riguardo a Tanith Lee è che i suoi sono mondi assolutamente paritari, dove il genere o l’orientamento sessuale non sono che un accidente capitato alla vita dei suoi personaggi – a meno che, ovviamente, non si tratti di prendersi gioco in maniera esplicita di determinate regole non scritte dei generi letterari.

Dichiaratamente femminista e impegnata nel movimento (e, quasi come naturale conseguenza, grande alleata dell’universo queer), Lee crea un mondo, più mondi, in cui tutto si intreccia con tutto e chiunque può amare chiunque, ed essere chiunque. Prendiamo per esempio uno dei protagonisti indiscussi di questi tre romanzi, Azhrarn, il Sovrano della Notte: è accidentalmente di sesso maschile, Azhrarn il Bello, ma la sua maschilità è puramente fisica (quando non è un cavallo, o un’aquila, o una nube di fuoco). Per il resto l’amore, l’attrazione, gli stessi sentimenti sono ben lontani dall’essere quelli di un uomo come nel 1978 lo si poteva definire. E, per converso, si pensi a Narasen, regina leopardo, ambiziosa e volitiva, protagonista in apertura del Sovrano della Morte. Dichiaratamente lesbica, il suo orientamento sessuale non influenza in alcun modo l’ammirazione dei suoi sudditi, né il suo aspetto come si potrebbe attendere da una certa – tuttora persistente – stereotipata narrazione della lesbica guerriera, butch mascolina e un po’ arrogante: la descrizione della donna è anzi quella di una morbida orientale dai tratti rotondeggianti e delicati. Sarà solo il patto stretto con Uhlume, Sovrano della Morte, e le conseguenze di esso, a portare alla luce i risentimenti del suo popolo, e finalmente il pregiudizio nei confronti del suo orientamento: viene quasi da pensare a certe situazioni del mondo contemporaneo.

Leggendo il Ciclo della Terra Piatta, sentivo risuonare nella mente tre gruppi che perfettamente incarnano le atmosfere lussuriose, decadenti e romantiche dei romanzi: The Sisters of Mercy, Cocteau Twins, The Cure.

Lee inizia Tales from the Flat Earth in un periodo culturalmente molto fervido: siamo nel 1979, la Summer of Love è definitivamente declinata e sono arrivati gli anni della repressione e dell’eroina. Nel Regno Unito sono gli albori del thatcherismo, con la sua spinta fortemente conservatrice, e la reazione si individua più che mai nell’espressione di sé, specialmente musicale: il glam, il dark, il punk, la new wave, tutti generi in cui commistione e confusione, glitter e code-switching erano prassi. Leggendo Tales from the Flat Earth, il Ciclo della Terra Piatta, sentivo risuonare nella mente tre gruppi che perfettamente incarnano le atmosfere lussuriose, decadenti e romantiche dei romanzi: The Sisters of Mercy, Cocteau Twins, The Cure. Certo, è un’impressione soggettiva, come tutte le colonne sonore dei libri, eppure se guardo le fotografie di Lee tendo a pensare che potremmo, forse, essere in accordo. 

Certamente la musica non è l’unica (né la prima) influenza culturale a nutrire Lee: le medesime atmosfere sono quelle tipiche del romanticismo prima e del decadentismo poi – gli incubi di Füssli, le enigmatiche dee laiche di Rossetti, le splendide e inquietanti ondine di Klimt, e ancora, immancabili, i fiori malati di Baudelaire. E poi, come Lee afferma e ribadisce, il guizzo – sarcastico, malinconico, sensuale – di Oscar Wilde, il suo erotismo difficilmente imbrigliabile nei vincoli del vittorianesimo, e tutto il portato di libertà negate che il periodo storico, e dunque la scrittura, si tirava dietro.

Questa idea di sesso come ultimo strumento di liberazione anche dal sé – che più di una volta trova espressione nella Terra Piatta – è forse la più grande delle risposte ribelli a una società che andava trovandosi sempre più stretta in una morsa di ferro, dove il decoro e la famiglia tradizionale erano l’unica espressione ufficiale concepibile. Si taccia spesso la letteratura fantastica di evasione e di escapismo, ed è senz’altro vero che avventurarsi in un mondo così stratificato e complesso significa scomparire per qualche ora, ma è vero anche che, come in ogni quest che si rispetti, dalle avventure non si ritorna identici a prima, e ogni viaggio porta con sé pensieri e riflessioni, sulla natura di sé, sul rapporto con l’Altro e con l’Altrove, per esempio, come in questo caso.

A proposito di espressione di sé, Tanith Lee voleva che fossero scrittrici (il femminile non è casuale) a tradurla, forse perché, e qui mi avventuro in un pensiero di sorellanza, l’idea di una commistione di voci, quella sua e quella della scrittrice che l’avrebbe letta e reinterpretata, le piaceva più che l’idea di una fedeltà assoluta al suo nome e alla sua scrittura, d’altronde così difficile da riprodurre uguale per ritmo e intensità. E dunque i testi che seguiranno li vedrete cambiare, seguendo le soluzioni che saranno trovate alle difficilissime crasi di Lee, come il “birthgrave” che abbiamo incontrato poco fa. Confrontandomi con Claudia Salvatori, la traduttrice del Sovrano del Miraggio, erede del monumentale lascito di Iole “Roberta” Rambelli, è emerso molto di questo, del divertimento, della scoperta, e della difficoltà di rimanere fedeli alla voce di Tanith Lee. Salvatori, come Rambelli, ha preferito dunque trovare una propria forma personale che, rispettando Tanith Lee, risulti convincente ed evocativa in primo luogo alla penna di chi sta traducendo, per poter così trasmettere il medesimo piacere a chi legge. Un piacere, come si diceva, che è quasi materiale, corporeo. Potremmo azzardarci a definirlo mitopoietico. 

Nato da un gioco di indovinelli con la madre, “Go nowhere on a horse that fades”, “Non andare in nessun luogo su un cavallo che svanisce” (bisogna arrivare a un punto importantissimo del romanzo per capire quanto sia nodale questa frase per lo sviluppo del libro e poi, in seguito, di tutta la trilogia), Il Sovrano della Notte è una storia di demoni e umani che si muovono in un mondo in cui la Terra è piatta, stesa in un rettangolo che più o meno corrisponde ai punti cardinali, e stratificata in un mondo di sopra (Upperearth, Sopramondo) e un mondo di sotto (Underearth, Sottomondo), in modo pienamente aristotelico o dantesco che dir si voglia, anche se meno complesso. L’ispirazione di Lee – come per il Mondo Disco di Terry Pratchett – nasce dalla scoperta delle teorie terrapiattiste che tuttora esistono, ma d’altra parte la Flat Earth Society ha basi ben solide, che si fondano sulle cosmologie dei mondi antichi: quella greca, quella cristiana medievale, ma ancora quella sumera o micenea. Culture e miti che, peraltro, compaiono e si intrecciano, si modificano e si trasformano con sempre maggiore intensità nel ciclo di Tanith Lee.

Di sopra ci sono le divinità, fredde e trasparenti, indifferenti agli accidenti degli umani, i quali tuttavia le venerano come entità benefiche; di sotto ci sono i demoni, divisi in razze e caste che formano precise gerarchie, dai luciferini, bellissimi e distaccati Vazdru cui appartiene il già nominato Azhrarn, Sovrano della Notte, ai Drin, esseri appartenenti a una dimensione ctonia, la cui magia è proprio di modellazione e costruzione a partire da quello che già c’è, terra, lacrime, sangue, oro.

Il tempo storico non è definito, ma si aggira intorno a un Medioevo arabeggiante che risente enormemente dell’influsso delle Mille e una notte e, senz’altro, di altri testi classici o sacri: il terzo libro pesca a piene mani dalla Bibbia, azzardando riscritture che vanno a mettere in crisi l’ordine costituito e contemporaneamente ne dimostrano la profonda co- noscenza e fascinazione.

Oltre all’ambientazione terrena c’è anche il Sottomondo, quello dei demoni: buio ovviamente, ma non desolato, anzi, spesso più fecondo e lussureggiante di quello umano. Privo della luce del sole e tuttavia adamantino e splendente, qui Azhrarn, indiscusso protagonista della serie, ha costruito il suo regno, Druhim Vanashta, dove vive in compagnia di molti e molte amanti, adorato e temuto da schiave e servi, senza amare, senza sentimenti tranne una profonda curiosità per quel mondo che ha il compito di devastare.

E, parlando di sovversioni bibliche, noterete presto quanto sia esplicitamente cristologica la figura del Principe dei Demoni: niente di nuovo, s’intende, la caduta di Lucifero è un tema decisamente utilizzato in poesia, epica, narrativa e mitologia – cosa c’è di più splendente e malinconico di un angelo ribelle? E tuttavia Azhrarn non ha niente cui ribellarsi, perché a malapena si accorge dell’esistenza del Sopramondo. Non ci sono nemici dichiarati nella sua vita (tranne, forse, Chuz da un certo momento in poi), non è una battaglia del bene contro il male quella che si compie. Nemmeno le passioni, terrene e ultraterrene, sono in gioco. Azhrarn è una figura malinconica perché vive ammantato di splendida indifferenza, ma soccombe all’amore. Per chi, o per cosa, lo dovrete scoprire, così come scoprirete quanto autoironica è Tanith Lee nel raccontare la vicenda, di libro in libro sempre più stratificata, ricca e complessa. Gli altri due Sovrani che incontrerete sono Uhlume, Sovrano della Morte, spietato e crudele come vuole il suo nome, degno pari di Azhrarn, e Chuz, che invece sembra uscito da uno shōnen manga horror, un po’ Joker un po’ shinigami.

Queste storie pongono costantemente domande, e trovare il tempo di indugiare su ogni quesito e provare a spingere tutto alle estreme conseguenze non è che un modo per cercare di ragionare di più sul mondo.

Il Sovrano del Miraggio è forse, dei tre, il libro più pregno di umanità: se nei primi due la struttura era davvero molto vicina ai racconti inanellati delle Mille e una notte, con il terzo libro si vede che il processo creativo di Tanith Lee subisce un piccolo mutamento: la storia diventa una storia, con un evento cardine che conduce non solo al finale di uno dei libri ma lascia quasi a bocca asciutta, con il bisogno assoluto di sapere che cosa succederà. Con questo non voglio dire che i primi due libri non abbiano una storia o che il terzo volume sia superiore agli altri (anzi, il mio favorito rimane il primo, se proprio devo scegliere), ma le vicende di Chuz, Azhrarn e Dunizel, vergine e madre, marcano chiaramente una distanza rispetto a quelle di Narasen, Sivesh, Kazir, e anche l’andamento delle storie muta: se nei primi due il clima era quello di una rilassata opulenza, una storia che come un sassolino tondo lanciato in uno stagno lentamente formava un circolo, e poi un altro, e poi un altro, fino a che con mollezza un altro sasso lo raggiungeva e creava nuove increspature che andavano a intrecciarsi con le altre, qui il percorso è quello di un sasso piatto che viene lanciato a tutta forza e che fende l’acqua saltando, quasi correndo, fino al suo ultimo rimbalzo.

Ho letto una critica, su un noto sito di acquisti online, alla saga, ed è proprio questa: l’incapacità di Lee di seguire una trama, di andare da A a B senza perdersi in infiniti rivoli di narrazione che poi rimangono lì, su binari abbandonati. Per la persona che scriveva la recensione, questo era un difetto, per me è invece uno dei maggiori pregi del ciclo: mostrare le diramazioni della fantasia, seguire un personaggio che magari è minore ma vive, e ha un suo percorso, fino a che quel percorso non si esaurisce, e pazienza se non serve a niente per la trama – o forse, meglio, la trama in sé è proprio questa inesauribile concatenazione di storie, esperienze, a metà tra il cautionary tale e il racconto di un altro mondo. Perché queste storie pongono costantemente domande, e trovare il tempo di indugiare su ogni quesito e provare a spingere tutto alle estreme conseguenze non è che un modo per cercare di ragionare di più sul mondo, e sul senso delle storie. 

Tutti e tre i libri sono leggibili indipendentemente, ma leggerli di fila, uno dopo l’altro, mostra la splendida tessitura ordita da Lee, le sue numerose e stratificate letture e, soprattutto, il gusto per la narrazione pura, per la parola, il gusto dell’abbandono in un mondo fantastico. Certo, non è sempre impeccabile: più di una volta ho sorriso leggendo descrizioni erotiche che ricordano proprio un certo immaginario anni Ottanta, raso rosso e il sax di Careless Whisper in sottofondo, le metafore che – credo con un gustoso senso di autoironia – sottolineano specifici attributi fisici paragonandoli a determinati elementi del paesaggio o armi bianche, alcune scene talvolta ripetitive, qualche luogo comune qui e là. Eppure a tutto questo si fa un forte sconto, perché magari a volte il membro maschile è un’alta torre che si erge su una pianura, ma il modo in cui, in certi momenti, si descrive l’estasi totale e frenetica dell’amore erotico – in poche, secche e precise righe – mostra un altro aspetto di Lee, quella reale, dionisiaca voglia di abbandono che va ben oltre un fan service scritto frettolosamente. In quelle poche righe, Lee si rivela.

Tanith Lee, autrice sempre prolifica, ha continuato a scrivere e sperimentare fino al 2015, ma il suo successo ha subito una forte battuta d’arresto nel momento in cui la massificazione dell’editoria, e la conseguente ricerca di etichette “sicure” in cui inquadrare generi e scriventi, si è trovata in difficoltà di fronte a una persona che dopo un ciclo fantasy si lanciava in una fantasia cyberpunk, e subito dopo passava all’horror: e così il suo appeal si è affievolito, rimanendo però presente, pronto a perturbare la fantasia di altre e altri scriventi. Lee ha creato personaggi, e storie, che hanno senz’altro influenzato una schiera di narratrici e narratori di primissimo livello, basti solo pensare a Neil Gaiman e, in Sandman, alla sua Death; e a Jo Walton che ne continua a consigliare la lettura e mette i suoi libri in reading list ancora nel 2020; e a Philip Pullman, autore di una delle più grandiose saghe fantastiche contemporanee.

In Italia purtroppo Lee non è stata una scrittrice particolarmente diffusa, vittima anche lei della sciocca dicotomia tra cultura “alta” e cultura “popolare” che ora, lentamente, sta iniziando a incrinarsi: sono stati pubblicati pochi libri e frammentati, quasi nessun ciclo è stato tradotto interamente – lo stesso Ciclo della Terra Piatta non è mai uscito completo in Italia e già l’esistenza di questa raccolta è da salutare come un regalo meraviglioso. Auguro insomma a tutti voi una felice e totale immersione in questo sensuale e appassionante mondo; quanto a me, da oggi in poi guarderò il mio gatto-serpente con occhi nuovi.

Silvia Costantino è codirettrice editoriale di effequ. Ha curato la raccolta Di tutti i mondi possibili (effequ, 2017); ha tradotto il racconto "La regina mangia la torre" di Tanith Lee nell'antologia Le visionarie (NERO, 2018). Nel 2022 è prevista l'uscita della sua traduzione del romanzo Malice di Heather Walter, per Mondadori Vault.