ANNA ENGELHARDT, HARDWIRED OBSOLESCENCE OF RUSSIAN COLONIALISM

Obsolescenza del colonialismo russo

I limiti intrinseci della guerra coloniale come meccanismo tecnologico

«In Cecenia, l’unico posto che è nostro è dove stanno le nostre truppe; le truppe si spostano e questo posto finisce immediatamente nelle mani degli insorti». Questo è quanto riferì un giornalista russo del “Bollettino di Mosca” dal fronte della guerra d’invasione russa del Caucaso. Durata più di 63 anni (1800-63), questa guerra fu solo una delle miriadi di conquiste coloniali che formarono quella che oggi conosciamo come la Federazione Russa. La sua “sovranità e integrità”, i due principi più fermamente protetti dal diritto penale russo, sono un’unità altamente instabile di territori colonizzati.

Questa fragile unità territoriale conosciuta come la Russia è stata assicurata da infinite guerre di conquista condotte nel corso dei secoli. La loro meccanica ripetitività è avvilente. In cosa si può ancora sperare oggi se la Russia ha annesso la penisola di Crimea almeno quattro volte nel corso della sua storia? Cosa si nasconde dietro quei quattro genocidi di indigeni tartari di Crimea, il primo risalente al 1783 e l’ultimo in corso dal 2014? La terribile frequenza di tali invasioni, sebbene abbiano successo singolarmente, rivelano l’incapacità di spezzare la resistenza decoloniale e garantire l'”integrità” desiderata. Riformulando la citazione iniziale, si potrebbe quindi affermare che l’unico posto che è Russia è dove stanno le sue truppe.

La natura ricorsiva delle guerre coloniali condotte dalla Russia le rende trasparenti come il vetro, mostrando la loro struttura immanente. Una delle caratteristiche di questa struttura è la complessiva precarietà del controllo che garantisce. Non importa quanto efferate siano le invasioni russe, il loro potere si frantuma regolarmente sotto la violenta pressione anticoloniale. La fragilità del colonialismo russo, simile a quella del vetro sottile e tagliente, non lo rende però meno dannoso. Esso infatti è capace di infliggere dolorose ferite proprio a causa della fragilità della sua struttura. I suoi frammenti taglienti sporgono dalla lunga serie di invasioni, occupazioni e stermini inflitti ai popoli e alle nazioni che il colonialismo russo non è mai riuscito a sottomettere completamente. 

Per questo motivo la conquista coloniale russa non raggiunge mai il suo termine ultimo. Neanche lo shock epocale causato dal crollo dell’Unione Sovietica ha fermato i tentativi russi di riempire le lacune create nella sua “integrità” con i corpi di coloro che hanno osato resistere al suo imperialismo. Dal 1991 al 1993, sebbene allo sbando, il governo di Mosca ha comunque proseguito il suo impegno militare nella guerra civile in Georgia, inviando le proprie forze militari a sganciare bombe termobariche sulle aree residenziali delle città georgiane. Dal 1994 al 1996, mentre cominciava a strutturare in maniera abbastanza incerta la sua nuova forma statale, la Russia si era già impegnata in operazioni militari in Ichkeria, conosciuta oggi come Cecenia. E nonostante, nel 1996, l’esercito russo fosse stato distrutto dalla resistenza cecena, nel 1997, il governo russo trovò comunque il modo di racimolare qualche truppa per annientare le forze di opposizione che lottavano per la democrazia in Tagikistan. E l’elenco potrebbe continuare.

La struttura delle guerre russe è quindi chiara, ma di cosa si tratta esattamente? Come analizzato nel 1988 dallo storico ceceno Abdurkhman Avtorkhanov, sia l’impero russo che quello sovietico non hanno mai ufficialmente combattuto “una guerra coloniale”, ma sono sempre e soltanto stati impegnati ad “adempiere a un dovere internazionale”, “difendersi” o “proteggere i propri confini”. La riluttanza a chiamare la guerra con il proprio nome emerge anche dalla recente analisi dell’attivista ceceno per i diritti umani Abubakar Yangulbaev.

Confrontando l’invasione russa della Cecenia con quella dell’Ucraina, egli sottolinea anche il crescente risentimento per la supremazia russa, il numero sempre maggiore di uccisioni di massa di civili, la natura obsoleta dei sistemi di guerra impiegati, la mancanza di competenze adeguate nello svolgimento delle operazioni militari, l’intenzione di insediare governi fantoccio e l’uso dei colloqui di pace come un modo per sviare l’attenzione dagli eventi in corso. Queste sarebbero le componenti fondamentali che costituiscono il progetto coloniale russo, che, nonostante la sua complessità, si presenta come un progetto unitario. Poiché fanno parte tutti della stessa componente strutturale della guerra coloniale, questi elementi sono strettamente connessi tra loro. Concentrandoci poi sul rapporto tra i due aspetti principali del colonialismo russo, ovvero la riluttanza a chiamare la guerra con il suo nome e l’inadeguatezza delle armi utilizzate dall’esercito russo, possiamo adesso analizzare questo terribile meccanismo.

Il concetto stesso di guerra non è mai utilizzato al di fuori dei conflitti tra stati imperiali. Per il potere imperiale sarebbe infatti offensivo chiamare “guerra” ciò che dal suo punto di vista è una banale invasione, poiché ciò significherebbe considerare il nemico al proprio stesso livello. 

Numerose sono le ragioni per cui le guerre coloniali russe vengono chiamate diversamente da quello che effettivamente sono. Come messo in evidenza sia Avtorkhanov che Yangulbaev, il non chiamare la guerra con il suo nome permette di attribuire connotazioni positive a effettivi spargimenti di sangue. Termini quali “operazioni”, “attività” e “doveri” sarebbero infatti esenti dalle dinamiche di guerra.

Ma come evidenzia lo storico della guerra postcoloniale Tarak Barkawi, ciò che viene raramente notato è che il concetto stesso di guerra non è mai utilizzato al di fuori dei conflitti tra stati imperiali. Per il potere imperiale sarebbe infatti offensivo chiamare “guerra” ciò che dal suo punto di vista è una banale invasione, poiché ciò significherebbe considerare il nemico al proprio stesso livello. La “guerra” è infatti riservata a coloro che sono percepiti come potenze imperiali simili. Pertanto, solitamente, al termine “guerra” vengono associati termini che ne diminuiscono la reale portata – piccola guerra, conflitto a bassa intensità – oppure vengono utilizzati termini che implicano una scala ridotta rispetto a ciò che essi identificano – operazione, attività.

Tuttavia, non solo i termini propri della guerra, ma le stesse capacità militari sono riservate ai conflitti interimperiali. Dalla fine della seconda guerra mondiale, l’esercito sovietico, e poi quello russo, si sono costantemente preparati a combattere una sola guerra, ovvero la guerra contro l’Occidente, lavorando instancabilmente al miglioramento dei mezzi per scontrarsi con un’altra potenza nucleare. Le rappresentazioni riduttive delle guerre coloniali determinano quindi l’inadeguatezza degli armamenti sviluppati e impiegati per combatterle. Come ricordano i soldati russi stanziati Afghanistan, i veicoli in dotazione sarebbero stati una tecnologia all’avanguardia nel panorama post-apocalittico di una guerra nucleare, ma erano praticamente inutili in quelle che ufficialmente venivano chiamate “attività”, intraprese dall’esercito sovietico contro la resistenza afghana.

L’unico nemico degno di una effettiva preparazione militare è quindi un altro impero. Poiché il colonialismo russo considera inferiori coloro che intende colonizzare, le sue forze armate si dimostrano costantemente disfunzionali in combattimento, subendo continue ristrutturazioni durante la guerra. In seguito alle continue e devastanti perdite di truppe sul campo, si verificano regolarmente quelle che vengono chiamate “rivoluzioni negli affari militari” all’interno dell’esercito russo. Le idee sulla supremazia tecnologica russa sono tanto distaccate dalla realtà quanto quelle sulla supremazia della razza. E queste due concezioni sono profondamente interconnesse. 

La nozione di superiorità in guerra è implicita in una più ampia mentalità coloniale, composta di vari concetti di superiorità che si sovrappongono e informano a vicenda. L’esercito russo ha impiegato sistematicamente i media nazionali per ridicolizzare la guerra “esotica”, “antica” o “stravagante” delle Unità di Protezione Popolare curde (YPG) e dell’opposizione anti-Assad nel conflitto siriano. Nonostante i continui progressi militari dei popoli che mira a colonizzare, l’impero russo deve sostenere la narrativa della loro inferiorità tecnologica. Il paradigma coloniale non può ammettere che la resistenza anticoloniale sia in grado sconfiggere la forza coloniale grazie ad una superiorità tecnologica.

Kim Ati Wagner, storico delle guerre coloniali britanniche, analizza nel suo lavoro come le sconfitte inflitte alle truppe coloniali dalle forze di resistenza vengano solitamente spiegate mediante il “fanatismo” dei “guerrieri selvaggi” che compensa “l’inferiorità dei loro armamenti”. L’inefficacia delle tecnologie militari imperiali è quindi attribuita alla natura razzializzata del nemico piuttosto che alle tecnologie stesse.

Le forze della resistenza hanno spesso accesso ad armamenti tecnologicamente avanzati, che sono più adatti al campo di battaglia rispetto a quelli russi. Acquistati dal Nord del mondo, donati da gruppi politici e militari solidali con la loro lotta o fabbricati dalle stesse forze di resistenza, questi armamenti continuano a creare gravi problemi ai soldati russi fin dall’invasione dell’Afghanistan. Un caso esemplare sono i droni che sorvolavano le basi militari russe in Siria nel 2018 e 2019. I droni killer lanciati dalla provincia di Idlib, controllata dall’opposizione siriana, destabilizzarono fortemente le forze militari russe. A seguito delle forti perdite causate dai droni siriani, il viceministro della difesa russo affermò che “solo un paese tecnologicamente avanzato può avere accesso a tali strumenti, non possono certo essere fabbricati nel deserto siriano”. Tuttavia, quei droni venivano effettivamente fabbricati in Siria, con lo scopo di compiere ricognizioni e bombardare le forze russe e di Assad.

Speculando sul coinvolgimento del Nord del mondo, il presidente russo Vladimir Putin affermò che quei droni erano stati fabbricati in modo da nascondere la loro natura high-tech. La risposta russa a questi attacchi di droni, quindi, non è contrastare la funzionalità letale della tecnologia adoperata dalle forze di resistenza, ma tentare di scoprire ciò che esse nasconderebbero. Infatti, l’aspetto che viene più radicalmente ristrutturato nelle rivoluzioni militari discusse in precedenza è proprio quello delle tecnologie di intelligence, nonostante siano le meno annunciate pubblicamente. Queste hanno la priorità poiché il mistero dell’Altro immaginario si ritorce contro le stesse forze d’invasione nel corso della conquista coloniale. Per questo motivo, dare un senso agli stereotipi coloniali creati dagli stessi russi diviene un compito praticamente impossibile.

Ciò che impedisce al ministro della difesa russo di accettare l’esistenza di droni di produzione siriana è l’ignoranza che fa da principio cardine alle campagne coloniali. Non ci sono mai abbastanza traduttori disponibili, le mappe sono obsolete e la conoscenza di coloro che dovrebbero essere pacificati è basata su frammenti di intelligence parziali. Sistemi tecnologici per l’estrazione di informazioni vengono sviluppati per superare tale ignoranza.

Tuttavia, le forze della resistenza sfruttano proprio tale dipendenza dalle armi informatiche, utilizzando strategicamente tecnologie di comunicazione “obsolete” al di fuori del loro raggio d’azione, come connessioni cablate o messaggeri. I guerriglieri sono pienamente consapevoli che qualsiasi sistema di sorveglianza tecnologica, sebbene avanzato, può funzionare efficacemente solo se adoperato da persone che abbiano almeno un’idea della loro lingua e cultura, e solitamente hanno ragione nel credere che il personale militare provvisto di queste conoscenze sia scarso. 

I ceceni passavano dal russo al ceceno nelle loro comunicazioni radio durante l’invasione russa, e ciò bastava come efficace sistema di codificazione delle proprie informazioni. I soldati dell’intelligence russa che presero parte all’invasione dell’Ichkeria hanno avuto modo di confermare di non aver mai fatto alcun progresso nell’apprendimento della lingua cecena, poiché non gli è mai stato ordinato. Al contrario, i combattenti ceceni, comprendevano appieno la cultura russa, che era stata loro imposta con la forza, e avevano spesso una conoscenza specifica anche dei punti deboli dei carri armati e veicoli militari russi. Inoltre, una parte significativa delle forze militari impegnate nell’invasione dell’Afghanistan era composta proprio da soldati ceceni, che quindi avevano avuto modo di apprendere sul campo le lacune dell’equipaggiamento militare russo.

Le forze di resistenza tendono a servirsi di questa asimmetria di informazione come un’arma tattica. Infatti, i tentativi delle forze coloniali di rimediare alle proprie mancanze nella raccolta di informazioni, procurandosi strumenti tecnologici sempre più progrediti, non si sono mai convertiti in un controllo più efficiente. Semmai, essi hanno rafforzato la loro illusione di superiorità piuttosto che la loro effettiva capacità militare.

Questo aspetto è sempre stato di dominio pubblico per tutti coloro che hanno resistito alle invasioni russe. Come testimoniato in un rapporto militare russo: «i ceceni avevano un vantaggio indiscutibile: conoscevano la lingua russa e potevano usarla per disinformarci, ma noi non potevamo fare altrimenti perché loro comunicavano in ceceno». Per “disinformazione” s’intende che i ceceni, chiamati “aborigeni” dai soldati russi, hackeravano le loro comunicazioni radio per fornire false coordinate di fuoco, ordinando alle truppe russe di spararsi a vicenda. Protetti dall’incapacità dei soldati russi di immaginare hacker ceceni, questi potevano operare passando completamente inosservati. 

Oggi, le truppe russe stanno bombardando le proprie posizioni in Ucraina seguendo gli ordini di hacker ucraini che interferiscono nelle loro reti di comunicazione. Costantemente intercettati, i soldati russi sono costretti ad ascoltare falsi ordini, inni e ossessionanti bambini robotici che, con voci autogenerate trasmesse via radio, continuamente si rivolgono agli invasori: «Soldati Ruuussi… tornate indietro… Credeeete davvero… che tutto questo ha senso? Questa non è… la vostra guerra».

Traduzione dall’inglese da Felice Moramarco.
Il video completo di HARDWIRED OBSOLESCENCE OF RUSSIAN COLONIALISM è qui: