Ruock!
«Penso che Carducci abbia una consapevolezza sociale oltre che politica molto chiara. Certo, è una coscienza eufemisticamente di destra, ma ha il merito di essere esplicita nella sua definizione di “cos’è il rock”. Non sono d’accordo con lui su quasi nulla, ma apprezzo le sue descrizioni di come funziona quell’idea di rock, anche perché è un’idea che torna spesso nell’immaginario di pubblico e ascoltatori».
[dall’intervista di Not a Simon Reynolds, a proposito del rapporto tra immaginario rockista e populismo neoreazionario]
La tesi secondo la quale il rock sarebbe, nella sua ossessione per il «primigenio» e nel suo tendenziale anti-intellettualismo, una musica fondamentalmente populista e in ultima istanza «di destra», ricorre da tempo nel dibattito critico. Storicamente, il suo culmine viene genericamente fatto coincidere con gli anni Novanta del grunge e del britpop, due scene che hanno avuto nei figli annoiati della piccola borghesia bianca i loro eroi, e che erano per definizione prive di qualsiasi orizzonte politico. È chiaro che non ci aspettiamo che un musicista utilizzi la propria notorietà per tenere dei simposi su Weber e Marx; ma in questo caso l’assenza di orizzonte politico si traduceva in maniera più specifica, quasi identitaria: sia il grunge che il britpop furono «discorsi» che non possiamo che definire «individualisti», tanto a livello testuale quanto per ciò che concerne la narrazione mediatica che ne è stata fatta. Per personaggi come Liam Gallagher e Kurt Cobain, le due figure che hanno finito per meglio incarnare i rispettivi generi di appartenenza, non esistevano delle reali dimensioni collettive: il disagio anche profondo che pure incorporavano, ha sempre avuto una specificità singolare, domestica, e non ha mai trovato nel collettivo il luogo preposto a dare delle risposte.
L’assenza di questo orizzonte, sommata ad un atteggiamento contraddistinto da un uso quantomeno spavaldo della corporeità, si traduceva in un ribellismo che sarebbe difficile non catalogare come, appunto, populista; ma al di là degli esempi storici, in generale è vero che sono proprio gli ambienti legati al rock quelli che – in musica – si dimostrano più reazionari e passatisti, spesso e volentieri insofferenti all’idea di accogliere novità o differenze; così come è vero che le voci che, attraverso radio e giornali, interpretano e traducono queste musiche sul piano della cultura producendo i discorsi «intorno» al rock, hanno sovente come sottotesto un machismo intollerante e brutalizzato (basti pensare alla costante riterritorializzazione dell’ascoltatore di musica rock sul «maschio-bianco-cazzuto» costantemente operata da Virgin Radio) che riversa sul piano discorsivo la presunta purezza di una musica che infatti si autodefinisce «rocciosa», vale a dire composta non già da idee, sentimenti o affetti, bensì da minerali.
Se poi veniamo ai giorni nostri, è altrettanto impossibile poi non pensare alla frequentissima correlazione tra schiere di distributori involontari di fake news, seguaci del populismo più intestinale, trumpisti dichiarati, e attaccamento a un certo tipo di immaginario hard rock che potremmo definire classico (Led Zeppelin, Ac/Dc, ecc), un legame che possiamo far risalire indietro nel tempo fino ad arrivare alla Teenage Wasteland indagata da Donna Gaines.
Queste risonanze, che sempre più spesso vediamo all’opera tra rock e sentimento populista, sembrano fondamentalmente figlie del venir meno di una dimensione collettiva che permetta di tradurre il ribellismo di cui sopra dentro una cornice comune e, in ultima istanza, sociale: c’è solo una moltitudine che, piuttosto che riconoscersi come tale, si percepisce come uno-fra-molti. In questo modo tutta l’attenzione è focalizzata sulla legittimità di quegli istinti «originari», non-mediati e in ultima istanza corporali che finalmente possono sfuggire al giogo della sublimazione: tutti diventano atomi che si scontrano in un fuori che non ha nulla di condiviso, cercando di risolvere e scaricare un’energia libidica che però viene puntualmente frustrata dall’assenza di comunicazione, dal venir meno di un orizzonte comune.
Su questo terreno, l’amicizia tra il rock-come-genere e istinti e pulsioni di destra è innegabile e va analizzata. Rovesciarne i presupposti logici sarebbe a prima vista fin troppo semplice: l’essere umano infatti non è un animale sociale in «seconda battuta»; esso «è» solo nel momento in cui «è-con». Basti ricordare quanto diceva Simondon, vale a dire che «l’individuo non è il soggetto»: il soggetto infatti è un’entità metastabile, che si porta sempre dietro una carica di pre-individuale che è per l’appunto la sua connessione con gli altri, il suo «esser-con». Non esiste prima un soggetto e poi il suo ambiente: così come il fulmine non può evitare di trascinarsi dietro il fondo oscuro su cui si staglia, così il soggetto non può fare a meno del suo portato pre-individuale, vale a dire l’insieme di relazioni che incessantemente intesse (e che incessantemente lo intessono) con l’ambiente relativo.
È necessario però prestare orecchio e attenzione alle analisi che tracciano i parallelismi tra rock e destra, poiché in esse c’è una profonda traccia di autenticità: è la realtà stessa a ispirarle, molto più che una qualche presunta forma di snobismo anti-rockista. E se intendiamo confutarle – o almeno se intendiamo confutare il fatto che queste analisi possano riassumere tutto il portato politico di un genere come il rock – è necessario proporre degli argomenti che si discostino in maniera chiara da quanto fino ad ora esaminato.
Spinoza Rock n’Roll
Credo che la questione fondamentale cui il rock tenta di dare risposta sia riassumibile in quella domanda che risuona molto potente nella storia della filosofia e che per la prima volta fu posta da Spinoza, vale a dire: «che cosa può un corpo?». La domanda, nella sua apparente semplicità, si basa su una teoria molto complessa che sarebbe inutile ripercorrere integralmente. Basti dire che per il filosofo dell’Etica il corpo è fondamentalmente espresso da due proprietà: la latitudine e la longitudine. La longitudine, dice Spinoza (via Deleuze e Guattari), «è l’insieme degli elementi materiali che gli appartengono sotto certi rapporti di movimento di riposo, di velocità e di lentezza»; la latitudine è invece «l’insieme degli affetti intensivi di cui è capace, secondo un certo potere o grado di potenza». Questo significa che un corpo è definito da un lato dal divenire costante prodotto dall’interazione degli elementi di cui è composto (un rapporto di «movimento e quiete»); dall’altro dalle passioni e dagli affetti che questo corpo è in grado di sopportare e produrre. È importante notare come in questo discorso tutto sia sottoposto e sottomesso alla nozione di «forza»: la latitudine di un corpo è sempre la forza che esso è in grado di sopportare o di produrre. Anche nel momento in cui il mio corpo ne incontra un altro e vi entra in contatto, ciò che è in questione è la forza che questo altro corpo esercita sul mio, e di converso la forza che io riesco o non riesco a «patire». È in quest’ottica che Spinoza parlerà di passioni gioiose e passioni tristi: ogni altro corpo che si compone col mio dà vita ad un incontro che può aumentare (gioia) o diminuire (tristezza) la mia potenza d’agire, il mio «conatus», la mia persistenza ad essere.
È in questo senso allora che dobbiamo inquadrare la domanda «che cosa può un corpo?»: quali sono le forze cui può sottostare? Quali sono le velocità con cui può entrare in contatto? Quali sono le sue possibilità d’azione? In ultima istanza: qual è la sua potenza?
Quando diciamo «rock» è chiaro che stiamo fluttuando dentro una nebulosa, circoscrivendo uno spazio che è troppo ampio per poter essere maneggiato con cura: dobbiamo necessariamente entrare dentro questa nube per estrarne delle determinazioni più precise. Abbiamo visto come il presupposto fondamentale su cui si regge l’amicizia tra rock e populismo si fondi sul costante riferimento alla purezza, ad un che di «originario», non-mediato dall’intervento dell’intelletto. A questo proposito, nella già citata intervista a Simon Reynolds Valerio Mattioli fa riferimento alle teorie elaborate da Joe Carducci in Rock and the Pop Narcotic (definendolo giustamente «uno dei testi sacri del “vero rock”»), dove il rock viene descritto come «roba per tizi sudati che mandano a fuoco gli amplificatori. Sintetizzando un po’, per Carducci il rock deve essere una cosa chitarra+basso+batteria fatta da giovani maschi (bianchi) senza pretese “artistiche” di alcun tipo; di contro, gli esperimenti “creativi” del pop, ma anche il rap e i ritmi meccanici di house e techno, sono per lui un’aberrazione, il segno di un’effeminatezza e di un’artificiosità che vengono meno ai princìpi di autenticità di una musica autenticamente “popolare”».
Se a noi interessa confutare tanto le teorie di Mattioli e Reynolds quanto quelle di Carducci stesso, non possiamo fare altro che elevare a oggetto della nostra teoria quel rock cui tutte e due le fazioni in campo si riferiscono: un concentrato sonoro fatto di chitarra + basso + batteria (con l’ausilio della voce), riff «voluminosi» e gioventù per lo più bianca/occidentale; proprio come nelle parole di Mattioli, «nella lettura di Carducci il rock è un fenomeno sostanzialmente fascista. Ed è vero che quel tipo di rock lì ha un suo lato populista molto pronunciato… Mi chiedo cosa hai pensato quando arrivò il grunge: per Carducci fu letteralmente un sogno diventato realtà, il che dal suo punto di vista era comprensibile. Voglio dire, prova a metterti nei suoi panni: dal suo punto di vista cos’era il grunge se non una massa di capelloni sudati che bevevano birre e sparavano riff da un ampli valvolare?». E allora proviamo a circoscrivere il nostro ambito d’analisi a quello che è forse l’ultimo dei generi «integralisti» prodotti dalla storia (e dalla storiografia) del rock: proprio lui, il grunge.
Corpi, ambienti, urla
Il grunge, nato a Seattle tra la fine degli Ottanta e l’alba dei Novanta, si caratterizza proprio per quegli elementi individuati in precedenza: è una musica fatta e suonata da giovani maschi bianchi figli di un grigio proletariato urbano armati di chitarra+basso+batteria. I dati più peculiari del genere sono, da un lato, un certo atteggiamento «pensoso», tanto delle liriche (che spesso raccontano o evocano episodi di violenza domestica) quanto dell’interpretazione vocale (che è spesso contraddistinta da una tendenza alla litania apatica); dall’altro un inspessimento della materia sonora e della sua relativa durezza: il grunge non solo rallenta e semplifica l’hard rock e il metal, ma in un certo senso ne esplora fino in fondo le basse frequenze. Così, tanto la vocalità quanto il sound ampliano il loro spettro: i fusti delle batterie diventano più grossi, il basso acquisisce sempre maggiore importanza, le distorsioni delle chitarre si fanno più cupe e le voci vanno a scavare in territori sconosciuti ai vocalist che avevano segnato le epoche precedenti.
Se ne ricava un senso di cupezza diffuso: l’ambiente sonoro diventa freddo, inospitale, scomodo e il soggetto – colui che dice «io», la voce – canta propriamente di questo disgusto, di questa anedonia data dall’essere immerso in questo ambiente che non restituisce più nulla. C’è di più: quando l’ambiente sonoro si fa ancora più aspro, accidentato, finanche pericoloso, il corpo e la sua voce sono costretti a vibrare a intensità quasi sconosciute, a trasformarsi in altro, a mostrare contemporaneamente una grana ed una forma che non sapevamo essere «umane»: è quando la voce si fa urlo. È proprio qui che sorge la domanda: che cosa può un corpo? È qui dentro, all’interno di questa relazione tra un soggetto ed il suo ambiente relativo, che dobbiamo ritrovarlo, un corpo.
Il grunge rappresenta, come punto all’interno della linea evolutiva del rock, il momento nel quale l’urlo, la voce nella sua componente più materica e granulare (corporale), ritrova una consistenza che smette di essere quella dell’hard rock così tipicamente Seventies: se infatti per gruppi come Led Zeppelin e Deep Purple la vocalità, per quanto sollecitata a toccare altezze inconsuete per una musica che era comunque «pop», era declinata attraverso l’uso combinato del falsetto e della gola, quasi ponendo una distanza ironica tra l’urlo e la sua messa in atto (che era anche sempre virtuosismo e perciò intrattenimento), nel grunge questa dimensione della distanza sembra completamente assente: qui abbiamo un corpo che, costretto in un mondo la cui struttura è caotica, affilata, sconnessa, sulla spinta del suo conatus (della sua persistenza ad essere) è costretto ad urlare, ed è costretto a farlo a determinate altezze: l’urlo non è mai un puro indeterminato. Tutt’altro: la voce che lo incarna deve risuonare ad intensità specifiche, deve passare attraverso delle misure e degli interstizi (che sono quelle del suo ambiente relativo) se vuole rivendicare la sua presenza, se vuole far valere la sua potenza.
Proviamo a chiarire meglio: nell’hard rock «classico» (e in maniera forse ancora più lampante nelle sue derivazioni/scimmiottamenti più deleteri) i punti «notevoli» della performance vocale erano per lo più degli acuti, dei pezzi di bravura che, proprio per la modalità con cui venivano eseguiti, li slegavano da una qualsiasi forma di necessità intrinseca. L’acuto si trasformava in questo modo in una sorta di abbellimento, di decoro, che veniva applicato dall’esterno: non era necessario. Nel grunge, invece, ci sembra che nei momenti in cui un urlo (e non un acuto) prorompe, questo sia sempre il figlio di un concatenarsi di eventi che non ha altra soluzione che quello stesso prorompere. Quel canto, quell’urlo, sono la risposta che quel corpo trova dentro quella situazione sonora, dentro quell’ambiente.
Sbaglieremmo se concepissimo l’urlo (l’urlo in generale) come il lamento del corpo: l’urlo è piuttosto la maniera che il corpo trova di rendere sopportabile una situazione, è una modalità dello stare al mondo, ed è talvolta l’unica modalità che un corpo trova per sopravvivere: è questa la sensazione che alcuni momenti particolarmente significativi del grunge restituiscono. Se pensiamo all’urlo di Cobain che apre «From the Muddy Banks of the Whiskah» o alla grana della voce di Vedder in «Blood», si coglie con estrema chiarezza quello che già Deleuze diceva a proposito della pittura: si tratta di «rendere udibili forze che non lo sono». Cobain deve letteralmente andare a prendere quella frequenza, la sua voce deve rompersi fino a quel punto per dare conto di quell’intensità, di quel mondo che qualche secondo dopo prenderà forma: anticipandolo lo evoca, ma tutto è preso in un rapporto che è necessario, quantomeno a partire dal momento in cui vogliamo dare risposta alla nostra domanda: «che cosa può un corpo?».
Perché è per l’appunto qui che ritorniamo: quali sono le forze di cui il mio corpo è capace? Per scoprirlo sono costretto a trascinarlo in situazioni che sono sempre più estreme, sempre meno «ordinarie». È chiaro che per inerpicarsi per queste lande, per far dialogare questo corpo con forze e potenze che lo spingono verso i suoi limiti, occorra una disciplina, ed è nella necessità di questa disciplina che si cela il fallimento del punk come progetto artistico. Il culto «cristologico» per il corpo del cantante rock (in generale) è facilmente spiegato dal meccanismo che abbiamo visto: se quel corpo è deputato a rendere udibili forze che non lo sono, se quel corpo è «allenato» a incarnare delle potenze inedite, allora a quel corpo (e a quella voce) è assegnata una missione in qualche modo sciamanica. Ma lo sciamano non è l’idolo: lo sciamano è il tramite attraverso cui si entra in relazione con delle intensità che prima ci erano interdette, e il posto dello sciamano è il posto di chi si prende il rischio di avventurarsi per territori sconosciuti per poi farci vedere ed ascoltare i «segni» che questo viaggio ha lasciato. Per rendere conto di questi segni, per fare dell’empirismo trascendentale un’etica, per scoprire «che cosa può un corpo», il viaggio va intrapreso senza ripensamenti, senza trucchi e senza scorciatoie.
Tutto si tiene
Finora si è parlato essenzialmente di un corpo che era anche «soggetto»: soggetto che si muove, reagisce e cerca soluzioni all’interno di un ambiente sonoro. Sarebbe però stato più saggio parlare di «processi di soggettivazione»: ciò che effettivamente una canzone ci mostra è il sorgere contestuale di un soggetto e di un ambiente, il loro farsi. Non possiamo però considerare l’ambiente come un semplice «sfondo»; è necessario che esso abbia invece una sua consistenza.
Partiamo da un dato: nulla di ciò che avviene nella canzone preesiste al suo effettivo attualizzarsi, alla sua «presentificazione»; ogni elemento che concorre a generare questo «piano sonoro» è parte di una molteplicità che non ha un principio fuori di sé. Restando nell’alveo del grunge per come lo abbiamo definito, allora, quello stesso procedimento che abbiamo rintracciato come operante rispetto alla voce (il corpo), dobbiamo immaginarlo all’opera per tutte le componenti che costituiscono la musica. Anche il basso, anche la chitarra, anche la batteria sono dei corpi: anche loro, anche per loro, l’ambiente sonoro nel quale si muovono è un ambiente all’interno del quale far valere il proprio conatus.
Prendiamo un brano stranoto come «Black Hole Sun» dei Soundgarden: qui la batteria cerca di scolpire il tempo di quell’ambiente sonoro entro il proprio sentire; tutti i colpi di Matt Cameron servono a disegnare il tempo entro il quale la canzone può dispiegarsi, ma contemporaneamente sono anche una «forza di gravità» che tiene a bada il resto: il ritmo è la vera «misura» attorno alla quale può nascere un territorio. Allo stesso modo le note di chitarra trovano la loro strada all’interno di quel ritmo, di quella misura: ogni suono è un corpo teso tra le maglie imposte dall’ambiente e la sua propria forza e potenza, tra ciò che è capace di sopportare e ciò che è capace di esprimere. È in questo sviluppo che va ricercata la ragione di distorsioni talvolta esasperate, di colpi di rullo e tamburi che si portano appresso il sudore e i muscoli di chi li esegue: ogni strumento deve passare attraverso il proprio ambiente per rivendicare il suo posto nel mondo e costruire un territorio (oppure per distruggerlo, per fuggirne). È per questa stessa ragione che i suoni lisci, levigati, in qualche maniera «ripuliti», non hanno cittadinanza (o, se ce l’hanno, restituiscono una plasticosità all’ascolto) all’interno di questi ambienti musicali: è perché sono suoni che non sono andati abbastanza lontano, che hanno sperimentato poco. Sono suoni ingenui.
Il risultato di queste interazioni è un insieme di misure e di relazioni che dà vita ad una vera e propria molteplicità sonora. Basso, chitarra, batteria e voci si legano e si tengono l’un l’altro senza un principio esterno che ne predetermini l’interazione. Così come nello stormo di rondini il singolo uccello non è consapevole della forma che il gruppo disegnerà grazie alla sua interazione con i suoi simili, allo stesso modo i piccoli «io» che stanno dietro alla chitarra, alla batteria, alla voce e al basso non hanno coscienza del rapporto che andranno ad incarnare. È chiaro che questa modalità di scrittura musicale (si potrebbe dire d’azione) non è affatto al riparo dal cliché, o peggio ancora dallo scimmiottamento: dietro gli «io larvali» che animano i corpi di questo ambiente che è la canzone rock può sempre nascondersi un’assenza di conatus, un desiderio di assoggettamento, un potere che castra piuttosto che una potenza che desidera. È qui che si cela una certa «politica» intrinseca alla canzone, che rovescia quelle interpretazioni che abbiamo riportato in apertura di questo scritto: la domanda da farsi diventa «che cosa desidera la canzone?», «che cosa desiderano i corpi che la animano?», «c’è un desiderio di assoggettamento oppure di soggettivazione?».
Dispositivi
Quando pensiamo a brani che mettono in scena dei dispositivi «oppressivi», soffocanti, finanche «repressivi» (come capita sovente nel rock più duro o nel metal), non dobbiamo commettere l’errore di confondere l’esperimento con il risultato. Passiamo a una canzone come «The Wheel» dei Motorpsycho: con il suo incedere ipnotico e selvaggio, il brano (costante e inarrestabile ripetizione di un distortissimo riff di basso e chitarra) sembrerebbe esaltare un certo concetto di ordine ultradisciplinato. Se guardiamo con un occhio (e soprattutto con un orecchio) più attento ci accorgiamo però di come il brano non faccia altro che «farci vedere» il darsi di un dispositivo d’oppressione e il relativo resistere di un corpo che prova a sfuggirvi; la voce urla tutta la sua tribolazione, ma anche la batteria prova a sfuggire all’incedere «matematico» del riff, così come la chitarra prova a fenderlo, ad aprirlo, a incrinarlo. Se il risultato dell’interazione tra questi corpi è comunque quello di un mondo terrificante, allora forse il senso ultimo del brano dei Motorpsycho è che se l’emergere di dispositivi oppressivi è inevitabile, non per questo dobbiamo lasciare spazio alla rassegnazione.
Questo dispositivo che i Motorpsycho ci fanno sentire e vedere (facendoci fare esperienza del processo stesso, esperimento di una resistenza possibile), è in qualche modo l’immagine in negativo del dispositivo (strumento di assoggettamento che assegna ruoli e funzioni e stabilisce chi e cosa far sentire e parlare) che invece, feticizzandosi, produce l’international pop da classifica (per l’appunto il risultato di un esperimento in cui di resistenza non v’è mai stata traccia): se «The Wheel» ci fa sentire tutta la sofferenza di ciò che significa esser presi dentro un ingranaggio cui sembra impossibile sottrarsi, nell’international pop (anche in quello più acclamato) assistiamo al contrario alla messinscena che quello stesso ingranaggio produce: il dispositivo scompare dietro i prodotti cui dà vita.
Se, come dice Agamben, un soggetto è sempre il risultato dell’incontro tra un dispositivo e un essere vivente, se l’essere umano non è pensabile fuori dal suo rapporto col dispositivo, allora la canzone (la canzone per come si dà nel contesto di un genere come il grunge), in quanto dispositivo che non si occulta ma piuttosto si mostra e si offre, diventa strumento di rinnovamento, pratica di soggettivazione che resiste a ogni forma di assoggettamento.
Una canzone «da farsi»
Abbiamo detto che l’interazione tra questi corpi (che sono di fatto gli abitanti della cittadella del rock) non è predeterminata da nessun principio estrinseco: dov’è allora che possiamo assistere al riunirsi di questa geometria di relazioni e rapporti? Dov’è che potremo reperire il «senso» di questo «evento» che sarebbe la canzone rock?
Il «fuori» di questo fascio di relazioni, la possibilità di cogliere questa misura, esiste solamente in quella che è la sua destinazione: vale a dire nell’ascoltatore. Per dirla con Barthes, «Un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da culture diverse che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo, parodia o contestazione; esiste però un luogo in cui tale molteplicità si riunisce, e tale luogo non è l’autore, bensì il lettore: il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione[…]il lettore è un uomo senza storia; è soltanto quel qualcuno che tiene unito in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito».
Se riflettiamo sul ragionamento compiuto da Barthes (sostituendo il lettore con l’ascoltatore) ci rendiamo conto di come il luogo della destinazione sia non tanto un soggetto individuato, quanto piuttosto una funzione, funzione che – ci sembra di poter dire – resta interamente iscritta dentro al testo (per estensione: alla canzone): ritroviamo qui i principi di una sperimentazione che non ha coscienza, che non è personale, che va piuttosto alla ricerca di un corpo, di una potenza. Non esiste un soggetto che istituisce la canzone (al massimo è quest’ultima ad istituirne uno), né tantomeno esiste un soggetto cui la canzone si direziona: è sempre lei, in quanto evento, ad assegnare ruoli e possibilità. È la canzone in quanto tale a esigere dai corpi dei musicisti la disciplina necessaria a metterla in opera, così come è la canzone in quanto tale a investirci, mediante quei corpi, di quelle potenze di cui non avevamo ancora fatto esperienza.
Autori, ascoltatori, corpi, ambienti, soggetti: tutti questi elementi (delle vere e proprie funzioni: funzione-autore; funzione-ascoltatore; etc.) si vedono assegnare i ruoli dall’evento-canzone, nel mentre del suo farsi. In questo senso un corpo, un soggetto, un ambiente e un territorio sono sempre da farsi: contro ogni identità precostituita, contro ogni dispositivo assoggettante, c’è sempre una sperimentazione da fare per guadagnare un ambiente, per produrre soggettivazione, per costruire un territorio. È in seno a questa logica che il grunge ricusa qualsiasi populismo, qualsiasi lettura che si fondi su un’idea di «maschio-bianco-sudato-con-ampli-a-manetta» che scimmiotta un’immediatezza e un’urgenza ridicolmente viscerali: dietro l’evento della canzone non si cela nessuna verità originaria, se non l’idea che la verità stessa sia sempre una verità da fare, un evento da sperimentare, piuttosto che un’origine da recuperare.
Postilla: Due parole sul silenzio
È chiaro che, alla fine di questo percorso, qualcosa andrebbe detto a proposito dello sfondo sul quale avviene l’attualizzarsi di questi suoni, di questi corpi. Qualcosa, insomma, andrebbe detto a proposito dell’inconscio che innesca l’avvento dell’evento canzone.
Se per il pittore lo spazio a partire dal quale può darsi qualcosa è quello della tela bianca, per il musicista questo spazio non può essere che il silenzio. Sarebbe perciò grazie a questo incavo, a questo silenzio diciamo puro, privo di interferenze, che è possibile che un suono «si senta».
Prima che la canzone compaia è necessaria una dimensione in cui l’udibile si presenti in maniera, per così dire, nuda: certo, si tratta di una dimensione astratta (metafisica forse, perché fisicamente impossibile), ma al contempo perfettamente reale: la canzone meno i suoni di cui è composta. Così delineata però, la dimensione del silenzio come apertura non ci darebbe nessun conto di come gli stessi «agenti» possano dare vita a eventi (cioè canzoni) differenti: se la dialettica è tutta incentrata tra l’interagire dei «corpi» e il loro stagliarsi sull’orizzonte del «silenzio», resta la difficoltà di spiegare il processo di differenziazione. È perciò necessario introdurre la dimensione di un inconscio preindividuale sul quale tutto è connesso con tutto, tutto reagisce su tutto, senza soglie che identifichino individui o soggetti.
Ritorniamo per un attimo a quanto detto a proposito del fascio di relazioni che costituisce il piano virtuale della canzone: se estendiamo questa idea di virtuale all’intero piano della realtà, ritroviamo la natura dell’inconscio che cerchiamo di delineare; un piano sul quale tutti gli eventi sono incastrati l’uno nell’altro, in uno stato di comunicazione continua ed incessante. Questo piano però è inaccessibile: quello che, radicalizzando Lacan, possiamo definire il Reale (della musica), è sempre in un certo senso «eclissato». E in questa eclissi, in questo nascondimento, emerge il silenzio come suo effetto: è così che vien fuori il silenzio «nudo» di cui dicevamo. Tagliare il silenzio, reciderlo, significa proprio operare un taglio dentro questa sutura: far passare qualcosa attraverso questa membrana. Proprio come per Fontana in pittura, squarciare questa membrana è l’operazione necessaria per conquistare una nuova regione.
Ponendo la questione in termini concreti: che differenza c’è tra «No One Knows» dei Queens of the Stone Age e «Go With the Flow», scritta dalla stessa band? Perché in un brano quei corpi musicali interagiscono e si individuano in un certo modo mentre nell’altro seguono un percorso del tutto diverso? Come è articolato il silenzio in questi due brani? È evidente che le due canzoni hanno operato un «taglio» su due regioni differenti della tela, del piano: ciò che ne è venuto fuori è un insieme di forze e di passioni, di velocità e lentezze diverse, a seconda della regione. Queste forze sono «inudibili»: sono silenziose, e compito della musica è appunto farcele «sentire». La canzone però non va pensata come una traduzione di una realtà extrasonora. Se è vero che sarà sempre da una situazione «attuale» (vale a dire fisicamente e storicamente determinata) che il musicista andrà ad operare questo taglio, ciò non significa che la canzone sia una traduzione, in musica, della realtà: quello che sentiamo nelle Desert Sessions di Josh Homme non è il deserto in musica, quanto piuttosto quelle forze e quelle potenze che presiedono lo stesso darsi del deserto.
È a partire da questo taglio che il musicista avrà i suoi bei corpi da far interagire, i suoi ambienti da popolare, le sue dinamiche da sperimentare. Prendiamo ad esempio «Keep Your Eyes Peeled», ancora dei Queens of the Stone Age: la rarefazione che ascoltiamo, questo paesaggio realmente desertico che la canzone ci presenta, come considerarlo? È qui che abbiamo modo di vedere all’opera il silenzio: il fatto che in un certo qual modo la chitarra manchi (o quantomeno che emerga in una maniera affaticata, infiacchita, strozzata) designa un’assenza che rivendica più forza di quanto non farebbe il suo pieno suonare: è il suo silenzio, il suo ritirarsi a fare rumore. Anche qui, anche in questa dimensione preindividuale, non abbiamo a che fare nient’altro che con corpi: quel corpo che è la chitarra è talmente costretto dal sistema delle forze che premono su di lui da non riuscire a farsi sentire completamente: evidentemente il silenzio è la prima soglia da attraversare per accedere alla dimensione dell’udibile.
Tirando le somme, appare chiaro che ci troviamo di fronte ad almeno due diverse dimensioni del silenzio: 1) data una canzone, sono assenti tutti quei suoni che non hanno nulla a che vedere con la regione del piano «tagliata» dal gesto del musicista. Possiamo definire questa come la dimensione del silenzio negativo, nel senso che opera per negazione: la nuda dimensione dell’udibile, reale di diritto, ma di fatto inesperibile. 2) Abbiamo poi una seconda determinazione dove ritroviamo tutta una serie di suoni, di sostanze sonore, che non udiamo, ma che in qualche misura spingono sulla musica che effettivamente ascoltiamo: un silenzio poetico, in quanto opera mediante la categoria della «produzione». Il silenzio qui dispiega il suo senso più profondo, perché nonostante tutto noi, quella chitarra assente, pur senza ascoltarla la sentiamo. È qui che abbiamo accesso alla dimensione di quelle forze che sono inudibili: attraverso questa maglia che è la canzone, abbiamo la possibilità di fare esperienza di un fuori che, pur nella sua inattualità (vale a dire nel suo non-darsi come attuale), premendo sulla sostanza sonora, in qualche modo si fa sentire.
Ma il silenzio (nella sua accezione produttiva) è sempre qualcosa da farsi: è attraverso la sperimentazione che il musicista strappa qualcosa a ciò che è al di là della musica nella sua attualità materiale, il Reale. Questo silenzio produttivo è perciò un resto, uno scarto, inascoltato eppure sentito, causa ed effetto contemporaneamente: l’inconscio della canzone.