Selvaggi da esposizione
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A metà di Questa vita tuttavia mi pesa molto di Edgardo Franzosini (Adelphi, 2016), Rembrandt Bugatti va in visita al Jardin Zoologique d’Acclimatation. Tra le rocce fatte di gesso e calce e le cascatelle artificiali, fa visita alla vecchia Juliette, l’elefante africano donato da Vittorio Emanuele II Re d’Italia alla città di Parigi che nell’assedio della guerra franco-prussiana aveva perso i due pachidermi ospitati dal jardin ― «sacrificati alla fame dei parigini», cucinati dallo chef Alexandre Étienne Choron.
Non sono rare le visite di Bugatti agli zoo delle città in cui risiede: è lì che lo scultore allena l’attenzione del proprio occhio alle linee animali, è lì che assorbe il dinamismo dei loro corpi, quei movimenti che riesce poi così abilmente a riannodare e comporre nelle proprie sculture senza neanche il bisogno di affogare nei libri di etologia come molti suoi colleghi. È negli zoo che Rembradt Bugatti nutre il suo desiderio «imperioso, quasi bruciante di appagare il proprio sguardo con la visione della vita animale».
Quel giorno al Jardin Zoologique d’Acclimatation, però, Bugatti si allontana dal recinto degli elefanti per avvicinarsi all’attrazione principale del momento (è il 1908): quaranta Galla, 25 uomini, 6 donne e 9 bambini, arrivati dall’altopiano dell’Etiopia. Esseri umani allo zoo. Non sono i primi: Parigi in quegli anni ha già ospitato esposizioni di diverse etnie esotiche: «Lapponi, Nubiani, Esquimesi, Calmucchi, Pellirossa, Galibi, Ottentotti e Boscimani». Il pubblico si affolla davanti alle reti, mentre i selvaggi, con le loro tuniche di cotone bianco, le palpebre colorate, le spille di corno tra i capelli, danzano tra le capanne d’erba e d’argilla.
Sono i villaggi negri, etichetta con cui vennero indicati i caseggiati posticci realizzati in occasione di molte Grandi esposizioni universali e di qualche parco a tema, in Europa e negli Stati Uniti, tra Ottocento e Novecento ― esibizioni che si conclusero definitivamente solo nel 1958. Fu uno dei tanti modi in cui l’uomo bianco, inebriato dal razzismo e da qualche vertigine pseudo-darwiniana, sancì una gerarchia degli esseri umani, autodecretando la propria superiorità: l’invenzione del concetto di selvaggi da esposizione, catturati in terre lontane e piazzati in qualche diorama museale. Non si tratta di una curiosità meno nota e laterale della storia occidentale, di una pietra in cui siamo tragicamente inciampati per sbaglio un paio di volte: in quasi due secoli di allestimenti, le esposizioni di questo tipo sono state visitate da decine di milioni di persone (un miliardo e mezzo in tutto, secondo alcuni ― per un resoconto di molte di queste storie consiglio di leggere Viviano Domenici, Uomini nelle gabbie, Il Saggiatore, 2015).
Stiamo parlando di un enorme rimosso collettivo.
Scrive Mark Cousins in Storia dello sguardo (edito anche questo dal Saggiatore, 2018), sotto a una foto simile a quella qui sopra, di selvaggi e di loro visitatori: «Foss’anche per un secondo solo, i loro sguardi s’incrociarono? E se così fosse, cosa pensavano gli individui posti ai due lati? Le persone con indosso le scarpe lucide si vergognavano?». Si può rispondere parafrasando quello che John Berger diceva a proposito degli zoo, e sostituendo semplicemente la parola selvaggi alla parola animali: non c’era vergogna perché lo sguardo del visitatore non ha mai incontrato lo sguardo del selvaggio. È stato tuttalpiù un lampo passeggero. Lo zoo, dove la gente andava per incontrare i selvaggi, per osservarli, per vederli, era, in realtà, un monumento all’impossibilità di tali incontri.
Anche in Italia abbiamo avuto i nostri villaggi etno-espositivi: a Torino, Palermo, Trieste, Milano, Roma e Genova, inaugurati già a partire da fine Ottocento e poi rinvigoriti dalla farsa tragica dell’imperialismo coloniale fascista.
L’ultimo fu a Napoli, nel 1940. Gli zoo umani a quel punto si erano già da qualche anno trasformati in spettacoli, esibizioni dal vivo, performance in cui degli attori (più o meno retribuiti e reclutati con mezzi più o meno coercitivi) riproponevano scene di vita quotidiana dei loro remoti paesi. Il teatro della vita. A Napoli, la sontuosa Mostra triennale delle terre italiane d’Oltremare di quell’anno voleva ricostruire da questa parte del Mediterraneo una città dell’impero, per celebrare i successi militari del fascismo e riproporli in versione ridotta e illustrativa ai cittadini italiani. Poco dopo l’inaugurazione la realtà fece esplodere l’esile pallone della propaganda: l’Italia entrò in guerra, la triennale chiuse. Iniziò una lunga epopea burocratica per gli «attori» africani. Erano eritrei, somali, amara, scioani, galla, hararini, uolamo, sidama, secondo Guido Abbattista che ha ricostruito il caso in Umanità in mostra (Edizioni Università di Trieste, 2013).
Sotto l’ordinamento marziale vennero spostati nei «campi di internamento» riservati a civili italiani e stranieri considerati pericolosi. Racconta Abbattista: alloggiarono a Bagnoli, «in baracche di legno che presto rivelarono tutta la loro inadeguatezza, soprattutto con l’arrivo dell’inverno e ancora di più con l’inizio dei bombardamenti inglesi – il primo avvenne il 1° novembre 1940 – sugli impianti della vicina Ilva». Dopo un paio d’anni di soggiorno coatto il contingente di africani venne trasferito a Treia, nei pressi di Macerata. Il giorno della Liberazione erano ancora in Italia, poi se ne persero le tracce.
Di loro rimangono soltanto alcune foto che Federico Patellani scattò nel giugno 1940, a Napoli, nei giorni dell’inaugurazione della mostra: