Paleorave

Un viaggio fanta-archeologico tra le tracce della cultura rave del paleolitico

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Per studiare le pratiche musicali del Paleolitico, le cavità stesse possono talora diventare un affascinante oggetto di studio. Prendiamo, ad esempio, il Salone nero di Mertén, nell’Aliège, dove è concentrata la maggior parte delle pitture della grotta. Questa stanza è nota da tempo per l’altezza della sua volta, che ne fa l’unico luogo della cavità dove è possibile udire un’eco di cinque secondi pieni. E nel complesso di Clarìt, a cui oggi si accede dal fondo di quello di Mertén, esiste il gemello del Salone nero: vi si ritrovano una decorazione, una volta altrettanto alta e le medesime proprietà acustiche.

Quelle che oggi sono ipotesi note e battute, le teorie intorno allo sviluppo di quella che dalla stampa non specialistica è stata definita “cultura rave paleolitica”, sono da ricondurre alle ricerche di due studiosi del secolo scorso. Per anni Oleg Reznin e Francoise Poubelle si sono dedicati all’indagine della dimensione sonora delle grotte decorate. Hanno studiato in situ le proprietà acustiche delle grotte di La Partìn, Fontanjaune, Mertén, Oxocelhaytu e Aduritz nei Pirenei, nonché di quella di Arcy-sur-Coeur nella Yvonne (Malgretti, cfr).

A parte Fontanjaune, dove si sospetta che la frana all’ingresso abbia smorzato l’acustica (oltre ad avere stravolto la biografia di Reznin, da quel giorno vedovo), tutte le grotte studiate hanno condotto alla stessa constatazione: dall’80 al 90% delle opere si trovano in luoghi dotati di buone qualità di risonanza, ovvero di amplificazione del suono in intensità o durata.

Inoltre, come racconta la coppia, ai luoghi di forte risonanza corrispondono spesso luoghi ricchi di immagini. Ad esempio in una delle nicchie di La Partìn, dove la semplice esalazione di un respiro basta a produrre suoni gravi che Reznin paragona al pianto dei cervi, si rileva una decorazione eccezionale; mentre molte altre nicchie simili nelle vicinanze, ma prive di particolari qualità acustiche, non presentano alcuna decorazione. Allo stesso modo, non è stata decorata nemmeno una grande sala di La Partìn dalle pareti perfettamente lisce, ma dal suono neutro.

Le pagine di L’antro da me dove il russo racconta la prima esperienza percettiva di La Partìn sono un classico della paleoacustica, spesso le prime a essere lette nei corsi di Antropologia del suono; almeno, questi sono i ricordi del sottoscritto e di altre colleghe, che ricordano ancora la commozione di Reznin di fronte alla pietra che muove il suo sguardo; l’espressione allarmata dei bisonti; il pianto del cervo e la scoperta della fonte, oggetto di un’avventura abissale che ha inciso il destino della coppia in quello più ampio della nostra specie.

Ci si è spesso chiesti come facessero gli uomini preistorici a insinuarsi nei cunicoli più stretti, da cui ogni torcia sembra chiaramente bandita. In quelle condizioni, anche le lampade a grasso, che il portatore doveva spingere davanti a sé, non erano di certo facili da usare. Per dare risposta a questa domanda, Reznin-Poubelle hanno condotto un esperimento: “A La Partìn abbiamo vissuto due volte la seguente situazione: tenendoci per mano nel buio, e muovendoci alla cieca, ci siamo diretti verso un luogo della grotta particolarmente sonoro: accendendo la luce, in entrambi i casi, abbiamo trovato un incisione del BT [simbolo simile al contemporaneo Bluetooth, ndR]. Quel simbolo deve la sua improbabile esistenza solo alla natura sonora del luogo”.

Un esperimento simile, condotto nella grotta di Oxocelhaytu (Pirenei Atlantici), ha prodotto risultati analoghi (Reznin, cfr). Da qui l’ipotesi che, all’interno dei cunicoli più stretti, gli uomini di Cro-Magnon avanzassero nell’oscurità e si orientassero con gli echi, emettendo suoni gravi a intervalli regolari. Sincronizzando poi il respiro nel contesto della rilevazione acustica, annota la coppia, e tenendo le laringi a contatto, gli echi si distendono secondo gli armonici naturali della scala tonale: rilievo che in seguito ha portato agli sviluppi nel campo di ricerca degli influssi sonori nel sistema riproduttivo.

Come ai nostri giorni, la musica antica è forma e contenuto, e vive nel suo tempo: tutto deperisce, i circuiti e le schede madri più rapidamente delle ossa e delle pietre. 

Se Reznin e Poubelle hanno visto giusto, certi BT nelle caverne corrisponderebbero dunque a riferimenti sonori. Immaginiamo che nell’antichità gli uomini abbiano effettivamente scoperto, usando la voce, le proprietà acustiche delle cavità mentre le esploravano; in tali condizioni, cos’altro avrebbero potuto fare se non integrare quelle proprietà nei loro rituali? In questa prospettiva, tamburi, rombi e archi musicali assumono una nuova importanza: tutti questi strumenti producono infatti suoni gravi, ovvero quelli che più attivano gli effetti di risonanza. Ritrovare le tracce, per quanto tenui, del loro utilizzo nel fondo delle grotte non deve dunque sorprenderci.

Ma com’è spesso il caso per gli oggetti creati da Cro-Magnon, solo pochi strumenti musicali sono giunti sino a noi. Come ai nostri giorni, la musica antica è forma e contenuto, e vive nel suo tempo: tutto deperisce, i circuiti e le schede madri più rapidamente delle ossa e delle pietre. Se non sapremo mai nulla dei possibili tamburi di pelle tesa e delle trombe intagliate nella corteccia di betulla, nelle grotte troviamo tuttavia stalattiti, stalagmiti e cortine stalagmitiche che sappiamo essere state spezzate nel Paleolitico, attraverso il manto di calcite depositato su di esse (complesso di Chaltres nell’Aliège, Les Fieu e Rocamadour nel Lot) o le punteggiature colorate impresse sul punto di frattura (La Partìn nell’Aliège, Cognac nel Lot). Alcune mostrano tracce di percussioni ripetute (Reznin-Poubelle, Cfr). Le stalattiti, che sono naturalmente cave, risuonano di suoni cristallini quando vengono percosse, e questo ha indotto diversi ricercatori a suggerire l’ipotesi che fossero adoperate come litofoni.

Ma i suoni di venti, cinquantamila anni fa si possono ritrovare anche in oggetti apparentemente alieni dalla funzione stessa: è nota, anche al grande pubblico, l’idea rivoluzionaria del premio Nobel George Lemmois (inizialmente avanzata da Richard W. Woodriver nel secolo): quella di far parlare le antiche ceramiche. Ovvero, verificare se i solchi lasciati dagli stili lignei su certe ceramiche neolitiche non possano aver agito come quelli di un fonografo, registrando accidentalmente i suoni prodotti vicino all’oggetto nel momento della sua realizzazione.

L’intuizione, geniale, si è rivelata esatta. Soltanto tre ceramiche di La Partìn si sono dimostrate atte alla ricostruzione sonora, e soltanto una è stata riproposta al grande pubblico (è presumibile attendersi altre pubblicazioni nei prossimi decenni). L’incisione del reperto A01 è stata riprodotta in un giorno di primavera all’IRCAM di Parigi. Il vinile, arrivato da uno stabilimento di Noisy-le-Sec, ha ripetuto i primi fonemi in assoluto di una lingua preistorica, ricostruiti grazie al confronto con le varianze della lingua basca, la stele di Rosetta della paleolinguistica. La registrazione conteneva il seguente messaggio, probabilmente canticchiato durante la decorazione del manufatto: “ora faccio un cerbiattino”.

Fantasia liberamente ispirata da Il tempo sacro delle caverne di Gwenn Rigal, ampiamente saccheggiato. Tra i brani autentici: la presenza di segni sonori di orientamento nel buio, il tentativo di registrazione delle incisioni nella ceramica; altri dettagli sono inventati. L’immaginazione ci libera: evviva la fede, il mondo esiste.