Segnali di vyta
MEDUSA è una newsletter bisettimanale che parla di Antropocene, dell’impronta dell’essere umano sulla Terra, di cambiamenti climatici e culturali. A chi si iscrive, ogni due mercoledì arriveranno un articolo inedito, delle brevi news e un po’ di dati per ragionare su questi temi. Una volta al mese un contenuto di MEDUSA viene ospitato anche su Not: può essere un estratto di un articolo già pubblicato sulla newsletter, una sua variazione, o un contenuto appositamente pensato per la rivista. Insomma, se ti interessa MEDUSA, la cosa migliore è iscriversi alla newsletter.
Un’introduzione breve perché l’intervista con Laura Tripaldi, scrittrice e ricercatrice nel campo dei nanomateriali, è piena di giochi preziosi. Dico solo che Menti parallele (uscito per effequ), il suo saggio, è una di quelle manifestazioni che nel 2017, quando abbiamo iniziato MEDUSA, ci sembravano esistere solo nel campo delle ipotesi. Così come le prime pagine che parlano di emergenza climatica, i ragazzini che riempiono le piazze per il loro futuro, ecco, arriva un libro che è «un antidoto vitale contro l’asfissia del riduzionismo, della cieca specializzazione, un libro che vive di idee laterali, immaginari alternativi, che si nutre di ibridi e di relazioni: tra le discipline, gli esseri viventi, gli oggetti, le tecnologie».
Sto citando un pezzo della prefazione che, non a caso, è stata scritta da Matteo De Giuli. Per entrare nel microclima dell’intervista uniamoci nelle parole, a quelle di Laura, a quelle che lei prende da Karen Barad, come fossero scritte apposta per noi: «Io sono una configurazione materiale, i piccioni nel parco sono composizioni materiali, i virus, i parassiti, e i metalli nella mia carne e nella carne del piccione sono materialità, così come i neurotrasmettitori, i venti degli uragani, E. coli e la polvere sul pavimento. La materialità è una categoria che tende a orizzontalizzare le relazioni tra umani, viventi e non viventi».
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Da cosa nasce il bisogno di raccontare il tuo lavoro a un pubblico non specialista, condividere delle speculazioni che spaziano tra nanotecnologia, filosofia e mitologia?
Quando ho avuto l’opportunità di scrivere un saggio attorno ai temi di cui mi occupo nella mia ricerca, sapevo che non avrei voluto, e nemmeno potuto, scrivere un libro di divulgazione scientifica in senso stretto. Questo sia perché negli ultimi anni ho sviluppato un interesse crescente verso ambiti del sapere anche molto distanti dalla scienza, sia perché, da scienziata ancora «alle prime armi», non mi sarei sentita a mio agio nella posizione dell’«esperta». Ma è anche la materia di cui mi occupo a richiedere un approccio diverso alla comunicazione della scienza.
Diversamente da altre scienze, lo studio dei materiali è un ambito da sempre interdisciplinare, ibrido e tecnologico, in cui il processo di indagine scientifica si presenta in tutta la sua complessità. Penso che dal mio libro emerga chiaramente la mia convinzione, un po’ pretenziosa ma assolutamente sincera, che la chimica sia in grado di stringere un rapporto privilegiato con la materia che studia. Per me questo privilegio risiede soprattutto nel modo in cui la sintesi chimica, che è alla base delle nanotecnologie e della moderna scienza dei materiali, evidenzia la natura discorsiva dell’indagine scientifica, cioè il fatto che nel momento in cui noi scienziati interroghiamo la materia lei ci interroga a sua volta. Questo fatto ci obbliga a ridiscutere quella distinzione rigida tra soggetto e oggetto, sperimentatore ed esperimento, che spesso collochiamo alla base del processo scientifico.
Quando entriamo nel laboratorio di sintesi, non conosciamo l’identità della materia che stiamo studiando, anzi, la sua identità si costruisce nel momento in cui iniziamo a indagarla, e i concetti scientifici utili a studiarla si definiscono insieme con lei. In questo senso, la materia che studiamo smette di essere un oggetto di indagine passivo, ma prende parte attiva al processo scientifico e culturale che la definisce. Scrivendo questo libro, la mia ambizione è stata quella di provare a rendere merito alla complessità di questo processo.
L’abbiamo detto, abbiamo vissuto la lettura del tuo libro come una continuazione/ibridazione/innesto di quello che proviamo a fare con MEDUSA, questo processo continuo in cui tentiamo di definire gli spazi tra le cose e le persone, le persone e le piante, le piante e le radiazioni… per esempio uno dei concetti chiave che esponi nel libro è quello di interfaccia, una parolaccia che troviamo sempre attaccata ai sistemi operativi, al design IT, e che invece è capace di mostrarci un tesoro poetico, un motore infinito di misure: apre alle esplorazioni verso la soglia tra umano e non-umano su minuscola scala, invisibile, dove il rimpicciolimento moltiplica le interfacce.
Il concetto di interfaccia ha avuto un’importanza fondamentale per me nel corso del percorso di scrittura, al punto che la frase «l’interfaccia è uno spazio materiale» mi ha accompagnata religiosamente, come una specie di mantra, durante tutta la stesura del libro. Nel contesto dell’informatica, l’interfaccia è tipicamente il dispositivo che mette in relazione l’umano con la tecnologia, mentre in chimica è piuttosto la regione in cui due materiali entrano in contatto reciproco, modificando le loro proprietà nello spazio del loro incontro. Interfaccia è sinonimo di superficie, ma, per quanto possa sembrare paradossale, si tratta di una superficie dotata di spessore, una zona di confine fatta di strutture materiali complesse e dinamiche che producono continuamente nuove relazioni.
Nelle nostre tecnologie quotidiane, l’interfaccia con cui abbiamo acquisito la maggiore familiarità è senza dubbio lo schermo: uno spazio piatto e sempre più sottile che ci permette di immergerci in quello che percepiamo come un rapporto immediato e non problematico con la tecnologia. In un certo senso, lo schermo riflette anche una specifica idea che abbiamo della cognizione, come una finestra unidirezionale che si affaccia su una realtà che esiste «per noi». Mentre le tecnologie informatiche hanno assottigliato l’interfaccia fino a renderla invisibile, mi colpisce il fatto che le nanotecnologie lavorino all’estremo opposto, nel senso che derivano le loro potenzialità proprio dall’aumento esponenziale della superficie che si realizza quando ci si avventura nel nano-mondo.
Come ci insegnano le strutture biologiche, massimizzare l’estensione dell’interfaccia è un modo molto efficace per costruire interazioni produttive tra le parti che compongono un organismo e tra l’organismo e il mondo che lo circonda. Da una prospettiva culturale, se siamo abituati a immaginare il mondo come una collezione di individui precostituiti, il concetto di interfaccia ci sfida a riformulare la nostra visione della realtà mettendo la relazione al centro del processo di definizione dell’identità. Una sfida tecnologica, ma anche epistemologica e politica, nella misura in cui ci costringe ad abbandonare la nostra posizione privilegiata di «soggetti davanti allo schermo» per ridefinirci in relazione a ciò che è altro da noi.
Il cyborg ormai è materiale mitologico. In qualità di mito, fonde principi naturali e orizzonti tecnologici, induce alla poesia. È un mito che ogni giorno viene scritto e riscritto nei centri di ricerca: «le nanotecnologie, e in particolare i progressi nella nanomedicina, offrono sempre nuove opportunità di interfacciare gli organismi biologici con oggetti artificiali per costruire dei veri e propri organismi ibridi in cui la distinzione tra il corpo vivente e la materia non-vivente diventa sempre più evanescente». Fino agli ultimi anni la mia idea di intervento artificiale nell’organismo di un essere umano si associava a quella di restauro, di manutenzione, insomma di sopravvivenza: per esempio, i nonni con il pace-maker, dei cyborg particolarmente gentili. Ma tu racconti di un mondo in cui i nanomateriali potrebbero essere utilizzati per potenziare le nostre capacità. Quali sono gli esempi e quali potrebbero essere le applicazioni di questa ibridazione?
Un aspetto che mi ha sempre affascinata del mito del cyborg è che si origina proprio dalla tensione tra interiorità ed esteriorità. Quando Manfred Clynes e Nathan Kline inventano la parola «cyborg» nel 1960, la utilizzano per dare un nome alla loro idea di un essere umano che viene trasformato dall’interno, attraverso protesi artificiali, per potersi adattare all’esteriorità inospitale dello spazio profondo. In termini un po’ più astratti, il cyborg è davvero una creatura figlia dell’interfaccia, nel senso che si definisce continuamente in relazione a ciò che è altro da sé: come ricorda Donna Haraway, il cyborg abita sempre il confine tra umano e inumano, naturale e tecnologico, materiale e culturale. Ritornando sulla terra, forse, dovremmo renderci conto che siamo tutti «già cyborg», nella misura in cui il nostro corpo è continuamente ridefinito dai processi tecnologici e culturali in cui è immerso e che contribuisce a definire a sua volta.
Uno degli aspetti più interessanti delle nanotecnologie è proprio il fatto che lavorano sulla stessa scala della vita, e, per questa ragione, possono partecipare in modo pervasivo ai meccanismi più intimi dei nostri corpi biologici. Senza scomodare l’esplorazione spaziale, lo stesso vaccino Pfizer-BioNTech è una nanotecnologia che diventerà presto una parte integrante dei nostri corpi. Quello che distingue l’approccio nanotecnologico alla modificazione del corpo da una semplice protesi è il fatto che mentre la protesi interagisce con il nostro corpo in modo «generico», le nanotecnologie si basano su meccanismi di riconoscimento specifici, cioè, per dirla in altri termini, parlano il «linguaggio molecolare» delle nostre cellule e possono in una certa misura riprogrammare il loro comportamento. Senza entrare nel dettaglio, il vaccino a RNA utilizza questo linguaggio molecolare per attivare un meccanismo di feedback che agisce in sinergia con i processi biochimici già esistenti nel nostro corpo. E, parlando di «linguaggio», «programmazione» e «feedback» in relazione ai nostri stessi corpi, ci riscopriamo più macchine che umani: ci ricordiamo, per citare Haraway, che non esiste «nessuna separazione fondamentale, ontologica, nella nostra conoscenza formale di macchina e organismo, tecnico e organico».
Un’altra idea centrale del libro, un libro che pensandoci è una ragnatela, è quella della tessitura. La «natura» tesse, tutto è tessuto, ma quando nelle nostre vite accumuliamo una nozione-nuvola di Tecnologia gli unici riferimenti che ci vengono offerti sono… ecco, anelastici, sterili, sanno di dopobarba: penso all’acciaio delle megastrutture, ai bit nel silicio freddissimo, alle fiamme dei razzi lunari. Ma la tessitura ci copre e ci unisce, è forse la tecnologia più antica, sicuramente la più eclettica e sottovalutata: perché il tempo non ne ha preservato le tracce (vince la pietra); perché soprattutto chi tesse, di solito, è una donna.
Ho scelto di partire dalla tessitura perché si tratta davvero di una tecnologia prodigiosa, sia dal punto di vista materiale, sia dal punto di vista concettuale. Uno dei concetti della scienza dei materiali che mi stanno più a cuore, che è anche uno dei più difficili da definire, è quello di «softness»: una parola che caratterizza sia una specifica classe di materiali, come quelli polimerici, che non sono né solidi né liquidi, sia uno specifico modo in cui i diversi elementi di un insieme possono entrare in relazione gli uni con gli altri. La tessitura incarna il paradigma tecnologico della softness non solo perché il tessuto è costituito da materiali flessibili e deformabili, ma soprattutto perché le proprietà del tessuto sono il risultato di una relazione continua e delocalizzata tra le parti che lo compongono.
Si tratta di un approccio alla tecnologia molto diverso da quello a cui siamo abituati, che è invece basato su materiali rigidi organizzati in strutture gerarchiche e centralizzate. Nel contesto delle nanotecnologie, la complessità materiale della tessitura trova la sua massima espressione e acquisisce nuove forme. La più sorprendente, almeno per me, è la capacità di alcuni materiali di auto-organizzarsi, cioè di costituirsi spontaneamente come individui attraverso un processo relazionale. Questa capacità di auto-organizzazione costituisce senza dubbio un approccio innovativo alla tecnologia, ma è anche un’opportunità per illuminare i processi, materiali e culturali, che ci definiscono come gli individui che siamo. In questo contesto, il mito di Aracne – «santa» protettrice di tutti i cyborg – è particolarmente significativo perché, a partire dalla tessitura, racconta come diventiamo noi stessi attraverso la relazione con le nostre tecnologie: ci parla di come i nostri strumenti tecnici ci definiscono come esseri umani, ma anche di come ci rendono necessariamente dei «mostri», creature ibride al centro di un rapporto sempre contraddittorio tra natura e cultura.
Mi piacerebbe parlare solo di processi di ibridazione, di certezze tramortite, antropocentrismi ridicoli, ma siamo pur sempre una newsletter ecologista, nel mezzo di una crisi ecologica senza fine: quale minaccia costituiscono allora, per la biosfera, i nanomateriali?
È interessante rendersi conto di quanto la nostra idea del rischio abbia influenzato l’immagine che abbiamo di alcune tecnologie ancora prima che prendessero forma. L’intelligenza artificiale, per fare l’esempio più evidente, si è fatta strada nel nostro immaginario culturale proprio a partire dal rischio che avrebbe potuto costituire per noi, ben prima che queste paure fossero fondate su una qualsiasi minaccia concreta. Le nanotecnologie, nel corso della loro breve storia, hanno costituito un caso piuttosto plateale di questa percezione distorta del rischio.
Alla fine degli anni ’90 si parlava con sconcertante serietà di «scenario del gray goo» e di «ecofagia globale», cioè della possibilità che i nuovi nano-robot progettati mediante le nanotecnologie potessero devastare il pianeta replicandosi esponenzialmente e consumando tutte le risorse disponibili per la vita sulla Terra. L’orrore di una non-vita sintetica capace di minacciare l’esistenza della vita biologica è paradigmatico dell’inquietudine che proviamo davanti alla capacità straordinaria delle nanotecnologie di sfumare i confini tra organico e inorganico, vita e morte, natura e tecnologia.
Tuttavia, questi scenari apocalittici non hanno contribuito a una riflessione informata sul rischio reale dell’uso dei nanomateriali, che potrebbe essere soprattutto legato alla capacità di penetrazione delle nanoparticelle nel nostro organismo – una capacità condivisa anche da alcuni materiali naturali notoriamente pericolosi, come le fibre di amianto. Ma, a livello globale, il limite ecologico principale all’uso delle nanotecnologie è certamente la dipendenza di molti materiali innovativi dai polimeri derivati dal petrolio e dalle terre rare, le cui pratiche estrattive sono a dir poco controverse. In ogni caso, senza abbandonarsi troppo al tecno-ottimismo spicciolo, è bene ricordare che la vita stessa è, in un certo senso, basata su una forma di nanotecnologia rinnovabile e sostenibile, costituita da elementi chimici largamente disponibili sul nostro pianeta: «nanomateriali naturali» come la seta del ragno possono farci da modelli e indicarci una strada da seguire.
Scrittori e scienziati inventano nuove parole. Questi ultimi, però, di recente hanno tirato fuori una delle mie preferite: la «vyta» [in inglese: lyfe]. Ovvero «una nuova categoria di processi chimici capace di includere una più ampia varietà di forme di “vita come non la conosciamo”». Come la nostra ansia di conoscenza, e l’assurdità delle grandezze che prova a misurare, la decostruzione non ha limiti; ora investe anche la categoria del vivente, e le parole che usiamo per definirlo. Ma tutto questo, dici – e noi con te –, non deve intimidirci: anzi, la vyta è l’ennesima voce che ci suggerisce di abbandonare «la prospettiva che rende la vita un fatto eccezionale per comprenderla come uno dei moltissimi processi dinamici in cui la materia chimica può dispiegarsi».
In molti momenti, durante la scrittura del libro, mi sono dovuta confrontare con l’inadeguatezza del linguaggio che avevo a disposizione per descrivere gli organismi ibridi di cui stavo parlando. Categorie come «organico» e «inorganico», così come le definizioni rigide di «vita» e «non-vita», erano rese subito obsolete dalle innumerevoli configurazioni ambigue e multiformi che la materia è in grado di assumere. Questa tensione tra materia e linguaggio è stato uno dei nodi più impegnativi che mi sono trovata ad affrontare, perché la nostra cultura – Haraway, sulle orme di Luce Irigaray, la definisce spesso «fallogocentrica» – ci ha abituati all’idea che è sempre la parola a definire la materia, e mai viceversa. Fortunatamente, chi ha familiarità con la scienza e la tecnologia sa bene che, nella maggior parte dei casi, avviene esattamente il contrario: è il nostro linguaggio che deve continuamente modificarsi per adattarsi alla materia e alle sue trasformazioni.
Pensiamo ad esempio alle formule chimiche, una specie di «linguaggio in codice» fatto di lettere e segni che ci permette di descrivere lo strano mondo degli atomi che reagiscono tra loro. Forse la scienza mi appassiona proprio per questo: perché è una specie di via di fuga dal linguaggio, o meglio, un modo per ritornarci sempre arricchiti di parole nuove. E queste nuove parole non sono mai definizioni ma passaggi segreti, fili di ragnatela che ci permettono di spostarci da una parte all’altra della rete che ci connette, per stringere nuove alleanze e scoprirci meno soli.