Psicogeografia e videogiochi
All’Internazionale Situazionista sarebbero interessati i videogiochi. L’Internazionale Situazionista nacque nel 1957, quando Guy Debord fuse la precedente Internazionale Lettrista con il Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista, ed ebbe una grande importanza nel porre le basi del Sessantotto europeo, nella speranza di una «immaginazione al potere». Ma nei primi anni applicò soprattutto marxismo e filosofia hegeliana per pensare un nuovo modo di costruire e vivere le città, perché la rivoluzione potesse avere spazi altrettanto rivoluzionari. I Situazionisti erano insoddisfatti con l’edilizia dell’epoca e con il funzionalismo dell’architettura di Le Corbusier. «Lasciamo volentieri al signor Le Corbusier il suo stile, adatto a fabbriche e ospedali. E anche alle prigioni del futuro, certo: non sta forse già costruendo chiese?», scrive Gilles Ivain nel 1953 (ma il testo sarà pubblicato nel primo numero della rivista Internazionale Situazionista nel 1958 in una versione edita da Guy Debord stesso).
L’obiettivo dei Situazionisti era prima di tutto la creazione di «situazioni», momenti «costruiti deliberatamente dall’organizzazione collettiva di un ambiente unitario [cioè nato dalla combinazione di ogni arte] e da un gioco di eventi». Il luogo in cui questo sarebbe dovuto succedere non poteva che essere la città, lo spazio dove gli uomini vivono, ma per riuscirci serviva una nuova teoria urbanistica, un «Urbanismo Unitario», cioè «l’uso combinato di ogni arte e di ogni tecnica nella costruzione integrale di un ambiente dinamicamente connesso con esperienze comportamentali». E per studiare come le città avevano sinora influito sulle persone e per ideare la loro città del futuro, i Situazionisti si affidarono a una disciplina chiamata «psicogeografia», lo studio degli «effetti, volutamente pianificati o no, del contesto geografico sul comportamento degli individui» (tutte queste definizioni vengono dall’Internazionale Situazionista del 1958). A sua volta, lo studio della psicogeografia, cioè degli effetti della città sull’uomo, poteva essere svolto con la pratica nota come «deriva», definita già nel 1954 sulla rivista Potlatch come «una tecnica di locomozione priva di obiettivi e che dipende dagli influssi dei luoghi». Vagando a caso e senza meta (e spesso ubriachi o drogati) i membri dell’Internazionale Situazionista si spostavano nella città solo sotto l’influenza della città stessa, e in questo modo potevano capire dove la città li portasse e gli effetti dei suoi luoghi. Potevano capirne, insomma, la psicogeografia.
Apparentemente, gli spazi digitali dei videogiochi sembrano i luoghi cercati dai Situazionisti, luoghi costruiti unendo tutte le arti in un’unica disciplina e progettati davvero per il gioco, per la nascita di situazioni e per far emergere comportamenti. «L’architettura si conforma alla funzione: mangio qui e dormo là. Qui lavoro e là leggo. L’architetto lo ha attentamente studiato. Tutto serve al suo scopo. Ma dove è che dovrei ridere o piangere? Dove è il posto per odiare o per respirare?» si chiede nel 1965 l’architetto Günther Feuerstein. I videogiochi sembrano la risposta: le loro città e le loro stanze non sono fatte per mangiare, per dormire o per lavorare ma solo per giocare, per piangere, per avere paura. I videogiochi offrono esperienze collettive (nei «multiplayer») e luoghi pronti a sorprendere, alcuni sfruttano algoritmi per creare mappe sempre diverse, altri danno la possibilità ai giocatori di modificare la geografia secondo il sogno situazionista di una città sempre mutevole e magari mutabile per opera dei suoi stessi abitanti.
«Una delle ragioni per cui le città sono tanto importanti nei giochi e che sono importanti nella vita reale», spiega Konstantinos Dimopoulos, esperto di città virtuali e autore del volume Virtual Cities: An atlas & exploration of video game cities. «E sono tanto importanti nella vita reale, soprattutto nel capitalismo, perché sono gli snodi economici e geografici della produzione e del consumo. Sono campi di battaglia politica e ideologica di immensa importanza.»
«[…] Non direi però che le città siano centrali nei videogiochi quanto lo sono nella vita reale», aggiunge Dimopoulos. «Sono presenti, certo, ma molti giochi sono felici di ignorarle». Anche quando i videogiochi non presentano spazi urbani la loro non è comunque una vera «natura», un territorio selvaggio: tutto quello che appare nel gioco è programmato e in qualche misura pianificato dai suoi sviluppatori, è uno spazio umano e pensato per umani (per chi gioca). La città chiamata City 17 del videogioco d’azione in prima persona Half-Life 2 ci guida con graffiti, con l’attento posizionamento delle munizioni da recuperare e dei nemici da sconfiggere, ma anche con il volo di stormi di corvi che attirano e spostano il nostro sguardo. Lo sviluppatore può muovere e manipolare l’intera realtà digitale, e i videogiochi hanno imparato ad applicare tutti gli strumenti studiati dalla psicogeografia. Geometrie, architetture, colori, suoni e luci indirizzano chi gioca verso i suoi obiettivi e creano emozioni e narrazioni, mentre i personaggi non giocanti (cioè quelli controllati dal software) sostituiscono ciò che nel mondo reale è la polizia, ostacolandoci o dirigendoci secondo la volontà dell’autorità. All’inizio di Half-Life 2 il mio compito è proprio muovermi nella città evitando la polizia e i suoi posti di blocco.
C’è però un’importante differenza tra città videoludica e città reale: la città reale è una creazione stratificata. Secoli di potere l’hanno costruita e demolita per necessità diverse, a volte in completa contraddizione l’una con l’altra. In alcuni paesi europei, come l’Italia, è spesso ancora possibile riconoscere la struttura del campo militare romano con cardo e decumano, a cui si sovrappongono o affiancano i labirintici quartieri medievali centrati sullo spazio comune della piazza/Chiesa, a cui a loro volta si sovrappongono centinaia di anni di stravolgimenti, ricostruzioni dopo eventi catastrofici e, più vicino a noi, le conseguenze del boom economico del secondo dopoguerra. «Tutte le città sono geologiche, ed è impossibile fare tre passi senza incontrare fantasmi che portano con loro tutto il prestigio delle loro leggende», scrive Gilles Ivain nel testo già citato e pubblicato nel primo numero della rivista Internazionale Situazionista. Il videogioco offre in questo senso un’occasione difficile da trovare nelle città reali: l’esplorazione psicogeografica di uno spazio costruito e gestito da un’unica autorità.
«Non direi che gli spazi videoludici siano autoritari per definizione», afferma Dimopoulos.«Sono spazi progettati da una volontà autoriale, sì, ma questo è perché come opere d’arte non possono esimersi da esprimere le idee, le credenze, i desideri e le paura dei loro creatori. Direi che sono autoritari quanto la trama di un libro e che i creatori di giochi hanno esattamente lo stesso potere assoluto che ha un romanziere. Quello che le fa sentire spesso limitanti è che l’interattività del medium promette una libertà assoluta.» È un punto importante e ben raccontato nel recente film interattivo di Netflix Black Mirror: Bandersnatch: la libertà di chi gioca è solo apparente.
«D’altra parte», continua Dimopoulos, «chi gioca è spesso spinto a seguire la volontà dello sviluppatore, anche perché solo così non si spezza l’illusione di uno spazio urbano credibile».
In questa ricerca di credibilità i videogiochi spesso ripropongono le strutture della società capitalista, a partire dai suoi spazi. «Penso che ci siano alcuni videogiochi ad alto budget che hanno prospettive interessanti e critiche su come i rapporti di potere si inseriscano negli spazi urbani» dice David ‘Colestia’ Cribb, autore di vari videogiochi ispirati alle teorie marxiste tra cui New Lethes, un invito alla deriva situazionista in uno spazio digitale. «[…] Ma a parte questi casi, non sono molti i giochi che trattano la città stessa come uno spazio di azione politica, e sono ancora meno quelli che lo trattano come uno spazio di azione politica collettiva.»
La città videoludica non serve per mangiare, dormire o lavorare, ma cerca di imitare ugualmente le città che servono a mangiare, dormire e lavorare, i loro rapporti di potere e i loro sistemi. “Giocare” ai videogiochi è soprattutto “competere”, ottenere punteggi, ottenere risorse (virtuali) da spendere per comprare potenziamenti che permettano di ottenere più rapidamente altre risorse, in una fantasia che ci cala nei panni del capitalista che ci sfrutta nella vita reale.
«Fa certo parte del campo di applicazione dei videogiochi essere piccole Nuove Babeli [progetto di città del futuro del situazionista Constant], mutevoli spazi di creatività e socialità» dice Colestia. «Ma siccome i giochi sono prodotti e consumati sotto le condizioni del capitalismo si portano dietro tutti i più generali problemi che hanno i prodotti culturali capitalisti. Sono creati attraverso lo sfruttamento dei lavoratori, funzionano solo come un modo per rilassarsi dal lavoro e per il lavoro, e la creatività di chi gioca è trasformata in lavoro gratuito per il capitale. Penso quindi che anche se i videogiochi mirano a quella relazione giocosa con lo spazio ipotizzata dai Situazionisti, essa non può essere comunque realizzata all’interno di una condizione capitalista.»
Persino la ricerca di segreti, nascosti in percorsi alternativi e collaterali che obbligano chi gioca ad abbandonare la strada principale e a esplorare le vie secondarie, non è altro che una sovversione attentamente pianificata e controllata dagli sviluppatori, che ci danno la sensazione di aver scoperto qualcosa che era destinato a non essere visto. I segreti dei videogiochi sono invece pensati proprio per essere scoperti, così come le loro sfide sono pensate e progettate per essere superate.
Avete presente la serie Super Mario Bros, in cui l’idraulico Mario (spesso in compagnia di altri personaggi come suo fratello Luigi) deve superare a salti vari ostacoli e balzare piattaforma dopo piattaforma sino a raggiungere e sconfiggere la tartaruga-drago Bowser? A Bowser basterebbe togliere una piattaforma qua e là per rendere impossibile il percorso di Mario, ma invece gli ostacoli e i dirupi che il protagonista deve superare sono pensati per non essere mai impossibili. I videogiochi ci danno quella sensazione di controllo che manca nelle nostre vite quotidiane: le loro sfide sono sormontabili, create per le nostre capacità e per i nostri strumenti e il gioco ci premia per i nostri successi in modo chiaro e immediato.
La sensazione che lo sviluppatore di videogiochi ricerca è detta «flusso». Il flusso, definito negli anni Settanta dallo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi, è una condizione di immersione felice in un’attività. Nel videogioco, sfide troppo difficili rispetto alle capacità di chi gioca portano a frustrazione, mentre sfide troppo facili portano a noia: il flusso è in mezzo a queste due condizioni. I giochi diventano più difficili andando avanti per compensare la sempre maggior abilità di giocatori e giocatrici, e alcuni videogiochi aggiustano anche in maniera dinamica la loro difficoltà diventando più semplici e più difficili in base a successi e fallimenti. Quando chi gioca si trova nel flusso sente di avere il controllo della situazione, perde consapevolezza di sé e del passaggio del tempo e non ha bisogno di motivi per andare avanti: l’immersione nel flusso è già una spinta sufficiente.
«Il divertimento elettronico offre, in forma vicaria, soddisfazioni psicologiche precluse al precariato nella cosiddetta realtà» scrive il filosofo Matteo Bittanti, docente all’Università IULM di Milano e coordinatore del Master in Game Design. «Panacea virtuale delle crescenti ineguaglianze, il videogioco è un efficace dispositivo di governo, inteso in senso foucaultiano [cioè come qualcosa in grado di orientare le azioni delle persone]. Esso opera infatti attraverso la logica della gratificazione e della ricompensa, elargendo stimoli psicologici positivi. Titilla e seduce il soggetto, anziché penalizzarlo e paralizzarlo. Laddove la realtà delude, il videogioco illude [i corsivi sono di Bittanti], definendo le priorità del giocatore, protocollandone i desideri, plasmando le sue ambizioni.»
Superare le sfide dei videogiochi fa anche sentire parte di un club segreto, di una élite (prevalentemente maschile, bianca, eterosessuale, cisgender e normodotata) che nel mondo reale sente diminuire la sua presa e i suoi privilegi. Questo spiega (in parte) la resistenza degli appassionati di videogiochi a qualsiasi cambiamento che renda il medium più accessibile e più inclusivo. Nel 2014 l’opposizione all’ingresso di donne e minoranze nell’industria del videogioco e a una loro migliore rappresentazione nelle opere si è concretizzata in un vero e proprio movimento, chiamato GamerGate, che sarebbe stato fondamentale anche nel successo elettorale di Donald Trump.
Le multinazionali e i governi sono intanto sempre più consapevoli del potere immersivo del videogioco e lo sfruttano con iniziative di gamification: l’applicazione delle meccaniche e delle regole ludiche a ciò che gioco non sarebbe. «In un futuro non lontano i videogiochi smetteranno di essere esperienze discrete e consce e diventeranno esperienze indiscrete e inconsce» ha affermato Andrew Wilson, amministratore delegato di Electronic Arts (uno dei più grandi editori multinazionali di videogiochi). Wilson prospetta un futuro in cui non esisterà più divisione tra le nostre azioni nella realtà e le nostre azioni nel videogioco e in cui potremo essere premiati nel celebre simulatore di casa The Sims in base a cosa ci sarà nel nostro frigo reale. Un futuro in cui multinazionali proprio come Electronic Arts potranno premiare o punire i nostri comportamenti quotidiani attraverso i loro videogiochi. Pokémon Go di Niantic e The Pokémon Company è un buon esempio di questa tendenza: il videogioco inserisce virtualmente nelle nostre città mostriciattoli da scoprire e catturare (i pokémon del titolo) mentre ci muoviamo realmente nelle vie e interagiamo con questi elementi virtuali grazie allo smartphone. I punti più importanti delle città vengono intanto trasformati dal gioco in zone in cui recuperare oggetti (i PokéStop) e dove sfidare gli avversari per il controllo del territorio (le Palestre).
Quindi alla fine Pokémon Go mi spinge a muovermi nelle solite strade di sempre, per raggiungere i soliti luoghi e combattere per controllare i soliti monumenti. Le zone povere e le aree rurali, le periferie senza storia della città, si ritrovano prive di risorse anche nel videogioco in quanto povere di “punti di interesse” nella realtà e Niantic ha collaborato con Mc Donald’s per incoraggiare le persone ad andare nei fast food della catena attirandole con ricompense nel gioco. Ciò che potrebbe sovvertire le nostre città trasformandole in spazi ludici supporta e conferma l’ordine capitalista.
«La città potrebbe alla fine coprire l’intera superficie della Terra» affermò Constant nel 1960 durante un intervento al Stedelijk Museum di Amsterdam. «E questa superficie sarà anche sfruttata in modo sempre più intensivo. Quello che perderemo a livello di spazio geometrico, lo dovremo recuperare come spazio psicologico. […] In questo intensivo sfruttamento della superficie terrestre, cosa ne sarà del contrasto tra città e paesaggio, dove potremo trovare una natura priva di ostacoli, che fine farà la vita all’aria aperta?» Ma la città non ha guadagnato profondità psicologica: prive di spazi e orizzonti reali, le persone si sono spostate su un piano virtuale. Minecraft di Mojang (ora proprietà di Microsoft) è un videogioco in cui in un mondo (quasi) infinito ogni risorsa naturale può essere raccolta e trasformata in nuove creazioni. Con 154 milioni di copie, Minecraft è oggi il videogioco più venduto dopo Tetris, ma cosa è Minecraft se non la consolazione digitale per un mondo reale finito e apparentemente resistente a ogni cambiamento? Fortnite di Epic Games è solo l’ultimo esempio di questo fenomeno, ma la sua importanza è oggi tale da essere un caso esemplare: gli account registrati sono 250 milioni, e il gioco sembra destinato a lasciare un’impronta indelebile in tutta l’industria.
Fortnite è famoso per la sua modalità Battle Royale: i giocatori vengono paracadutati su un’isola e devono uccidersi e sopravvivere con le armi e le risorse recuperate sul luogo fin quando non ne resta uno solo. Soprassiedo stavolta sull’analisi del vetusto darwinismo sociale promosso acriticamente da questi giochi (e osteggiato invece dalla loro fonte originale, il romanzo Battle Royale di Koushun Takami). Fortnite acquista importanza perché diventa la prima Battle Royale ad arrivare gratuitamente su console e poi a unire tutte insieme le persone che giocano su PC, console e dispositivi mobili, ma questo spiega solo in parte il suo successo. Il punto è che Fortnite permette sia di distruggere sia di costruire: le risorse recuperate possono essere spese per edificare rapidamente muri, scale e interi fortini. E nella sua modalità «creativa» il gioco dà a ogni utente una sua isola in cui costruire liberamente la sua esperienza da condividere con gli amici. «Anche la personalizzazione più semplice può creare un forte attaccamento emotivo al mondo di gioco» spiega Colestia. «Sembra che permettere alle persone di essere creativi e dar loro gli strumenti per esserlo sia, e sarà, davvero popolare» aggiunge Dimopoulos. «Apprezzo la natura aperta di questi videogiochi simili a giocattoli e penso che siano interessanti, però non immagino un futuro in cui dominino l’intera scena. […] Cresceranno e decresceranno, si evolveranno, ma non metteranno mai fine ai giochi con una forte autorialità o alle più semplici distrazioni di stampo arcade [cioè ispirate all’immediata giocabilità delle vecchie sale giochi].»
La condivisione con gli amici (la condivisione delle partite competitive come squadra o della propria isola) è il vero punto forte di Fortnite, che è diventato di fatto la nuova corte di casa in cui giochi con i tuoi amici da bambino, e di recente ha persino ospitato un vero e proprio concerto con 10 milioni di spettatori. La sua mappa si evolve nel tempo, meteoriti la distruggono, sorgono città, cambiano le stagioni. Forse non ne conserva chiaramente le tracce, ma per i suoi abitanti la mappa di Fortnite ha una storia. Fortnite è un luogo.
Ne La società dello spettacolo del 1967 Guy Debord parlava di una società a lui contemporanea come «un immenso accumulo di spettacoli», intesi come «un rapporto sociale fra persone mediato dalle immagini». «Tutto quello che prima veniva vissuto direttamente è ora una rappresentazione». In senso stretto, Debord stava parlando dei mass media, del modo in cui creano i bisogni consumistici dei lavoratori spingendoli a vivere nell’ottica capitalista non solo le ore di lavoro ma anche quelle fuori dal lavoro. Lo spettacolo dell’epoca di Debord era caratterizzato dalla passività dello spettatore, quello attuale è caratterizzato dall’interattività: i social network ci permettono di interagire con influencer, incarnazioni umane dei marchi, i videogiochi come Fortnite sono colmi di oggetti virtuali da acquistare con valuta reale. Negli scorsi anni si è affermata all’interno dei videogiochi una meccanica di distribuzione di beni digitali incentrata sulle «loot box», in sostanza slot machine in cui chi gioca inserisce denaro (spesso reale) per ottenere in cambio oggetti digitali casuali di varia rarità. Proprio la presenza di oggetti digitali di rarità diversa è il cuore delle economie digitali dei videogiochi, anche quando non sono presenti le loot box: la rarità è imposta dagli sviluppatori per imitare i meccanismi delle economie reali, il desiderio e l’ammirazione del lusso.
Ma questi beni digitali non diventano davvero mai di nostra proprietà. Paghiamo per poterli sfoggiare e usare, ma essi restano strettamente legati al videogioco dove vengono acquistati ed esistono solo fin quando esiste il videogioco stesso. Interi giochi, come tutti i grandi successi distribuiti gratuitamente su dispositivi mobili (Candy Crush, Clash of Clans…) e come Fortnite, non sono diffusi come opere ma come servizi continuamente aggiornati e a cui abbiamo solo un accesso temporaneo, al massimo sino alla chiusura del servizio stesso. Sono «games-as-a-service», giocoservizi.
Abbiamo inizialmente considerato gli spazi digitali come costruzioni pianificate e attuate da un’unica autorità e nate all’improvviso. Quando abbiamo parlato della mappa di Fortnite l’abbiamo però descritta come uno spazio in continua evoluzione, e così vale per tutti i giocoservizi, che sono aggiornati e modificati per tutta la loro vita. In generale, la nascita degli spazi digitali può essere molto complessa: prima del lancio le mappe vengono abbozzate e poi modificate mentre magari cambia la storia del gioco, intere zone vengono spostate e a volte persino adattate a un progetto diverso rispetto a quello per cui erano originariamente state concepite. È questo il caso di Dark Souls 2 di FromSoftware, opera in cui esploriamo un mondo fantasy ispirato al Medioevo europeo combattendo contro vari mostri. A metà del suo sviluppo Dark Souls 2 è stato ricominciato da capo ed è stata presa una nuova direzione, ma gli sviluppatori (per risparmiare tempo) hanno dovuto riciclare i personaggi non giocanti e le ambientazioni precedentemente già costruite, adattandoli a nuovi scopi.
Per esempio, quello che inizialmente era stato progettato perché fosse un castello è diventato, nella versione finale del gioco, «La Bastiglia Perduta», una prigione. Come accade spesso nella realtà, un castello viene adattato a essere una prigione, e anche se sono state aggiunte le necessarie celle alla sua struttura interna la sua architettura continua a tradire il suo scopo originario. «[La Bastiglia Perduta] afferma di essere una prigione, ma questo non viene espresso dai suoi serpeggianti sentieri esterni e dai suoi ammassi di vuoti spazi interni simili a scatole» scrisse Ario Barzan in una fondamentale analisi degli spazi architettonici del videogioco.
Nell’evoluzione delle geografie di Dark Souls 2 alcuni luoghi sono stati più o meno lievemente modificati, alcuni oggetti sono stati tolti e alcuni sono stati abbandonati tra i file senza venire mai utilizzati durante la partita ma senza essere totalmente rimossi. E così i «data miner» («coloro che scavano tra i dati») hanno potuto esplorare i file di Dark Souls 2 e di altri videogiochi della serie e recuperare luoghi e creature abbandonate e, a volte, sono riusciti a inserirli nuovamente e clandestinamente nel gioco o hanno potuto almeno mostrarli al pubblico.
Lo YouTuber noto come Sandadsk è uno dei più importanti data miner e divulgatori dei segreti nascosti tra i file di Dark Souls 2, e in uno dei suoi video riesce a evocare e esplorare la vecchia versione di una delle aree: il Forte Ferreo, una grande fortezza di ferro condannata a sprofondare a causa del suo peso in un lago di lava. È come poter viaggiare nel passato, vedendo sgranati e incompleti i ricordi di ciò che i luoghi sono stati. «Nei file dei prototipo possiamo chiaramente vedere come il Forte Ferreo fosse originariamente una fabbrica di armi» afferma Sanadsk. «Possiamo vedere le spade, e gli strumenti da fabbro che sarebbero stati presenti nel castello.» Nella versione definitiva del gioco, la fabbrica di armi è scomparsa, ma Sanadsk nota che «ci sono elementi avanzati da quando era una fabbrica». Per esempio, la struttura ospita una grande fornace e il suo boss (il nemico principale da affrontare) è «il demone del ferro fuso». Lo stesso lago di lava proverrebbe da questa prima versione del Forte Ferreo: la fabbrica di armi sarebbe stata costruita lì per sfruttare proprio il calore della lava nella forgiatura.
Esplorare questi luoghi proibiti, abbandonati dagli sviluppatori ai margini ed esclusi dai videogiochi stessi, è la vera ricerca dei segreti. Segreti che non sono stati inseriti per essere scoperti e che anzi dovevano restare davvero per sempre nascosti.
«Ci sono molti modi in cui chi gioca usa le città dei videogiochi per scopi e progetti non voluti dagli sviluppatori. Lo speedrunning è un ovvio esempio» spiega Colestia. Lo speedrunning è una pratica, anche competitiva, che consiste nel completare un videogioco il più velocemente possibile. Per riuscire in questo scopo, a seconda dei casi e delle categorie competitive, può essere anche permesso «barare», cioè sfruttare errori del gioco per saltarne parti. «Gli speedrunner trovano modi completamente nuovi di muoversi nel mondo del gioco, e spesso rompono anche i vincoli architettonici e geometrici imposti dagli sviluppatori» continua Colestia. «Altre persone vivono le città videoludiche in modi diversi da quelli intesi dagli sviluppatori: giocano a Grand Theft Auto [serie in cui interpretiamo un criminale in una città liberamente esplorabile] facendo gli autisti del bus, o giocano a Skyrim [videogioco fantasy in cui interpretiamo un essere umano dotato di anima di drago] nel ruolo di un mendicante. E ci sono anche artisti che usano le città videoludiche come materiale di partenza per film, progetti fotografici e altre opere creative, come quelli presentati nella rivista Heterotopias.»
Molti sviluppatori realizzano videogiochi e giochi non per imitare e gamificare la realtà, ma per svelarne i meccanismi e per sovvertirli. Paolo ‘Molleindustria’ Pedercini, sviluppatore di videogiochi e docente di game design alla Carnegie Mellon University, ne è l’esempio più importante. I suoi videogiochi affrontano temi come l’industria dei fast food, la pedofilia nella Chiesa e il concetto di purezza della razza, mentre il suo Casual Game for Protesters (creato insieme a Harry Josephine Giles) è una raccolta di attività giocose da svolgere durante manifestazioni e sit-in per stravolgere e capire le città e i loro rapporti di forza.
Da anni molti videogiochi stanno inoltre rinunciando a porre sfide e si concentrano invece sulla creazione di spazi digitali da esplorare; il duo noto come Tale of Tales è stato uno dei più importanti pionieri di questa tendenza. Il loro The Graveyard è la breve passeggiata di una donna anziana in un cimitero, mentre The Path è la rivisitazione della fiaba di Cappuccetto Rosso come esplorazione del femminile e dell’importanza di lasciare la via maestra. The Path contiene dei veri e propri punteggi di fine livello, inseriti però come parodia delle normali meccaniche videoludiche.
Altri videogiochi hanno raccontato storie personali e intime. Dis4ia di Anna Anthropy è la storia dell’esperienza con la disforia di genere e con la terapia ormonale dell’autrice. Their angelical understanding di Porpentine è un poemetto interattivo su una ragazza che dopo essere stata ferita da un angelo inizia un viaggio per affrontare il suo trauma e chi lo ha causato. Proprio Their angelical understanding pone un problema interessante per la nostra analisi: abbiamo sinora dato per scontato che i videogiochi siano prima di tutto spazi digitali. È una semplificazione che sembra accettabile, perché il progresso videoludico è stato prima di tutto progresso nella creazione di spazi digitali e così sarà probabilmente anche in futuro. «Posso solo immaginare che [in futuro il ruolo degli spazi digitali dei videogiochi] diventi ancora più importante, perché il videogioco nel complesso sembra spingere nella direzione dell’immersione spaziale», spiega Dimopoulos.
Eppure, videogiochi testuali come Their angelical understanding non sono incentrati sul movimento nello spazio. L’esperienza è presentata come una serie di paragrafi di testo tra cui mi muovo cliccando su scelte e parole. Nelle classiche avventure testuali ci spostiamo almeno tra stanze e ambienti, inserendo comandi come «vai a sud» o «vai a nord», mentre in opere come Their angelical understanding, imparentate con i librogame come la serie Lupo Solitario, lo spazio geografico è sostituito con spazi digitali (paragrafi, pagine) soggettivi ed emotivi. Ma anche questo conferma come i videogiochi siano, appunto, psicogeografie.