Pechino pieghevole
Pubblichiamo un estratto dal libro di Hao Jingfang Pechino Pieghevole, ringraziando add editore per la disponibilità.

1.
Mancavano dieci minuti alle cinque del mattino mentre Lao Dao camminava sull’affollatissima strada pedonale. Era diretto da Peng Li.
Era passato da casa a fare una doccia e a cambiarsi dopo il turno di lavoro alla discarica, si era infilato gli unici vestiti decenti che possedeva, un paio di pantaloni marroni e una camicia bianca, arrotolando le maniche sino al gomito per nascondere i polsini ormai lisi. Era un quarantottenne celibe. Non aveva qualcuno che si prendesse cura di lui e nemmeno l’età per preoccuparsi ancora del proprio aspetto. Erano anni che andava avanti con quell’abbinamento. E comunque usava quegli abiti raramente, per poi piegarli e rimetterli via appena rientrava a casa. Lavorando in una discarica, non aveva alcun bisogno di vestirsi bene, li indossava nelle occasioni speciali, magari per il matrimonio del figlio di un amico. Quel giorno doveva presentarsi da gente che non conosceva, quindi voleva apparire in ordine e non trascinare con sé il puzzo fetido di cinque ore filate in discarica.
Nella via c’era una fiumana di persone appena uscite dal lavoro. Uomini e donne si accalcavano attorno ai venditori ambulanti contrattando a gran voce sul prezzo degli ortaggi a chilometro zero. I clienti ai tavoli di un ristorantino all’aperto si avventavano sui loro vermicelli di riso in salsa agro-piccante, con la faccia nascosta dietro una nuvola di vapore bianco. Nell’aria c’era odore di fritto. Sulle bancarelle troneggiavano pigne di giuggiole selvatiche e noci sotto pezzi di pancetta penzolanti. Era il momento più vivace della giornata quello: tutti avevano finito di lavorare e dopo tante ore di fatica si accalcavano per accaparrarsi un pasto caldo.
Lao Dao, procedendo a fatica nella ressa, si mise nella scia di un cameriere che a urla e spintoni si faceva strada per servire ai tavoli.
Peng Li abitava in fondo a un vicoletto. Quando arrivò a destinazione, non lo trovò in casa. Il vicino gli disse che di solito rientrava poco prima della chiusura del mercato, non aveva saputo essere più preciso.
Lui era un po’ in ansia. Controllò l’orologio. Le cinque.
Tornò di sotto ad aspettarlo al portone d’ingresso, dove c’era una banda di ragazzi affamati come lupi. Un paio li conosceva, li aveva già incontrati lì una o due volte. Ciascuno aveva la sua porzione di vermicelli di riso o di spaghetti saltati, in più avevano condiviso altri due piatti, facendo un pastrocchio con le bacchette nei contenitori alla disperata ricerca delle fettine di carne tra i peperoncini. Sullo sfondo del grigiore e del caos di quella mattina qualunque, Lao Dao si annusò istintivamente le ascelle.
«Oh, ma lo sapete a quanto vendono lo stracotto di maiale?» disse uno, che si chiamava Xiao Li.
«C’è dentro la sabbia, cacchio!» esclamò Xiao Ding, quello ben piazzato, coprendosi la bocca. Aveva le unghie sudicie. «Che ladri! Facciamoci restituire i soldi!»
«Trecentoquaranta yuan!», proseguì Xiao Li. «Oh! Trecentoquaranta! E quattrocentoventi il bollito di manzo!»
«Scherzi? Così tanto?!» mugugnò Xiao Ding tenendosi la guancia.
Gli altri due, non interessati al discorso, continuarono a masticare a testa bassa. Xiao Li li fissò, trafiggendoli con lo sguardo come se vedesse qualcosa di immateriale alle loro spalle. I suoi occhi brillavano.
A Lao Dao brontolava lo stomaco. Perciò si voltò dall’altra parte, ma era troppo tardi, era in preda ai morsi della fame, gli girava la testa. Saltava la colazione da un mese. Un pasto costava all’incirca cento yuan, in un mese diventavano tremila, e con quella cifra avrebbe pagato due mesi di retta dell’asilo a Tangtang.
Guardò in lontananza. Arrivavano i camion della nettezza urbana.
Doveva tenersi pronto, decidere come muoversi nel caso in cui Peng Li non si fosse sbrigato a tornare. Nonostante i molteplici rischi, non c’era tempo da perdere, bisognava agire in fretta. Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dagli strilli della donna che vendeva le giuggiole lì vicino, la sua voce era così assordante da dare il mal di testa. Iniziavano già a smantellare le bancarelle in fondo alla strada e le persone cominciavano a dileguarsi come i pesci in uno stagno quando si agita l’acqua con un bastone. Nessuno si sarebbe sognato di intralciare i netturbini che, a quell’ora, incedevano pazientemente sui camion, in attesa che gli ambulanti pian piano smontassero tutto. Quelli erano gli unici mezzi autorizzati a circolare sulla strada pedonale. Se un pedone si fosse attardato, sarebbe stato portato via con la forza.
Sopraggiunse Peng Li, con lo stuzzicadenti in bocca e i bottoni della camicia slacciati. Non camminava né lento né veloce, facendo un rutto dietro l’altro. Ora che aveva sessant’anni, era trasandato e apatico, con le guance cascanti da shar pei e gli angoli della bocca all’ingiù da eterno insoddisfatto. A vederlo, non ci si sarebbe mai immaginati come potesse essere da giovane. Sembrava uno senza nerbo, capace solo di mangiare e bere. Eppure Lao Dao aveva ascoltato il padre raccontare le sue imprese sin da quando era piccolo.
Gli andò incontro. Quello stava per salutarlo, ma lo interruppe: «Adesso non ho tempo di spiegarti. Devo andare nello Spazio Uno, dimmi come fare».
Peng Li era allibito, non sentiva nominare lo Spazio Uno da almeno un decennio. Inconsciamente spezzò lo stuzzicadenti tra le dita. Dopo un attimo di silenzio, vedendolo sulle spine, lo trascinò dentro il palazzo. «Ne parliamo di sopra», propose, «tanto devi passare da lì se vuoi andarci.»
Alle loro spalle si avvicinava un camion, che spazzava la gente in casa come fa il vento d’autunno con le foglie secche. «Forza, via, via! Sta per iniziare la transizione», urlavano gli uomini a bordo.

Peng Li lo precedette lungo le scale e lo fece entrare nel suo monolocale, che era identico a tanti altri appartamenti in affitto: una stanza di sei metri quadrati con angolo cottura e un bagno. Dentro c’erano un tavolo, una sedia e un letto-capsula con sotto il cassettone per riporre indumenti e roba varia. Sui muri si vedevano macchie di umidità e impronte di scarpe. Non aveva fatto alcun intervento di ristrutturazione, solo aggiunto qualche gancio storto alla parete a cui erano appesi una giacca e un pantalone. Peng Li tirò subito via vestiti e asciugamani e li infilò in un cassetto a portata di mano. Non si poteva lasciare in giro niente durante la transizione. Una volta anche Lao Dao viveva in un monolocale come quello, entrando era stato assalito dai ricordi.
«Se non mi spieghi il perché, non ti dirò come si fa», disse Peng Li guardandolo dritto negli occhi.
Erano le cinque e trenta, rimaneva soltanto mezz’ora.
Lao Dao raccontò brevemente l’antefatto: aveva trovato un messaggio dentro una bottiglia, allora passando dal canale dei rifiuti era andato di nascosto nello Spazio Due, e lì gli avevano commissionato un incarico. Spiegò di cosa si trattava. Non poteva soffermarsi sui dettagli, doveva partire.
«Ieri ti sei intrufolato nel canale dei rifiuti? E sei stato nello Spazio Due?» Peng Li aggrottò le sopracciglia. «Hai dovuto aspettare ventiquattro ore quindi.»
«Per duecentomila yuan», rispose lui, «aspetterei anche una settimana.»
«Sei a corto di soldi?»
Rimase un istante in silenzio. «Tra un anno Tangtang andrà all’asilo. Senti, ora non ho tempo», disse poi.
Quando era andato a informarsi per la scuola, gli era preso un colpo. Per le strutture decenti, i genitori si mettevano in fila già due giorni prima per l’iscrizione, muniti di sacchi a pelo e dandosi il cambio, uno mangiava un boccone o andava al bagno, mentre l’altro stava in coda. E dopo più di quaranta ore così non si aveva nemmeno la certezza di assicurarsi un posto. Chi poteva permetterselo si era già accaparrato quelli in cima alla lista, i pochi che rimanevano erano per coloro che erano disposti a fare la fila. E questo succedeva con gli asili discreti. Per i migliori le code erano inutili, l’unica possibilità era pagare. Lui non aveva grandi ambizioni, ma Tangtang adorava la musica già a diciotto mesi. Quando sentiva una canzone per strada, si accendeva e ballava muovendo a ritmo le mani e i piedi. Era troppo carina. Irresistibile. Era come se fosse su un palco, illuminata dall’occhio di bue, lui non vedeva altro. Doveva iscriverla a una scuola dove insegnavano musica e danza a qualunque costo.
Peng Li si tolse la giacca e, mentre parlava con lui, si lavò la faccia. O meglio, si sciacquò sommariamente. Stavano per sospendere la fornitura idrica, dal rubinetto scendeva un filo d’acqua. Agguantò un asciugamano sozzo dalla parete, si diede una strofinata, poi cacciò pure quello nel cassetto. I capelli umidi erano lucidi e unti.
«Ma vale la pena», chiese, «rischiare così tanto? Non è nemmeno tua figlia.»
«Smettila. Spiegami come fare.»
Peng Li sospirò. «Sappi che se ti prendono, non dovrai solo pagare una multa, ti sbatteranno al fresco per mesi.»
«Non ci sei stato tante volte tu?»
«Quattro. Alla quinta mi hanno beccato.»
«Se mi prendessero dopo esserci andato quattro volte, non sarebbe affatto male.»
Doveva andare nello Spazio Uno e fare una consegna. Se ci fosse riuscito, avrebbe guadagnato centomila yuan, che diventavano duecentomila se tornava con una risposta. Era una grave infrazione alle regole, ma le probabilità di essere catturato non erano poi così elevate se avesse fatto le cose come si deve. E avrebbe messo da parte parecchi soldi. Non intravedeva un motivo per non accettare. Da ragazzo Peng Li era stato più di una volta nello Spazio Uno per denaro, per il contrabbando di liquori e sigarette. Dunque, era fattibile.
Cinque e quarantacinque. Bisognava muoversi.
Peng Li fece un altro sospiro. Era inutile insistere. Alla sua età, la stanchezza e il fatalismo avevano preso il sopravvento, ma sapeva che se avesse avuto una decina di anni in meno avrebbe fatto la stessa cosa. A quel tempo non gli importava di finire in gattabuia: tenevi duro qualche mese, incassavi un po’ di botte, poi però quando uscivi, ti ritrovavi con un bel gruzzolo in tasca. Era fattibile, a patto di non lasciarsi strappare di bocca dove avevi nascosto i soldi, in fondo le misure di sicurezza dell’Ufficio dell’ordine erano una semplice formalità. Portò Lao Dao alla finestra indicandogli il vicolo nascosto nell’ombra.
«Scendi lungo il tubo dell’acqua, sotto il feltro ci sono degli appoggi per i piedi che avevo messo io ai tempi, se stai schiacciato le telecamere non ti vedranno. Passa di là e mantenendoti nell’ombra striscia fino al bordo, sentirai la fessura, e la vedrai pure. Seguila, in direzione nord. Mi raccomando, nord, non ti sbagliare.»
Gli spiegò come scavalcare il blocco durante la transizione. Bisognava sfruttare il momento del sollevamento e percorrere strisciando i cinquanta metri della sezione per andare dall’altra parte, poi muoversi verso est, fino a un cespuglio al quale tenersi e dove rimanere nascosto mentre la terra si ricomponeva. Prima che finisse la frase, Lao Dao era già fuori dalla finestra, pronto a scendere.
Gli porse il braccio per aiutarlo a calarsi mentre lui cercava un appoggio per i piedi sotto il davanzale. All’improvviso Peng Li lo trattenne. «Ti dirò una cosa che non ti piace», disse, «mi sa che è meglio se non ci vai. Non per altro, una volta che ci sarai andato, non cambierà granché, solo che ti sarà chiaro quanto la tua vita faccia schifo e sia priva di senso.»
Lao Dao stava esplorando la parete con il piede, aggrappandosi al davanzale. «Pazienza», rispose con il fiato corto, «non mi serve andare lì per sapere che fa schifo.»
«Stai attento», fu la sua ultima raccomandazione.
Lui scese in fretta seguendo le istruzioni. Gli appoggi per i piedi erano perfetti. Guardò la sagoma di Peng Li alla finestra che si accendeva una sigaretta. Aspirò grosse boccate veloci, e poi la spense. Si sporse come per dirgli qualcosa, ma alla fine rientrò. Dai vetri chiusi proveniva una luce spettrale.
Lao Dao sapeva che l’amico si sarebbe infilato nella capsula un minuto prima della transizione: come decine di milioni di abitanti della città, all’ora prefissata, avrebbe inalato il gas narcotizzante rilasciato al suo interno, scivolando in un sonno profondo. Capovolto, come tutto quanto il resto, e in totale incoscienza avrebbe dormito quaranta ore esatte per riaprire gli occhi la sera del giorno dopo. Ora che era vecchio, era uguale ad altri cinquanta milioni di persone.
Lao Dao si calò più velocemente possibile, quasi senza appoggiare i piedi, e quando fu vicino abbastanza spiccò un salto e rotolò al suolo. Il monolocale di Peng Li era al quarto piano, poco più in alto. Si alzò e corse nell’ombra che l’edificio proiettava sul lago. Vide la fessura nell’erba, il punto dove la terra si sarebbe aperta, prima di raggiungerla, udì alle sue spalle un boato poderoso intervallato da scricchiolii stridenti. Si girò, il palazzo di Peng Li si stava aprendo in due e la metà superiore si stava ribaltando verso di lui, lenta ma inesorabile.
La osservò impressionato. Poi corse fino alla fessura e si stese accanto.
La transizione ebbe inizio. Quel rito si ripeteva ogni ventiquattr’ore: il mondo intero cominciava a ruotare. Ci fu un frastuono di barre d’acciaio e di mattoni che si incastrano, come una catena di montaggio a singhiozzo. I palazzi si ritraevano e si univano trasformandosi in cubi. Le luci al neon, le insegne dei negozi, i balconi e qualsiasi cosa sporgesse rientrava all’interno dei muri, o vi si spalmava sopra come se fosse una seconda pelle. Ogni millimetro era sfruttato, ogni spazio riempito.
La terra si stava sollevando. Lao Dao rimase in attesa che la fessura si allargasse, quindi prese ad arrampicarsi come rincorrendola, mentre il blocco si alzava con un moto costante. Si aiutò con le mani e con i piedi prima sul bordo in marmo, poi lungo la sezione di terra. Si aggrappava agli spuntoni di metallo che uscivano dal terreno, all’inizio si muoveva verso il basso, tentando di tenersi attaccato con i piedi, ben presto, però, per via della rapida rotazione si ritrovò a dondolare nel vuoto.
Ripensò alla notte precedente.
Aveva fatto capolino dal mucchio di rifiuti con l’orecchio teso ai rumori che provenivano dall’esterno. La spazzatura mandava un odore di marcio dolciastro e fetido. Mentre il mondo si stava svegliando, lui era appostato al cancello.
Quando il fascio di luce gialla dei lampioni era entrato dallo spiraglio che si apriva lentamente, si era piegato per sbucare fuori. Per strada non c’era anima viva. Iniziavano ad accendersi le luci dei palazzi, un piano dopo l’altro. Gli infissi spuntavano in sequenza. I portici emergevano dai muri, le gronde, dopo una serie di avvitamenti, scendevano gradualmente verso la giusta posizione e le scale si protendevano congiungendosi alla via. I cubi neri lungo la strada pedonale si aprivano a metà, uno a uno, rivelando la struttura a scaffale al loro interno. Sopra emergevano le insegne che si connettevano alla galleria dei negozi, mentre le tettoie di plastica uscivano dai lati opposti incontrandosi al centro verso l’alto. La strada deserta pareva un sogno.
Si erano accesi i neon delle luminarie, sopra i negozi lampeggiavano le scritte che pubblicizzavano le giuggiole del Xinjiang, le fettuccine del Nordest, le spugne di crusca di Shanghai e la pancetta piccante dello Hunan.
Per l’intera giornata Lao Dao non si era tolto quello spettacolo dalla mente. Viveva a Pechino da quarantotto anni e non aveva mai visto quella scena. I suoi giorni iniziavano e terminavano dentro la capsula, mentre il resto del tempo lo trascorreva al lavoro o tra tavoli lerci e bancarelle con gente che contrattava. Era la prima volta che vedeva il mondo così come era veramente.
Quella mattina, se avesse potuto assistere da lontano a tutto ciò, avrebbe visto la città aprirsi e ripiegarsi su se stessa, come un camionista in fila al casello dell’autostrada di Pechino.
Alle sei gli autisti smontavano dai loro mezzi per appostarsi sul ciglio della strada, stropicciandosi gli occhi pesanti di sonno tra gli sbadigli, indicandosi a vicenda il centro della città. L’autostrada si sviluppava oltre il settimo anello. La transizione avveniva all’interno del sesto. Erano alla distanza ideale, un po’ come se guardassero le montagne a occidente o un’isola perduta in mezzo al mare.
Alle prime luci dell’alba, la città si piegava e spariva dentro la terra. I palazzi si inchinavano come umili servitori, si abbassavano con deferenza, toccandosi i piedi con la testa, per chiudersi su se stessi. Poi si spezzavano e si piegavano ancora in due per infilare capo e braccia negli spazi vuoti. I poliedri compatti che si venivano a formare ruotavano fino a comporre un gigantesco e perfetto cubo di Rubik pronto a sprofondare in un lungo sonno. A quel punto la terra ruotava. I singoli lotti giravano attorno al proprio asse di centottanta gradi, rivelando gli edifici sull’altro lato che si aprivano ergendosi nel cielo grigio azzurro come animali che escono dal letargo. L’isola della città si stagliava nella luce arancione, aprendosi e raddrizzandosi in mezzo alle fitte nuvole grigie. I camionisti provati dalla fame e dal sonno ammiravano lo spettacolo della metropoli che si rinnovava all’infinito.


