Oltre la Realtà
Pubblichiamo un estratto dal libro La scommessa psichedelica, ringraziando Quodlibet per la disponibilità.
Immagina una tecnologia capace di farti accedere a un’altra dimensione. Non uno spazio fisico, ma mentale: una sorta di estensione del reale, in cui la tua conoscenza viene espansa, per così dire «aumentata». Un luogo dal quale poter comunicare con una moltitudine infinita di altre persone, lontanissime nello spazio e nel tempo, o addirittura entrare in contatto con forme di intelligenza profondamente diverse da quella umana. Una tecnologia, quindi, attraverso la quale poter accedere a vastissimi, sconfinati depositi di conoscenze e saperi, spesso in aperta contrapposizione con quelli considerati socialmente accettabili.
Una tecnologia che bombarda i tuoi sensi con una fantasmagoria di immagini provenienti da ogni luogo e ogni epoca, reali o immaginari, nel quale visioni di sublime bellezza e sommo orrore si sovrappongono senza soluzione di continuità: grotteschi scarti di foto di famiglia sfuocate accanto a mandala di organi sanguinolenti e animali esplosi, Guernica di gattini e unicorni multicolori attraversate da visioni di processioni cyberbabilonesi, tavole di Bosch sovrapposte e foto di Britney Spears che precipitano in specchi distorti pieni di bocche sorridenti.
Un infinito senso di vertigine e nausea ti attanaglia lo stomaco, il battito del polso accelera, la bocca è secca e impastata – quand’è che hai bevuto l’ultimo sorso d’acqua? Quanti minuti sono passati? …Quante ore? Dove sei? Non ti sei mai spostato di un centimetro. Eppure…
Queste righe, che potrebbero benissimo riferirsi all’esperienza di un classico viaggio psichedelico, sono invece la descrizione soggettiva di un’intensa sessione di navigazione nella rete: quel luogo-non-luogo che in anni all’apparenza più innocenti e meno complicati chiamavamo World Wide Web – e che oggi tutti conosciamo semplicemente come Internet. Internet e psichedelia sono profondamente legate. Che si tratti in entrambi i casi di tecnologie capaci di espandere la realtà, con conseguenze potenzialmente rivoluzionarie, venne a suo tempo già constatato dal solito, immancabile, Timothy Leary. Oltre a definire i PC come l’LSD degli anni Novanta, all’inizio del suddetto decennio l’ormai settantenne Leary aggiornò infatti anche il suo famoso invito a giovani e anticonformisti a rifuggire la società dominante in chiave squisitamente cyberpunk, traducendolo come «turn on, boot up, jack in» (per un curioso cortocircuito dal retrogusto squisitamente psichedelico – si potrebbe parlare di acausalità junghiana – lo slogan originale «turn on, tune in, drop out» era stato «donato» a Leary dal celebre media theorist canadese Marshall McLuhan, le cui idee hanno profondamente influenzato la nostra comprensione dell’era informatica e della rete).
Che il legame sia anche più antico e profondo, lo hanno ormai ampiamente dimostrato gli esegeti della storia psichedelica della Silicon Valley, di cui forse Erik Davis può essere considerato il massimo esponente. Ci pare ozioso, in questa sede, riproporre ancora una volta gli ormai logori aneddoti sugli acidi come fonte d’ispirazione «segreta» dei profeti della digitalizzazione, sul microdosing come trend tra gli «startuppari» di San Francisco, o sul Burning Man come parco giochi delle élite tecno-californiane – per quanto ognuna di queste cose possa sicuramente presentare risvolti interessanti e degni di nota.
Quello che ci piacerebbe fare qui, piuttosto, è un tentativo di analisi delle caratteristiche che accomunano queste due realtà, che vorremmo studiare proprio alla luce della loro comune radicalità tecnologica, per cercare di trarne delle indicazioni utili sul presente. È necessario però prima delineare in breve i tratti salienti del rapporto fra psichedelia e Internet.
Che le due tecnologie siano imparentate, dicevamo, lo suggeriscono anzitutto la storia e la geografia: in altre parole, gli anni Sessanta californiani. È innegabilmente una storia interessante, ricca di episodi scurrili e sincronicità inaspettate, raccontata in modo efficace dal giornalista John Markoff nel suo libro del 2005 What the Dormouse Said: How the Sixties Counterculture Shaped the Personal Computer Industry. Chi la volesse esplorare, imparerebbe ad esempio che tra il 1961 e il 1965 l’International Foundation for Advanced Study, fondata dal ricercatore Myron Stolaroff a Menlo Park – ossia a pochi metri da dove decenni dopo sarebbe nata Facebook – somministrò LSD a 350 soggetti adulti per scopi di ricerca, e che uno di questi soggetti era Doug Engelbart, futuro inventore del mouse e pioniere dell’idea di aumentare la mente umana attraverso ausili informatici. Andando avanti potrebbe poi assistere a quella che Markoff considera la nascita dell’e-commerce, quando nei primi anni Settanta i ricercatori di Stanford utilizzarono il progetto militare Arpanet – considerato il progenitore di Internet – per offrire ai loro colleghi del Massachusetts Institute of Technology l’acquisto di una non meglio specificata quantità di marijuana.
Arriverebbe poi agli anni Ottanta, all’ascesa della Apple, e al lancio del primo Burning Man nel 1986, a pochi chilometri da San Francisco (le prime edizioni si svolsero sulla spiaggia di Baker Beach, a pochi chilometri dal Golden Gate Bridge, prima che la crescita rapidissima e il divieto di bruciare la famosa effige-simbolo costringesse i fondatori al trasloco nel deserto del Nevada negli anni Novanta). Fino a giungere al 2001, quando da una celebre conversazione fra Steve Jobs e Markoff in cui il guru della Apple disse di considerare l’esperienza di prendere un acido tra le due o tre scelte più importanti della sua vita, nacque appunto l’idea del libro stesso. Da lì a poco l’azienda di Cupertino avrebbe inaugurato il suo secondo decennio magico (dopo gli Ottanta) lanciando l’iPod, iniziando un percorso che sarebbe simbolicamente culminato nella presentazione del primo iPhone nel 2007, chiudendosi poi con la morte e beatificazione laica dello stesso Jobs nel 2011. Concludiamo riportando un’altra curiosa «coincidenza»: fu forse il libro di Markoff, ispirato appunto dal racconto dell’uso di LSD da parte di Jobs, a spingere lo stesso Albert Hoffman, ormai centenario (sarebbe morto l’anno successivo), a cedere alle richieste del suo amico Rick Doblin di scrivere una lettera personale al CEO della Apple, chiedendogli di sostenere le ricerche sull’LSD dello psichiatra svizzero Peter Gasser.
Il merito maggiore dell’opera di Markoff è forse quello di far emergere una bipartizione storica molto netta: da un lato la fredda East Coast, simboleggiata dalla IBM e caratterizzata da macchine estremamente complesse, ingombranti e accessibili solo a pochi. Dall’altro lato invece la scanzonata West Coast, in cui gruppi eterogenei di ricercatori e imprenditori inseguivano il sogno di un calcolatore innovativo e operabile da chiunque: il Personal Computer. E, come si suol dire, il resto è storia.
La domanda fondamentale quindi, che sia le sostanze psichedeliche che la complessità irriducibile dell’esperienza digitale ci costringono a porci, è questa: cosa vuol dire «reale»? Qual è la natura di questa narrazione condivisa che comunemente chiamiamo «realtà»?
La critica più frequentemente rivolta a Markoff, e a chi come lui cerca di esplicitare un legame diretto fra la contemporanea società globale digitalizzata e gli albori del PC e della rete nei caldi anni Sessanta californiani, è che contiguità spaziale e temporale non sono sufficienti a dimostrare un rapporto di causalità – una critica che ci sentiremmo di sottoscrivere. Come per il rapporto fra controcultura hippy e LSD, anche il rapporto fra rivoluzione informatica e psichedelia è probabilmente il frutto di una fortunata concatenazione di eventi paralleli.
Più interessante è forse un’altra domanda, che nei fatti rovescia il suddetto rapporto di causalità: bisognerebbe interrogarsi non su come la psichedelia abbia ispirato e forse anche favorito la gestazione del nostro mondo digitale, ma su come al contrario la progressiva digitalizzazione del mondo abbia creato delle dinamiche e degli spazi che hanno favorito l’emergere di quello che oggi chiamiamo Rinascimento psichedelico. Si potrebbero qui identificare almeno tre aspetti:
1. Controinformazione: Internet ha contribuito enormemente alla vitalità delle sottoculture giovanili, permettendo a sensibilità ed estetiche di nicchia di sopravvivere ben oltre l’esaurirsi del loro naturale ciclo di vita. Questo vale anche per la psichedelia: siti come Erowid hanno dato un contributo inestimabile all’indispensabile opera di controinformazione che ci ha portato dove siamo oggi, e anche piattaforme controverse come YouTube o Facebook hanno permesso la creazione «dal basso» di un’enorme galassia di playlist, gruppi e pagine che, nel complesso, hanno dato una visibilità senza precedenti a temi ed estetiche psichedeliche. In questo senso, non appare esagerato affermare che il Rinascimento psichedelico non sarebbe immaginabile senza Internet.
2. Ricerca: Aspetto in un certo senso complementare a quello precedente, e frutto inevitabile della natura di Internet, almeno nelle intenzioni dei suoi ideatori. Come nell’origin story del PC, anche nella genesi di Internet si possono infatti identificare due anime: quella resiliente e minacciosa delle sue origini militari come progetto Arpanet (comunque rapidamente appropriata e ammansita da ricercatori e scienziati come Vinton G. Cerf, che ne avevano intuito le enormi potenzialità), e quella aperta e utopica del World Wide Web, attribuibile in buona parte al lavoro di Tim Berners Lee durante la sua permanenza al CERN. Scopo della rete era quindi (anche) la condivisione di saperi e l’accelerazione del loro processo di produzione: in questo senso, se è vero che il principale motore dell’attuale riscoperta di certe sostanze è stata la produzione di evidenze scientifiche sulla loro efficacia medicinale e terapeutica, va ricordato che questa non sarebbe stata così rapida e efficace senza Internet.
3. Ontologia: Come suggerito in apertura, la rete e l’esperienza psichedelica presentano delle somiglianze fondamentali, riguardanti per così dire l’essenza stessa del viaggio psichedelico e della navigazione in rete (a partire dalla metafora del viaggio spaziale). È questo forse l’aspetto più complesso, ma anche quello più interessante e meritevole di essere investigato – cosa che tenteremo di fare nel resto di questo intervento.
Qual è quindi il nesso fondamentale tra psichedelia e Internet, qual è la segreta essenza del loro legame? Un indizio ce lo ha già dato Leary, che, come abbiamo visto, aveva riconosciuto nell’emergente estetica di Internet paralleli più che significativi con l’esperienza lisergica. Pensiamo anche al canone della letteratura cyberpunk, che ci ha regalato immagini potenti fatte di ibridi fra macchine e umani, di cieli del colore «della televisione sintonizzata su un canale morto», ma soprattutto la visione epica del cyberspazio come «allucinazione consensuale» collettiva, contribuendo così a quella messa in dubbio del reale («e se fosse tutto solo una simulazione?») che il film Matrix (1999) ha poi canonizzato con la sua famosa metafora della pillola rossa e della pillola blu. Una visione sconcertante, ma persistente, difficile da scacciare, proprio perché, come dimostrato da Erik Davis nel suo magistrale TechGnosis, capace di riallacciarsi a tradizioni filosofiche e metafisiche antichissime, dallo gnosticismo al misticismo orientale. La domanda fondamentale quindi, che sia le sostanze psichedeliche che la complessità irriducibile dell’esperienza digitale ci costringono a porci, è questa: cosa vuol dire «reale»? Qual è la natura di questa narrazione condivisa che comunemente chiamiamo «realtà»? Non è forse possibile, in qualsiasi momento, rifuggire da questa narrazione, denunciarne la natura arbitraria e contingente – e quindi riappropriarsi della capacità di ricreare, ex novo, altre narrazioni, altre storie, e quindi altre realtà?
Alla luce di queste riflessioni, il fragile tentativo di creare, attraverso una sorta di sincretismo laico, una fusione tra pensiero psichedelico e cultura cyberpunk, messo in atto a cavallo fra anni Ottanta e Novanta da un variopinto ed eterogeneo grappolo di personaggi (comprendente veterani e pionieri delle due correnti, hacker, psiconauti, scrittori, artisti, o semplicemente musicisti e artisti di successo, in cerca della prossima tendenza da cooptare) e passato fugacemente alla storia come cyberdelia, acquisisce un altro spessore, lasciando in bocca l’amaro sapore degli esperimenti socio-culturali falliti perché forse in anticipo sui tempi.
Ecco: il fallimento. Non è forse questo un altro, doloroso trait d’union fra psichedelia e cultura cyber? Entrambe le correnti hanno avuto il loro momento di generoso, ingenuo slancio utopico. In fondo l’ottimistica visione propagata dai profeti lisergici, che un’assunzione di massa di LSD da parte della popolazione (nell’ordine di qualche milione di unità) avrebbe reso inevitabile la tanto agognata rivoluzione, non è molto dissimile dallo spirito che aleggia su documenti come la bellissima Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio del fondatore della Electronic Frontier Foundation John Perry Barlow (ottimo amico sia di Leary che del chitarrista dei Grateful Dead, Bob Weir), un documento-manifesto in cui i pionieri della rete dichiaravano la loro irriducibile ingovernabilità nei confronti di governi, corporation e agenzie di sorveglianza. Proprio in quel periodo infatti stava cominciando un processo di enclosure dei digital commons che anni dopo sarebbe culminato nella presunta «morte» di Internet. In entrambi i casi, il passare del tempo e la recrudescenza contemporanea dei peggiori umori reazionari della società sembrerebbero aver smentito sogni di facili scorciatoie e risolutivi deus ex machina.
Ancora più preoccupante appare l’estrema capacità del capitalismo di inglobare e assimilare qualsiasi forma di controcultura, disgregandola e atomizzandola attraverso gli enzimi dell’individualismo edonistico e dell’escapismo. Ricordiamoci di come Internet, dopo un primo periodo di stigmatizzazione e diffidenza (mai del tutto dissolte: basti pensare a come, ancora oggi, la rete viene dipinta dai giornali come un luogo pericoloso, ricettacolo di ogni genere di criminalità e perversione), sia stato poi occupato, privatizzato e commercializzato da stati e aziende, fino al punto da spingere molti pionieri e hacker della prima ora a dichiararne prematuramente il decesso, come accennato sopra. Come possiamo escludere che lo stesso destino non verrà riservato a sostanze come la psilocibina, l’LSD e la ketamina, con le grandi aziende farmaceutiche e le industrie creative e culturali pronte a lucrare sul loro sdoganamento? E se davvero è così, cosa possiamo fare adesso, per evitare di trovarci fra dieci anni a piangere la sconfitta della scommessa psichedelica?
Per trovare la risposta, è necessario secondo noi fare un ulteriore passo nel ragionamento: introducendo un altro concetto-protagonista dei nostri tempi, il meme, e contestualizzandolo nella ridefinizione attualmente in corso del rapporto fra tecnologia e magia.
Nel suo interessantissimo Technic and Magic: The Reconstruction of Reality (2018), il filosofo Federico Campagna esplicita la sovrastruttura dominante della nostra società contemporanea, la «cornice di senso» epistemologica attraverso cui diamo un senso alla nostra realtà, chiamandola «tecnica» (technic: un concetto diverso dalla mera «tecnologia»). Il punto centrale della sua tesi, troppo complessa per essere riportata qui in tutte le sue sfaccettature, è che la crisi contemporanea sia principalmente una crisi di tale cornice di senso: una crisi della cosmogonia all’origine della nostra visione del mondo, quindi, che in quanto tale non potrà essere risolta attraverso riforme politiche o economiche, ma solo costruendo un progetto rivoluzionario di tipo metafisico-teologico. Campagna decide di chiamare «magia» (magic) questa sua proposta di un sistema di realtà alternativo alla tecnica, usando in maniera non casuale un termine già carico di significati e storie.
La storia del linguaggio e quella della magia sono profondamente legate. Non dovrebbe quindi stupirci se, nel 2020, esistono ormai persone che parlano apertamente di «magia memetica» e «rituali tecno-sciamanici».
Per spiegare il rapporto di contrapposizione tra tecnica e magia, Campagna si appoggia – tra le altre cose – al concetto di linguaggio. Nel paradigma dominante, spiega Campagna, se qualcosa non può essere descritto e compreso attraverso il linguaggio della tecnica (che lui definisce «linguaggio assoluto»), questa cosa non esiste. Fenomeni così definiti vengono quindi relegati nei ristretti ambiti della superstizione, che formano per così dire l’anticamera della magia.
Perché abbiamo voluto introdurre queste teorie filosofiche dal retrogusto esoterico? La risposta va ricercata in uno dei fenomeni sociali maggiormente rappresentativi del decennio appena concluso, ossia i cosiddetti Internet memes (per chi avesse vissuto sotto una roccia e non abbia idea di cosa sia un meme, consigliamo la lettura di La Guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo infinito di Alessandro Lolli). Una prima, preziosa indicazione ce la fornisce uno dei grandi tedofori dell’idea psichedelica, Terence McKenna, che da uno dei suoi tantissimi video, disponibili su YouTube, lanciò un avvertimento di cui forse solo ora, a tre decenni di distanza, possiamo veramente capire l’importanza.
È il 1990 e siamo a Port Hueneme, in California. Il celebre psiconauta si rivolge alla comunità artistica e psichedelica, facendo riferimento alla parola meme nell’accezione creata dieci anni prima dall’etologo Richard Dawkins, ma «detournandone» il significato: da mutazione casuale, che avviene seguendo le leggi evolutive darwiniane, a mutazione consapevole, portata avanti dalla comunità artistica e intellettuale. Si intravede un palco e l’inquadratura si sposta su una platea seduta e illuminata come McKenna da una forte luce rosa. La comunità psichedelica o proto-memetica viene investita della responsabilità di creare collettivamente i meme e di proteggerli da forme di appropriazione indebita:
[A differenza del gene, sovramenzionato] il meme non è da intendere come la minima unità di ereditarietà; un meme è la più piccola unità di significato di un’idea. Le idee sono fatte di meme. E penso che la comunità artistica potrebbe funzionare con maggiore efficienza nella produzione di scoperte estetiche visionarie se pensassimo a noi stessi come un ambiente modellato sull’ambiente naturale, dove noi artisti stiamo provando a creare meme che entrano in un ambiente di altri meme che sono in competizione tra loro e, al di fuori di questa competizione di meme, idee sempre più appropriate, adattate e adatte possono riunirsi e collegarsi insieme a organismi sempre più alti. […] Quindi rappresentiamo un gruppo di affinità; una popolazione con il potenziale di impatto mutageno sulle strutture ideologiche del resto della società.
È chiaro che McKenna, benchè si stesse già notevolmente allontanando dall’idea originaria di meme come intesa da Dawkins, non stava ancora parlando del «meme di Internet» nell’accezione contemporanea. L’aspetto cruciale è che, nella sua lucidità, McKenna aveva già intuito che il concetto di meme è per sua natura semantico, e quindi parente dell’idea di linguaggio. Anticipando così che i meme, oltre a diventare una sottocultura, un fenomeno estetico, e un innovativo tipo di medium, sarebbero stati soprattutto un linguaggio: forse il linguaggio prediletto di Internet, e in quanto tale, uno dei più potenti mezzi a nostra disposizione per intervenire sul tessuto del reale. Se questa affermazione vi lascia perplessi, magari perché i meme finora vi sono sembrati poco più che buffe immaginette virali da condividere sui social, vi consigliamo di considerare il crescente interesse da parte di politici, corporation, think tank e media mainstream nei confronti del fenomeno: potreste ad esempio rimanere sorpresi scoprendo che, già nel 2005, l’ufficiale del corpo dei marines degli Stati Uniti Michael Prossner aveva proposto la creazione di un Meme Warfare Center (= «centro per la guerra memetica»).
Ma c’è di più: perché, come suggerisce Campagna, la storia del linguaggio e quella della magia sono profondamente legate. Non dovrebbe quindi stupirci se, nel 2020, esistono ormai persone che parlano apertamente di «magia memetica» e «rituali tecno-sciamanici». Ma procediamo con ordine.
Per districare questa intricata matassa di concetti e idee, iniziamo anzitutto investigando il rapporto tra Internet meme e cultura dominante. Già a partire dai primi eventi pubblici dedicati al nascente campo della memetica, ci si domandava come e quando la diffusione nella cultura mainstream avrebbe distrutto la comunità e le pratiche delle subculture dedicate ai meme. La discussioni avvenute al ROFLCon, una serie di convention con cadenza biennale che si svolsero in tre edizioni, dal 2008 al 2012, ospitate dal MIT, e in particolare quelle che animarono il dibattito in chiusura del ROFLCon II, dipinsero il passaggio da esoterico a mainstream, da controverso a regolamentato, come un processo continuo e ineluttabile.
Il dibattito di cui stiamo parlando era appunto intitolato Mainstreaming the Web e vedeva una lista di invitati talmente celebri nei ranghi della memetica da strappare al moderatore e fondatore del ROFLCon il commento: «Oh merda! L’Internet è qui». Nel video della conferenza, oggi custodito dall’Internet Archive, si scorgono, seduti dietro a una lunghissima cattedra e ai piedi di un’altissima lavagna, Christopher Poole, detto moot, fondatore di 4chan; Kenyatta Cheese e Jamie Wilkinson, creatori e fondatori del database Know Your Meme; Greg Rutter, per l’archivio YouShouldHaveSeenThis.com; e Ben Huh, creatore del blog I Can Has Cheezburger?, allora visitatissimo da chi si approcciava per la prima volta alla cultura dei meme, e odiatissimo da coloro che si riconoscevano nella comunità depredata: i componenti di 4chan e 7chan in prima linea, seguiti da utenti reddit della prim’ora e spalleggiati dai vecchi frequentatori di forum o wiki ormai fossili, come Something Awful e Encyclopedia Dramatica. Come riassunse l’allora ventiduenne Poole, il modello parassitario che permetteva a I Can Has Cheezburger? di lucrare sulla viralità dei meme popolari come i LOLcats o gli Advice animals, monetizzando le visite degli utenti tramite banner pubblicitari, era dal suo punto di vista paragonabile a un pozzo di petrolio. Una catena di estrazione a senso unico, descritta perfettamente da moot: «Io gestisco il sito frequentato dalla comunità che crea i meme, Kenyatta e Jamie li studiano, Greg li colleziona e Ben essenzialmente… ne trae profitto».
Oggi sappiamo che allo Human Centipede raccontato con questa breve frase da Poole si aggiunsero successivamente, con il modello «ogni account è un brand», introdotto prima da Facebook e poi da Instagram, una miriade di repost, clickbait e siti satelliti. Allora il bottone dei like era appena nato e se ne parlava solo brevemente, oggi è diventato una moneta di scambio, rendendo estrattori di valore gli stessi utenti e dando luogo ad aberrazioni di vario genere, come le pagine e i gruppi meme curati al fine di raccogliere visibilità per il loro merchandising; gli uffici di troll finanziati da governi o dai partiti per attività di propaganda; i meme influencers, ingaggiati da brand o agenzie pubblicitarie e che al momento rappresentano una delle ultime frontiere del disruptive advertising.
È curioso ricordare come questo matrimonio tra Internet meme e marketing sia avvenuto sulle note di un clarinetto elettrico, durante un altro evento pubblico, che ebbe luogo niente meno che sulla Costa Azzurra, tra gli attori e i paparazzi del Festival di Cannes. Se volete provare un po’ di sano cringe vi consigliamo di andare su YouTube e di guardarvi il video «Just for Hits Richard Dawkins». Siamo nel giugno del 2013, anno d’oro per la storia degli Internet meme, che vede la nascita del Doge, l’esplosione di YouTube meme come «do the Harlem Shake» e «Wrecking Ball (Nicolas Cage Edition)», o tumblr meme monotematici come «Hot Dogs or Legs» e «Scarlett Johansson Falling Down», ma che è soprattutto segnato dallo sbarco degli Advice animals e di altre Image macro sui social media mainstream. È così che la celebre e multi-premiata agenzia creativa Saatchi & Saatchi decide di salire sul carro della viralità, invitando il padre dei meme a esibirsi durante l’apertura del suo ventitreesimo New Directors’ Showcase, un evento che avviene ogni anno poco prima della consegna della Palma d’oro, destinato a omaggiare il talento di un regista emergente e che straordinariamente quell’anno celebrerà anche «i cervelli che creano i meme».
Lo spettacolo si apre con una breve presentazione da parte di Dawkins, in cui gli Internet meme sono finalmente descritti come un «dirottamento dell’idea originale»: se il significato che il biologo attribuiva ai meme nel suo Il gene egoista implicava una «mutazione tramite variazioni casuali e una forma di selezione darwiniana», sul palco di Saatchi & Saatchi Dawkins è costretto ad ammettere che gli Internet meme «sono alterati deliberatamente dalla creatività umana». Questi statement sono così importanti da venire proiettati in IMPACT sul fondale del palco, e ripetuti per tutto il corso della performance visiva da una traccia in auto-tune pre-registrata, con il volto di Dawkins che svolazza nel cyberspazio come se fosse un Nyan Cat, accompagnato da cervelli 3d, shaders e glitch iper-saturi, colonne e delfini vaporwave, ananas e sguardi laser accelerazionisti, conditi da frattali di pappagalli, occhi, pizze e pecore. Finché eccolo di nuovo sul palco, il padre dei meme in carne e ossa, dotato del suo clarinetto elettronico, forse nel tentativo di diventare egli stesso un meme monotematico. Tra gli applausi gli spettatori sono forse del tutto ignari di aver assistito a un’abdicazione, in cui Dawkins rinuncia al suo ruolo di padre e profeta della memetica 2.0, ci piace pensare qui, in favore di McKenna.
Nel suo ingresso nel Rinascimento psichedelico la psichedelia si espone al rischio di essere inglobata nel mainstream e divorata da logiche commerciali di sfruttamento e estrazione di valore.
Ma perché per un evento progettato per entrare nella storia, nostro malgrado, come la più alta consacrazione degli Internet meme da parte del mainstream, si sceglie di usare un registro grafico che visibilmente rimanda a quello della psichedelia?
Per rispondere a questa domanda occorre camminare molto a ritroso, per ritrovare un legame tra psichedelia e estetica dei meme in quanto prodotti DIY (ossia Do It Yourself) che affonda le sue radici nei primi anni Sessanta, in quella «proliferazione di subculture» amanti dello strano, che si esprimevano attraverso «media alternativi fai-da-te: libri autopubblicati, cassette, video, fumetti e, soprattutto, zine», come ci racconta Erik Davis. Seguendo questo filone è possibile capire come gli Internet meme in quanto prodotti DIY e folkloristici abbiano portato avanti la tradizione di raccontare, con mezzi poveri, le meraviglie lisergiche e le stranezze dei loro tempi. Pensiamo ad esempio a una figura come l’Acid Viking, un tizio con un cappello da vichingo che stringendo i denti cerca di remare in un mare di frattali, accompagnato dalla frase «Take an acid they said, it will be fun they said», o al relatable Twitter meme composto da una pittura acrilica del pittore surrealista ucraino Interesni Kazki, raffigurante un gruppo sparso di uomini nudi di diversi colori e forme, intenti a scorrazzare su una spiaggia con in mano occhi, pianeti e matrici di luce, sotto la scritta «When everyone in the squad takes different doses». Pensiamo al formato «Iceberg Tiers Parodies», meme e prezioso veicolo di informazioni di una data subcultura, come nel caso del formato «Iceberg Tiers Parodies», che distribuisce dall’alto verso il basso, dal più diffuso al meno conosciuto, un enorme numero di espedienti e pratiche volte al risveglio della coscienza. Pensiamo anche al celebre formato «Expanding brain», o al più recente suo simile «Complex Rubik’s Cube»: entrambi paiono richiamare una rappresentazione estetica semplificata dei «livelli dell’esperienza psichedelica», simile alla scala di cinque livelli di Timothy Leary, a sua volta una schematizzazione degli stati descritti nel Libro tibetano dei morti; o alla mappa dello psicologo sperimentale Roland Fischer, che riporta in stati discreti le varie fasi di alterazione della coscienza che ci separano dal raggiungimento dell’estasi; o ancora alla scala del biochimico Alexander Shulgin, progettata per misurare l’effetto soggettivo delle sostanze psicoattive a un determinato dosaggio. Per non parlare di cosa può accadere quando il genere «Expanding brain», basato come abbiamo detto su una classifica di stati alterati, volti alla trascendenza, ma spesso ironicamente ribaltati, dal più alto al più elementare, si mischia con il genere «Drakeposting» o «Tuxedo Winnie the Pooh», basati sulla logica binaria di approvazione vs. non approvazione, sciatteria vs. eleganza, ignoranza vs. conoscenza: in questo caso i layer di significato si moltiplicano esponenzialmente facendoci esperire un clash linguistico che si avvicina esso stesso a momenti di lisergia, smarrimento alogico e estasi dei sensi.
Anche senza tener presente questa serie di rimandi e derivazioni storiche tra subculture, le emozioni che oggi proviamo nel vedere Richard Dawkins esibirsi sul palco di Cannes sponsorizzato da Saatchi & Saatchi, saranno, più o meno in quest’ordine: «Ah interessante, un discorso sull’evoluzione degli uccelli…», «Ma cosa c’entra Dawkins con la vaporwave?», «Oh no, si sono presi anche questo!». Come avevano previsto Kenyatta Cheese e Jamie Wilkinson (cofondatori di Know Your Meme) durante il dibattito «Mainstreaming the Web», la commercializzazione della subcultura memetica avrebbe favorito la manifestazione di tristi forme di «hipsterismo», inteso da Wilkinson come l’atto di acquisire un pezzo di cultura senza conoscerne la storia, l’origine e lo scopo. Di qui appunto era nato il loro desiderio di compilare un archivio, oggi immenso.
Come molte subculture che sono cresciute al limitare della cultura dominante, sopravvivendo all’interno di comunità nate in modo spontaneo, anche quelle digitali, che si parli di GIF, hashtag, o Internet meme, pur essendo trasmesse su supporti di silicio, ci riportano ai meccanismi propri della cultura orale. Accadendo in luoghi di «dialogo effimero», come i forum e le chat, prima di essere conservate in archivi e biblioteche, le subculture digitali si proteggono adottando dei piccoli trucchi mnemonici, che erano propri di quella orale. È forse per questo che l’internet lore presenta lo stesso gusto per la ripetizione, l’iterazione e l’uso di epiteti, che si trovava una volta nelle filastrocche o nei riti magico religiosi. L’ossessione dei primi memers di rispettare la tradizione memetica ci ricorda la «corretta esecuzione dei rituali benefici» augurata da Leary, Metzinger e Alpert a chiunque volesse avvicinarsi a esperienze psichedeliche. Nel suo ingresso nel Rinascimento psichedelico la psichedelia si espone al rischio di essere inglobata nel mainstream e divorata da logiche commerciali di sfruttamento e estrazione di valore. Se intendiamo le sostanze psichedeliche come una tecnologia volta all’alterazione degli stati di coscienza, che ci permetta di connettere il nostro essere individuale con altre forme di vita, verso quel desiderio di auto-trascendenza che secondo Aldous Huxley ci ha sempre accompagnati, il pericolo è che la comunità psichedelica non riesca a trasmettere ai futuri utilizzatori di sostanze psicotrope questo tipo di obiettivo. Per questo, momenti rituali collettivi contemporanei come le performance techno-sciamaniche, i festival psytrance, i convegni psichedelici, potrebbero essere visti come una forma di difesa e resistenza, così come il recente Statement on Open Science for Psychedelic Medicines and Practices. Questa dichiarazione è stata promossa da Robert Jesse, figura chiave nella creazione del centro di ricerca sulla psilocibina per usi medici alla Johns Hopkins University, al fine di difendere principi di Open Science e di non interferenza dei brevetti commerciali nella ricerca, in uno scenario, quello della novella medicina psichedelica, che rischia di essere esposto a una sfacciata corsa al profitto. Nella società psichedelica resistere, come ci ricorda Erik Davis, significa tramandare le necessarie pratiche di «condivisione delle informazioni, rispetto reciproco», apertura verso prospettive non facilmente quantificabili o integrabili in un quadro riduzionista (come quelle magiche e spirituali), e «disprezzo per le regole istituzionali del capitalismo» che accompagnarono le iniziative di ricerca e sviluppo illegali e sotterranee della prima controcultura psichedelica.
Un tipo di resistenza che anche gli Internet meme hanno saputo sviluppare nel corso degli anni: come ci ricorda Whitey Phillips, i puristi sostengono che un meme può presentarsi sotto qualsiasi forma o formato, tra video, testo, immagine, brano musicale, purché sia passato attraverso un processo creativo collettivo. Le piccole unità di informazione che si ripetono nei feed come: «I did it for the lulz», «be a hero», «Hold on, I’m tripping balls», «Is this Loss?», o il più recente «It Is Wednesday My Dudes», sono le parole d’ordine usate da una comunità ristretta per ricordare la sua breve storia e per identificarsi in un ordine o in un caos comune. Limor Shifman è forse la prima a notare come il meme non debba essere considerato un’unità di informazione autonoma che si propaga nella rete seguendo un modello di diffusione «spaziale» e «virale», bensì appartenga al rango dei modelli rituali di comunicazione, in cui credenze condivise, contesto storico e comportamentale, senso di identità e appartenenza a una data comunità rivestono un ruolo fondamentale. I meme nascono come atti rituali compiuti da una comunità occulta, che si parla e si riconosce tramite delle parole magiche.
La memetica si evolve a grande velocità ed è per questo che potrebbe forse aiutarci a rispondere alla fatidica domanda: che succede quando una subcultura con aspetti magico-rituali fa il suo ingresso nel vasto mondo del mainstream? E forse anche a una seconda domanda, che gli Internet meme invocati stanno risvegliando nel testo, e che pronunciamo a voce alta con timore: possono i meme e la psichedelia essere considerate tecnologie che, attraverso esperienze collettive occulte, ci conducono a forme di estasi?
Proviamo a unire i puntini, nel tentativo di creare un pensiero allegorico o laterale (o forse dovremmo dire sinestetico), un pensiero che analizzando ciò che succede al meme possa aiutarci a sbrogliare i nodi che incombono sul destino del Rinascimento psichedelico. C’è una comunità, che si ritrovava prettamente su 4chan, 7chan, IRC, Something Awful, che dal 2008 al 2010-13 (è difficile determinare una data più precisa) ha creato e posseduto una tecnologia nuova, gli Internet meme. In quel momento gli Internet meme non erano soltanto contenuti autonomi, che viaggiano virali per il web, come ci dice Dawkins, bensì nascevano all’interno di quella comunità primigenia come un’idea («Epic Fail Guy»), un sentimento comune («I know that feel bro»), e talvolta addirittura come una missione («I did it for the lulz»). Più l’idea era condivisibile dalla comunità, più sarebbe sopravvissuta alle mutazioni. Al cospetto di alcuni Internet meme si ha talvolta l’impressione di essere innanzi a creature totemiche, esseri magici capaci di condensare altissime sedimentazioni di significato, allegorie create nel tempo da una fitta rete di contributi. Figure come Pepe the Frog, Wojak, Gondola, e i più recenti Doomer, Gloomer, Zoomer fungono da veicoli per narrazioni complesse, autonomamente generate dal subconscio collettivo degli utenti. Altre comunità memetiche, come il Subreddit r/surrealmemes, si avventurano nei luoghi inesplorati dello strano, ai confini della logica, facendo ancora una volta eco ai viaggi degli psiconauti, e portando indietro personaggi sottratti all’assoluto, come Meme Man. Il volto 3d di questa assurda mascotte rappresenta un’astrazione ideale, come si legge nei meme: «un’entità che risiede nel non spazio tra questo mondo e il mondo successivo», «un tramite attraverso il quale le anime torturate possono incanalare la loro rabbia e la loro miseria verso qualcosa di più», e vede la sua migliore interpretazione nel meta-meme «Succ», dove il raggiungimento di infiniti layers di ironia è presentato come la forma ultimativa di illuminazione.
Riguardo alla nascita dei primi meme possiamo riconoscere che pratiche rituali «intime» e al contempo collettive erano rese possibili su 4chan dall’aspetto truce dei contenuti e dal design a imbuto di una piattaforma. L’aspetto truce fungeva da barriera di protezione, tenendo fuori i «turisti», e la struttura a imbuto faceva in modo che i contenuti si diffondessero più velocemente tra molti più utenti perché, come avvertiva lo stesso moot, «tutti vedono tutto». Dal 2013 Zuckerberg impone al mercato dei social network un design organizzato per compartimenti stagni e bolle di filtraggio, trasformando i social network in social media. L’intimità e la collettività che avevano permesso la nascita dei riti memetici vengono perse, ma non del tutto. Questi tipi di pratiche sopravvivono in comunità intime come quelle dei gruppi, dei forum o dentro a enormi chat e canali che vanno a crearsi su piattaforme più recenti come Telegram o Discord. Il rituale memetico rimane evidente in episodi come i raid tra piattaforme o durante le cosiddette meme wars, in cui grandi numeri di utenti decidono di riunirsi consapevolmente in una comunità e nuovi Internet meme vengono prodotti appositamente per l’occasione, fungendo da arma nel corso dell’operazione e da testimonianza storica a operazione conclusa. Vediamo alcuni esempi in cui «i cervelli», come li chiamava spensieratamente Dawkins, nel bene o nel male sono riusciti a unirsi dando vita all’ecosistema profetizzato da McKenna.
Nel 2008, durante l’operazione che prese il nome di «Operation Bill Haz Cheezburgers», gli anons (da anonymous, «utente anonimo», il nome che risulta in automatico su 4chan per tutti i post non firmati) difendevano la loro casa madre /b/ (la prima e più frequentata bacheca di 4chan, a tema random) contro Fox News, intasando la mail di Bill O’Reilly (uno degli anchorman di punta del canale) con meme di coniglietti, anatre e gatti, accompagnati dalla didascalia «The Internet Love Machine», in contrapposizione al servizio di Fox News che aveva descritto Anonymous come una «Internet Hate Machine» in seguito all’attacco all’account Yahoo di Sarah Palin.
si potrebbe dire che l’Internet meme sia nato come una tecnologia di guerriglia mediatica, di propaganda, ma si potrebbe anche dire che praticare la memetica nel senso proprio del termine significhi compiere un rituale magico collettivo
Nel 2014 utenti identificati dagli anon come social justice warriors, ma anche numerosi appartenenti alle comunità LGBTQ, antifa e antirazziste formatesi su Tumblr, invadevano le bacheche di 4chan con immagini informative che denunciavano il razzismo e la misoginia professati degli utenti di 4chan, più volte accusati di inscenare, consciamente o inconsciamente, l’archetipo del maschio bianco (generalmente etero). 4chan rispondeva invadendo Tumblr con meme e cursed images, «immagini maledette», vale a dire scioccanti e gore, e Tumblr rispondeva a sua volta con immagini cute e wholesome (così è chiamato tra i memers un contenuto che stupisce perché è inaspettatamente simpatico, piacevole ed eticamente corretto).
Nel 2019 il weird facebook e numerosi utenti provenienti da Snapchat, TikTok e Reddit minacciavano il governo degli Stati Uniti d’America di invadere in massa l’Area 51 per «salvare E.T.» dalla prigionia, producendo in soli 4 giorni una dose così spropositata di meme da far impennare le ricerche per «Area 51» non solo su Google, ma anche sul sito web PornHub, da zero a 160.000, incrementando l’interesse per la pornografia aliena del 217%, oltre a portare qualche centinaio di Naruto runners nel deserto del Nevada.
Queste storie ci raccontano come gli Internet meme conservino, fin dalla loro nascita, la capacità di «far accadere le cose»: si potrebbe dire che l’Internet meme sia nato come una tecnologia di guerriglia mediatica, di propaganda, ma si potrebbe anche dire che praticare la memetica nel senso proprio del termine significhi compiere un rituale magico collettivo, che a seconda degli obiettivi della comunità che la mette a punto potrebbe portarci all’estasi – intesa come il raggiungimento di forme di coscienza collettive e postumane – come alla distruzione.
Richard Schechner, uno dei fondatori dei Performance Studies, ci parla dei rituali in quanto ricordi collettivi codificati in azioni e pratiche. Rituali come le iniziazioni, i matrimoni, i funerali, ci aiutano a affrontare crisi e momenti di passaggio, ascensione o discesa ad altri stati di coscienza. Pratiche come il teatro, il gioco, o la vita online, conservano la simile capacità di farci vivere in una seconda realtà, da Le Baccanti di Euripide a Second Life di Linden Lab. Nel primo caso la catarsi è considerata permanente, nel secondo si tratta di una transizione temporanea. Nel caso dei meme – e forse potremmo dire lo stesso dei festival di psytrance, oggi la più diffusa versione di rituale lisergico collettivo – azioni e finzioni si fondono e si confondono, lasciando all’utente l’impressione di aver preso parte, per scherzo, a una performance collettiva e allo stesso tempo di aver partecipato a un rito iniziatico.
Sia Erik Davis che Gabriella Coleman, nel tentativo di spiegarsi da un lato i segreti che albergano dietro al termine-ombrello high weirdness, dall’altro il confuso orientamento ideologico dei processi memetici collettivi, chiamano in aiuto la figura folkloristica del trickster, un mago scherzoso capace di applicare sulla realtà una sospensione momentanea, una parentesi di indeterminatezza che ci permetta di scorgere per un attimo i misteri che si celano al di là del velo: «dobbiamo dare a questi enigmi uno spazio per respirare e per esistere», ci dice Davis.
Ma, come avvisava Huxley, esistono «una trascendenza salutare e una trascendenza tossica» e l’indeterminatezza talvolta porta con sé anche enormi pericoli. Nel caso degli Internet meme troviamo un esempio nell’oscuro culto di Kek, il dio egizio considerato l’antico avatar di Pepe the Frog (il reaction meme più famoso di sempre), protagonista di coincidenze magiche e pareidolie, rinvenute o per meglio dire forse inventate, tra il 2015 e il 2016, da alcuni frequentatori di bacheche come /his/, /pol/, / r9k/ (4chan), o di subreddit come r/The_Donald, il covo per eccellenza dei sostenitori di Donald Trump, per poi dilagare nella zona alt-right di YouTube. Lo stato del Kekistan è una sorta di allegoria memetica, uno stato ideale composto da utenti che producono in massa immagini vernacolari, video e Internet meme al fine di contrastare media e partiti liberali. Come fa notare Gary Lachman, il pensiero positivo di cui Trump è seguace, la filosofia fondativa della chaos magick e quella che nel vernacolo del web è chiamata meme magic hanno in comune il fatto di avere «a cuore i risultati, il “far accadere le cose”». Gli ingredienti necessari al funzionamento di questo tipo di pratiche sono proprio l’indeterminatezza e il caos: per piegare il mondo alla sua volontà il mago, lo stregone, il memer, deve possedere «una visione flessibile della “verità” e della “realtà”». Curioso osservare come i casi di «trascendenza tossica» o tendenziosa si rivelino oggi estremamente contagiosi anche tra bolle appartenenti alla tradizione New Age, basti pensare al celebre caso del Pizzagate e alle narrazioni a metà tra propaganda e complotto che caratterizzano il culto di Qanon.
In quest’ottica, la storia di Fredrick Brennan, raccontata da lui stesso in un’intervista per Vice News nel 2019, assume un significato allegorico che supera di gran lunga quello partorito dall’accozzaglia di favole occulte che compongono il credo di Kek. Brennan racconta delle avventure che lo hanno portato a creare la board 8chan, oggi covo di suprematisti bianchi, neonazisti, hater, e segnata da episodi che legano alcune delle sue bacheche ai massacri di Christchurch, Poway ed el Paso. Brennan, affetto da osteogenesi imperfetta, una patologia che rende le sue ossa deboli quanto bicchieri di cristallo, racconta dal suo morbido letto come nel 2013, all’età di diciassette anni, vivendo la sua vita sociale quasi esclusivamente sul web, si fosse avvicinato a una comunità di uomini vergini che si autodefinivano «redpillati» (cioè che hanno preso la pillola rossa di Matrix, scoprendo una presunta «verità nascosta» al di là del sonnambulismo indotto dalla società liberale tradizionale e dalla cultura mainstream), quelli che successivamente si sarebbero fatti chiamare «incel» (involuntary celibate, «celibi involontari»). Il fondatore di 8chan ha così iniziato a frequentare la imageboard Wizardchan, un forum che descrive come «il posto peggiore in cui un uomo può andare per la sua salute mentale». In un misto di misoginia e autocommiserazione, la filosofia incel sostiene che le donne sono interessate solo a aspetto fisico, ricchezza e status, rendendo i forum di redpillati un luogo dove giovani uomini che si autodefiniscono generalmente cisgender o asessuati si autoconvincono che non vivranno mai dei rapporti intimi con l’altro sesso. Così Brennan racconta di aver scelto di esplicitare la sua disabilità e di brandirla come prova della sua «naturale» fedeltà all’inceldom al fine di essere eletto «Permanent Wizard», ovvero amministratore supremo di Wizardchan. Ma poco dopo una donna lo contatta, presentandosi come una feticista di disabili. Durante il loro primo incontro lui perde la verginità, un «rituale di passaggio» che porta Brennan a essere cacciato da Wizardchan: è costretto a cedere il sito, nel plateale disprezzo della sua comunità, a un successore. E qui viene il bello: questa donna, che nella storia illustrata da Vice assume le forme di una misteriosa maga, conduce Brennan al secondo rituale di passaggio, inducendolo con le sue arti persuasive, come lui stesso candidamente racconta, a provare dei funghi allucinogeni. Durante il trip Brennan concepisce l’idea di creare 8chan, anche detto Infinite chan, una imageboard libera da ogni forma di censura e controllo. Registra il dominio quando è ancora sotto l’effetto del fungo per lanciare online il sito solo due giorni dopo, all’età di 19 anni. Siamo nel 2014. Purtroppo Infinite chan si trasformerà in pochi anni in quello che sarebbe forse più giusto chiamare «hate» chan, raggiungendo i grandi numeri durante il Gamergate, e raddoppiandoli durante la cosiddetta Grande Guerra dei Meme. Brennan si dimetterà ufficialmente dal ruolo di admin e proprietario nel 2016, dichiarando sul suo medium che la piattaforma «non era più l’8chan che volevo che fosse quando l’ho avviato».
La gestione della libertà di parola e azione è uno dei temi oggi più dibattuti in rete.
È facile notare una sorta di alleanza tra zone mainstream del web e piattaforme Social commerciali che prediligono il ban, la censura, il deplatforming, l’oscuramento dei post, al fine di creare zone di conforto dove l’utente possa consumare e produrre indisturbato, tra foto di cibo, gattini e tramonti. Le zone franche, ovvero le piattaforme che non applicano questo tipo di censura e controllo, con pratiche di moderazione blanda o assente, come Telegram, Discord, 4chan e le altre imageboard, sono spesso accusate dai media liberali di essere dei covi per gli esponenti di estrema destra, haters e suprematisti bianchi, ma al loro interno ospitano tanti altri tipi di comunità radicali o amanti della privacy. Per tornare al nostro pensiero sinestetico, il dibattito ban vs. moderazione ci ricorda quello proibizionismo vs. riduzione del danno. E la via d’uscita rimane a nostro parere la costruzione di una comunità consapevole: la comunità psichedelica e artistica invocata da McKenna durante il già citato discorso Opening the Doors of Creativity, che avrebbe dovuto occuparsi di difendere i meme da pericolose mutazioni e mis-letture, è tuttora chiamata in causa (citando McKenna: «C’è l’obbligo per ognuno di noi di esporre chiaramente le proprie idee. Ciò che i nazisti fecero alla filosofia di Frederick Nietzsche fu la creazione di un meme improprio [che] divenne una mutazione tossica all’interno di una cultura») e vede il suo corrispettivo in fenomeni come il BreadTube, o in attività collettive di riappropriazione di spazi digitali, piattaforme e narrazioni memetiche, quali quelle che noi stessi amiamo portare avanti insieme al collettivo Clusterduck. Che il rito magico ci porti all’estasi o alla distruzione rimane una responsabilità della comunità, che si tratti di memetica o di psichedelia.