Psicogeografia dello streaming
Guy Debord definisce la psicogeografia come “lo studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui”. La tecnica dell’esplorazione psicogeografica è la Deriva: il vagare tra le vie cittadine, seguendo traiettorie irresponsabili, imprevedibili e tuttavia calcolabili. Oggi, le avventure verso l’ignoto di Debord e Ivain sembrano cedere il passo alla navigazione online. Nello specifico, il tortuoso utilizzo delle piattaforme rappresenta, in un certo senso, l’evoluzione contemporanea della Deriva situazionista. Le analogie, infatti, risultano piuttosto evidenti: con ogni click, con ogni scroll si ha la possibilità di esplorare territori ancora ignoti, eppure familiari, aprendo scenari apparentemente inediti. Ma le distanze si fanno sempre più brevi, i tempi di percorrenza si accorciano, l’offerta appare illimitata. Si afferma, pertanto, un inedito urbanismo virtuale, radicatosi nell’ipertestualità, rimettendo in discussione il consolidato e ormai obsoleto dualismo tra globale e locale, tra centro e periferia.
Tuttavia, le piattaforme streaming, secondo l’architettura sociale a catasta teorizzata da Benjamin Bratton, precedono il livello degli utenti. Le funzioni algoritmiche, infatti, indirizzano il percorso, condizionando le scelte, più o meno consapevoli, degli user. Lo stesso Debord, in tal senso, elimina dall’esperienza il caso come elemento “conservatore”, rifacendosi al materialismo meccanicistico ottocentesco, basato sull’osservazione di rigorosi rapporti di causa effetto. Non a caso la sopracitata – e più diffusa – definizione del concetto di Psicogeografia risale al primo numero della rivista Internazionale situazionista, pubblicato nel 1958, e riporta una breve, seppur significativa, variazione rispetto a quella stilata da Debord tre anni prima – di cui poi si pentirà più avanti, nel 1961. Lo “studio delle leggi esatte e degli effetti precisi” si riduce ai soli “effetti”.
Dustin Yellin. Psychogeography (2016)
Togliere queste due parole significa affrancarsi dal determinismo geografico del passato. Le condizioni materiali che determinano i comportamenti affettivi, infatti, non sono riducibili esclusivamente a quelle geografiche, disposte coscientemente o meno. L’ambiente geografico, allora, non è che una delle possibili variabili: in quanto considerato come il solo e unico fattore determinante, non è in grado di fornire alcuna risposta sulle passioni umane. L’uomo, pertanto, interviene sull’ambiente e, a sua volta, l’ambiente stesso reagisce, più o meno secondo natura. In tal senso, anche gli algoritmi agiscono allo stesso modo, osservando il comportamento degli utenti. Ciascuna funzione avviene sulla base di quanto avvenuto in precedenza. Sono gli utenti stessi, quindi, a determinarne l’andamento, condizionando la navigazione di chi si connetterà successivamente.
L’azione algoritmica non restituisce nient’altro che la volontà decisionale dei suoi interlocutori. Si tratta di un paesaggio digitale, di un reticolo telematico definito, strutturato per assecondare le necessità, i vizi e le passioni dei suoi avventori. Non sono gli algoritmi, quindi, a imporre il percorso della navigazione, al contrario sono proprio le decisioni degli utenti a determinare i fenomeni virali. Eppure, per quanto non obbligate, sono scelte spesso fortemente condizionate dai suggerimenti, dalle sponsorizzazioni, dai contenuti in tendenza. In un certo senso, sembra una sorta di circolo vizioso. Suona, infatti, come una di quelle ridondanti domande senza risposta, formulate dalla saggezza popolare: sono gli utenti a influenzare l’algoritmo o viceversa? E, a tal proposito, quali potrebbero essere gli effetti di questa inedita geografia digitale sul comportamento affettivo delle persone?
Forse dovremmo smetterla di delegare ogni responsabilità all’algoritmo, rivendicando al contrario l’agentività delle nostre scelte, per quanto apparentemente discutibili.
Se da una parte, infatti, lo streaming contribuisce sicuramente al tanto discusso abbassamento della nostra soglia di attenzione – al di sotto di quella di un pesce rosso – e al consolidamento dell’ingente pigrizia digitale, dall’altra offre la possibilità, senza precedenti, di poter usufruire di numerosi contenuti a un prezzo spesso irrisorio rispetto al supporto fisico, stimolando seppure in maniera indiretta o superficiale la curiosità del pubblico. La deriva stessa risponde al desiderio di scoperta, di avventura. Rappresenta un esercizio ludico necessario a riconoscere l’ambiance. Questo termine francese è stato spesso tradotto come ambiente, ma in realtà non c’è una parola equivalente in italiano che ne restituisca ogni sfumatura. Si tratta di uno spazio mutevole, costantemente presente a lato di ogni azione quotidiana, condizionato dai luoghi attraversati e dagli interlocutori incontrati lungo la via, dalle luci, dai rumori, dall’imprevedibilità, dalle variabili della realtà circostante.
Il rapporto di Debord con il caso risulta abbastanza contraddittorio, proprio perché la casualità rappresenta un elemento intrinsecamente materialista della quotidianità, e non è affatto semplice disfarsene. Non a caso, la definizione del concetto stesso di Deriva appare tutt’altro che univoca. Negli anni, le diverse correnti interne, prima all’Internaziole lettrista e poi a quella situazionista, hanno portato a più diciture, talvolta contrastanti tra loro. Si potrebbe affermare che esistono quattro diversi tipi di Deriva: quella “casuale”, consigliabile nell’esplorazione dei luoghi ignoti della città; quella “lucida”, caratterizzata da un approccio più razionale, consigliabile quando si intende mappare l’ambiance di un dato territorio; quella “statica”, propria dell’indagine diacronica delle manifestazioni di ambiance; e quella “spaesante” indicata per indagare intensivamente dei territori già esplorati.
Constant, New Babylon Nord (1958)
Al giorno d’oggi, le caratteristiche che rendono tali queste differenti categorie di Deriva sembrano trovare riscontro in alcuni aspetti dello streaming e, più in generale, del web surfing. Anche in rete, infatti, esistono delle zone d’ombra, luoghi più o meno sconosciuti dalla maggior parte degli utenti. La razionalità delle azioni compiute in rete appare soggetta a cambiamenti repentini. Questi, inoltre, condizionano anche le possibili conseguenze tangibili dei gesti compiuti all’esterno. Ma forse, a questo punto, non ha neanche più senso operare una distinzione così netta e definita tra mondo fisico e digitale. Sembrano compenetrarsi a tal punto da rendere questo confine sempre più labile.
Allo stesso modo, come ha sottolineato la storica dell’arte Claire Bishop nel suo saggio Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, la dicotomia della spettatorialità passiva e attiva risulta quanto mai inutile. La visualizzazione di qualsiasi contenuto, infatti, presuppone una scelta. Per quanto indotta, la decisione di prediligere uno specifico prodotto piuttosto che un altro, così come la scelta di interrompere o proseguire la fruizione di un determinato contenuto, in fondo, spetta sempre all’utente. Pertanto, come afferma Kamilia Kard, sarebbe più avveduto soffermarsi sul passaggio dirimente da spettatori a visualizzatori, mettendo in evidenza quanto l’ammontare delle riproduzioni online rappresenti ormai “un valore numerico paragonabile a una valuta che indica il grado di gradimento e diffusione del contenuto caricato dallo User, a cui possono essere facilmente associate tendenze, influenze ed economie”.
La psicogeografia, come pratica affettiva, si manifesta come un’attività mitopoietica. Giorgio Agamben l’ha descritta come un esodo, non verso l’agognato altrove, bensì verso il nostro stesso luogo. In fondo, la decisione stessa di ascoltare, di guardare o di leggere uno specifico contenuto rappresenta gli interessi del fruitore, restituendone la singolarità. La pubblicità, i suggerimenti e le sponsorizzazioni sicuramente condizionano le scelte dell’utente, ma di certo non impongono in maniera autoritaria o assolutista la decisione da prendere. Credere, pertanto, che la reiterata azione di un agente esterno, in un determinato contesto, possa condizionare allo stesso modo i gesti di individui differenti implicherebbe la reintroduzione dell’egualitarismo proprio delle utopie tradizionali. Significherebbe immaginare una collettività mossa dalle stesse inclinazioni passionali ed emotive.
Abitare le complesse e spesso inafferrabili architetture delle piattaforme streaming, così come il continuo, rapido e imprevedibile vagabondaggio per le strade del web, è come ridisegnare la mappa di una città.
Forse, a tal proposito, dovremmo smetterla di delegare ogni responsabilità all’algoritmo, rivendicando al contrario l’agentività delle nostre scelte, per quanto apparentemente discutibili. La decisione di ascoltare i Migos, Olivia Rodrigo o J Balvin, piuttosto che le inafferrabili compilation della Sub Rosa o le registrazioni, spesso di fortuna, delle esibizioni di John Cage non rappresenta affatto un’imposizione dall’alto, così come non lo è neanche il binge watching di Skam Italia o il desiderio apparentemente inspiegabile di dare una seconda occasione a Vacanze su Marte, piuttosto che alle estenuanti pellicole di Lav Diaz. Allo stesso modo, però, preferire il cinema asiatico alle partite di Serie A o l’harsh noise alla reggaeton non implica necessariamente un latente snobismo fine a se stesso. Queste scelte non sono nient’altro che uno specchio: rappresentano necessità individuali, bisogni da soddisfare.
Abitare le complesse e spesso inafferrabili architetture delle piattaforme streaming, così come il continuo, rapido e imprevedibile vagabondaggio per le strade del web, è come ridisegnare le mappe di una città. I segni impressi sull’intricata cartografia dell’urbanismo digitale sono i nostri dati, le nostre scelte. Testimoniano il nostro passaggio, tracciando la rotta. Gli “effetti” dello spazio digitale sul comportamento affettivo degli utenti appaiono differenti, contrastanti,talvolta sfuggenti: noia, entusiasmo, pigrizia, curiosità, ostentazione,vergogna. Come se tutto sostenesse il contrario di tutto. Forse, allora, il risultato della nostra quotidiana deriva digitale potrebbe risiedere proprio nell’aporia, nella necessità di accettare, di accogliere le differenti e nodali contraddizioni che sostanziano il presente.