Psichedelia pazza interdimensionale
Diciamo la verità, la musica italiana starà anche vivendo un ottimo momento in termini di numeri e visibilità, ma dal punto di vista dell’underground non sembra stia lasciato chissà quale segno. Uno dei problemi deriva probabilmente dal fatto che ogni minima trovata, spesso anche davvero appena percettibile, finisce nel giro di brevissimo tempo per diventare un macromodello, una macchietta. Ad esempio, nel giro di questi ultimi anni è divenuto sempre più portatore di novità l’uso del dialetto, o perlomeno l’ostentazione del lifestyle della propria città di appartenenza, usato come fosse un certificato di autenticità e di genuinità. Ma ora, mettendo da parte tutta questo, c’è ovviamente anche tanta musica valida in Italia, sparsa in ogni regione. Il fermento che c’era qualche anno fa intorno a suoni oscuri e lisergici capitanato da etichette come Boring Machines e No=Fi Recordings, ai tempi chiamato Italian Occult Psichedelia, sembra essere mutato in qualcosa di più liquefatto e meno grumoso, a volte addirittura solare e spensierato, ma sempre rigorosamente psichedelico. E allora forse è giunto il momento di parlarne, anche a partire da alcuni dischi di recente uscita, marchiati dal segno indelebile dell’insolito. Non è straordinario in musica rilevare dischi di qualità laddove si muova qualcosa di stralunato o strambo, ma è bene precisare sin da subito che qui stiamo parlando di musicisti che detengono un peculiare rapporto con la realtà. O meglio, la realtà cui fanno riferimento è una realtà totalmente arbitraria e solipstica.
L’esempio lampante di questa attitudine è incarnato dai Rainbow Island, gruppo iper-psichedelico romano la cui musica sembra uscita da un Super Hofmann doppia goccia. Secondo le parole di uno dei fondatori, il mio amico Marco Caizzi, esperto di musica elettronica e videogiochi, la loro potrebbe essere definita come «Psichedelia esploratrice». «Non mi ricordo se la vera definizione di psichedelia risponda all’idea di espansione mentale… nel caso in cui fosse così si adatterebbe pienamente alle nostre intenzioni musicali: i pezzi esplorano, non sono né jam, né canzoni, ma vere e proprie esplorazioni». Marco Caizzi, oltre ad essere il creatore del neologismo «aggrocene», l’era geologica caratterizzata dall’aggressione tra gli uomini sulla Terra, mi racconta che i Rainbow Island iniziano a formarsi intorno al 2010 e per un paio di anni il nome è l’unica cosa di concreto dalla loro parte, escludendo le buone intenzioni: «Volevamo fare psichedelia moderna e avevamo in mente due riferimenti: Sun Araw e Black Dice. Ma al posto dei loro mondi di provenienza – ovvero certo rock alternativo e sperimentale + dub per Sun Araw, punk hardcore, noise e avantgarde per Black Dice, tutta roba che ci piaceva e ci piace tutt’ora ovviamente –, volevamo introdurre una psichedelia proveniente da internet e dai videogiochi, ovvero questo mondo parallelo creato dalle menti in generale… umane. O comunque inserire questa serie di altri mondi pazzi che l’avvento di internet e lo sviluppo dell’Information Technology ci hanno donato».
E infatti ascoltando Illmatrix, la loro ultima fatica uscita il 02/02/2020 (data palindroma!) per Artetetra (nome anch’esso palindromo!) la sensazione di perdersi si presenta spesso, ovviamente in senso positivo. Non solo perché è un disco denso di strati, che può essere ascoltato assecondando molteplici inclinazioni e fruito da altrettante diverse prospettive, ma proprio perché nella loro miscela che spazia dall’abstract-dub più acido al free-form è insito il concetto interdimensionalità. «La sfida di Illmatrix è consistita proprio nel ricercare tutte le dimensioni sonore possibili. Nel disco, anche se non è necessario che si senta, c’è un sacco di roba segreta, ma non mi va nemmeno che esca fuori perché suonerebbe pretenziosa. Ma molto concretamente ci senti suonare in ogni modo nel disco: tutti e quattro in contemporanea, in maniera singola, in tutti i tipi di permutazione, alle volte siamo in tre, altre volte si sentono voci della saletta, altre volte il tutto è realizzato a distanza, quindi attraverso blocchi freddi, più astratti. L’idea puramente sonora di Illmatrix era bucare tutte le nostre dimensioni concrete possibili: far confluire una dimensione nell’altra, all’infinito, anche perché il disco non ha un vero inizio e una vera fine». Parlando di worldbuilding, un termine caro al mondo dei videogiochi, il precedente Crystal Smerluvio Riddim era più mentalmente circoscritto, popolato da «queste isolette tropicali che ci invitavano a percorrere questo fiume che sfociava in questo mega oceano di cristalli liquidi, mentre in Illmatrix siamo i nativi di Rainbow Island che si ritrovano a girare avventurosamente per tutti questi mondi».
Cospiratori dell’interdimensionalità lo sono anche Luigi Monteanni e Matteo Pennesi, i due che si trovano alla guida di Artetetra, label/comunità con base a Milano che funge un po’ da punto di raccolta di sonorità eso-geografiche. Nel loro catalogo spuntano titoli come Landscape Suicide di Nicola Tirabasso e Valerio Maiolo, Transmissions from Boshqa («Boshqa» è l’equivalente uzbeco di «altro») di Ak’chamel, varie compilation, tra cui i due volumi dell’ormai mitica Exotic ésotérique, il lapidario INTERNET HOLIDAYS™ di Hybrid Palms & Cheap Galapagos, fino ad arrivare a Bee Extinction di Kuthi Jin (o Kuthi Jinani). Quest’ultimo è uscito lo stesso giorno di Illmatrix ed è un concept sull’apocalisse umana in seguito alla scomparsa delle api nel mondo. Musicalmente si presenta molto più affilato dal punto di vista tecnologico, ma con un piglio progressivo decisamente accentuato, inedito rispetto ai precedenti Discarga Verde e Fish Lair. Lasciandosi trasportare dalle tre suite che compongono l’album si ha davvero la sensazione di stare in sella all’unica ape regina sopravvissuta, che si è offerta di farci da cicerone tra alveari disabitati, eco-catastrofi causate da multinazionali e villaggi desolati.
Oltre a questi nello stralunato universo di Artetetra (che non a caso finì per appassionare il solito Simon Reynolds, il quale vi scrisse entusiasticamente nel 2017 su The Wire), troviamo altre colonne sonore immaginarie, come quelle di Polonius, il colorato esotismo di Nicolas Gaunin, i detriti sonori degli Shit & Shine e la gabber futurista di DJ Balli di Svelto, che funge un po’ da araldo per il suo incredibile libro di recente uscita Sbrang gabba gang! Ricostruzione gabber dell’universo.
Tornando invece a sonorità più tecnologiche ma rigorosamente lisergiche è impossibile non citare il misteriosissimo ETEVLEH, personaggio che ruota attorno a diverse realtà italiane, tra cui il caldissimo centro di aggregazione che a Roma risponde al nome di SINCE. La musica di ETEVLEH è una sorta di miscuglio tra Autechre e Tangerine Dream, ma con meno oscurità, come se insomma Sun Ra facesse elettronica HD. Non mancano quindi deragliamenti improvvisi, suoni cristallini e synth cibernetici, ma il tutto accorpato da un sano collante videoludico esperienziale che ogni volta disorienta e procede instancabilmente verso il misterioso. D’altronde basta guardare i video per rendersi conto di cosa stiamo parlando.
Se invece si ha voglia di sentire la macchina che pensa, ragiona e fa musica, allora bisogna dirigersi verso l’ultimo doppio album di Von Tesla, Ganzfeld, prodotto ancora una volta da Boring Machines, e sperare di uscire vivi dai labirinti di silicio che si ergono dalle lunghe suite di cui è composto. Sempre su Boring Machines – ma caratterizzato da un approccio meno digitalmente aggressivo, seppur altamente tecnologico e innovativo, che ha avuto anche l’insolito pregio di aprire un seguito dibattito filosofico – è l’esordio dei dTHEd, Hyperbeatz Vol. I, gruppo di cui si è ampiamente fatto luce proprio su queste pagine. Sinicuichi è invece il progetto di due giovanissimi ragazzi, come gli stessi dTHEd con sede a Roma, che in questo Neurodanza si sono divertiti a centrifugare diverse miscele dall’alta gradazione IDM e Glitch: molto promettente.
Quello di Polysick è invece un ritorno molto atteso da parte di chi aveva già avuto la fortuna di conoscerlo nei Duemila con una serie di progetti molto hypnagogici – nel caso in cui fosse ancora sensato usato questo termine. I suoi lavori, spesso anche audiovisivi, non avevano nulla da invidiare a quelli di gente come James Ferraro, Daniel Lopatin e compagnia synthetica, tanto che poi si accorgeranno ben presto di lui Mike Paradinas e la sua Planet Mu, e una delle label americane che più caratterizzò il suono psichedelico dell’inizio del nuovo millennio, 100% Silk. La sua ultima fatica, Flora e fauna, è in uscita a breve per l’etichetta Edizioni Mondo capitanata da un altro veterano del suono più cinematico: Francesco De Bellis, conosciuto anche come L.U.C.A., il quale, a sua volta, nel 2016 aveva sfornato un classico del genere, I Semi Del Futuro. Flora e fauna è davvero una delle cose più raffinate mai uscite in Italia – o meglio, non ancora uscite in Italia… Si tratta di una profondissima immersione ambient d’altri tempi nei confronti della quale la categoria del worldbuilding smette di funzionare. Qui la questione dell’interdimensionalità sembra essere relegata alle varie funzioni e capacità del soggetto, soprattutto legate ai suoi momenti di percezione, ricordo, giudizio. Viene da sé che il debito nei confronti della library music più sconosciuta è alto e pienamente riconosciuto; si passa così da momenti estremamente rarefatti e sognanti assolutamente in linea anche con lo spirito di Edizioni Mondo, ad altri più personali legittimamente legati ad alcuni luoghi della regione laziale, dove non c’è più spazio per quel beat che era invece spesso presente nei suoi lavori.
Alcuni di questi luoghi nascosti sono conosciuti e apprezzati anche da Steve Pepe, il quale nel suo recentissimo 2020 uscito per l’ottima Macadam Mambo, raggruppa 15 brani caratterizzati da tribalismi distorti, beat amorfi e flauti sbilenchi, che non saprei in quale altro modo definire, se non col termine «psichedelici». Il suo è un vero e proprio sciamanesimo macchinico dalle accertate capacità psicotrope mediante il quale è possibile accedere a qualunque stato psichico. Steve Pepe è conosciuto ai più come Manuel Cascone, ed è a capo di diversi progetti, tra cui Cascao e Nastro, senza considerare che ha suonato e collaborato tecnicamente alla realizzazione dell’ultimo lavoro di Trapcoustic, ovvero il famigerato Stefano Di Trapani, anche detto Demented Burrocacao.
Un viaggio del genere non poteva che concludersi sotto la beffardagine della risata di quest’ultimo, dal momento che stiamo parlando di uno degli artisti più anarchici e prolifici del sottobosco underground italiano, ma soprattutto di colui che ha costruito una carriera sopra al concetto di demenza e pazzia. Per chi non l’avesse mai visto in faccia, eccolo qui:
Tra i suoi moltissimi progetti c’è da segnalare l’undicesima e ultima edizione del Baba Festival – Festival di Arti Eccentriche e Culture Esplose, manifestazione da lui ideata e organizzata, e il suo Pearl, un disco fatto di canzoni lente e distorte, ovviamente psichedelico fino al midollo uscito per l’etichetta che pubblicò i primi lavori lo-fi di un certo Calcutta: la Geograph Records gestita da Grip Casino.