Non siamo mai stati post-internet
Da qualche anno a questa parte, molte pratiche artistiche che prevedono l’impiego di tecnologie digitali, che si relazionano metaforicamente ai formati e processi della contemporaneità iperconnessa, o che implicano una riflessione sulle condizioni dell’esistenza umana nel contesto tecno-politico del mercato globale, si trovano di fronte a una duplice possibilità: in caso di ricezione positiva, il lavoro verrà descritto nella sua complessità, senza troppe sostanziali differenze rispetto all’analisi di una qualsiasi altra pratica artistica; in caso di ricezione negativa, il lavoro verrà frettolosamente etichettato sotto una delle categorie più fumose e abusate dell’ultima decade: «post-internet».
Forte della sua vaghezza semantica, che lo ha sempre reso facile vittima di generalizzazioni, il cosiddetto post-internet è diventato rapidamente uno di quei fenomeni che il mondo dell’arte ama odiare. Nonostante il termine sia stato inizialmente coniato dall’artista e critica Marisa Olson per descrivere la pratica sua e della comunità «pro-surfer», sempre più raramente capita di trovare un artista pronto a dichiarare l’appartenenza della sua ricerca a tale categoria, e altrettanto raramente si sente usare il termine da terzi per descrivere entusiasticamente un progetto o un lavoro. Da neologismo proposto nel tentativo di descrivere la complessità di «un momento, una condizione, una proprietà e una qualità che comprende e trascende il contesto dei nuovi media» (Olson, 2006), il concetto di post-internet è stato progressivamente declassato all’altezza di un qualunque aggettivo con sfumatura dispregiativa da usare alle inaugurazioni, di solito in assenza di altri argomenti.
Nel maggio 2014 «non avere idea di cosa significa post-internet» era uno dei temi segnalati come «holding steady» nell’editoriale What’s Hot What’s Not di Frieze magazine, superato ovviamente da «the post-internet backlash», indicato a pieno titolo sotto la lista «hot». Oggi, specialmente dopo The Present in Drag, la nona Biennale di Berlino, curata nel 2016 dal collettivo DIS, a un divertito scetticismo verso la popolarità del termine è subentrata un’intima e generalizzata insofferenza verso il suo uso: l’impiego della parola «post-internet» sembra ormai essere consentito solo se accompagnato da una ironica roteazione degli occhi, ad indicare saturazione e paternalistica tenerezza verso una categoria così ignara dell’imminente progresso della storia da suonare nostalgica se non addirittura anacronistica.
A circa dieci anni dalla prima volta in cui il termine è stato utilizzato – e di fronte alla sua apparentemente inesorabile corsa all’obsolescenza – vale quindi la pena abbozzare una breve storia della confusa parabola post-internet, identificando alcune chiavi di lettura che possano attraversare il fenomeno senza esaurirlo. Più con interesse antropologico che con intento filologico, ritengo che la domanda più coerente da porsi non sia tanto cosa abbia reso il post-internet popolare, ma piuttosto cosa abbia reso odiare il post-internet così popolare. La mia analisi prenderà perciò spunto da alcune delle critiche più emblematiche che sono state scagliate contro alla categoria negli ultimi anni.
Da condizione a stile
Nei primi dieci anni del Duemila i nuovi media cominciarono a penetrare la quotidianità, uscendo dal circoscritto spazio dello schermo e facendo della vecchia categoria di «Net Art» una definizione troppo stretta per descrivere artisti che tentavano di rendere visibili processi socioculturali ormai irriducibili al contesto espositivo del computer. Il prefisso «post-» in «post-internet» stava a significare «dopo», ma anche «oltre», «derivante da»: dichiarava appartenenza a, e allo stesso tempo superamento del concetto di internet, affermando la presa di consapevolezza di una serie di protocolli, approcci e pratiche ormai così pervasive da diventare ineludibili, online come offline. Secondo Louise Doulas, «post-internet potrebbe venire semplicemente compreso come un termine che rappresenta la digitalizzazione e decentralizzazione di tutta l’arte contemporanea attraverso internet» (2011).
La convinzione che nella società contemporanea quasi tutte le esperienze tradizionali dell’arte fossero mediate da internet, a prescindere dalle reali intenzioni dell’artista, è stato uno dei capisaldi del rifiuto della definizione di post-internet come movimento, e ha contribuito al successo del proclamato statuto di «condizione post-internet». Il termine «condizione», chiara eco al precedente de La Condizione Postmoderna (1979) di Lyotard, aveva il duplice vantaggio di descrivere l’introduzione di internet come una soglia evoluzionistica inevitabile, dichiarando (in una definizione di Stefan Heidenreich) «Sì, siamo digitali, ma non è importante, perché tutti sono digitali ora», e sottolineando allo stesso tempo l’interesse degli artisti post-internet al più ampio contesto in cui la produzione artistica si collocava. In una descrizione abbastanza esaustiva di James Bridle del 2013: «è impossibile per me non guardare a queste immagini e immediatamente iniziare a pensare non a come sembrano, ma a come sono arrivate ad essere quello che sono e a cosa possono diventare: i processi di produzione, archivio e distribuzione, le azioni di filtri, codec, algoritmi, database, protocolli di trasferimento, il peso di centri di accumulazione di dati, di server, satelliti, cavi, router, switch, modem, le infrastrutture fisiche e virtuali e le mancanze e articolazioni delle disposizioni e intenti iscritti in tutte queste cose, e la nostra comprensione di esse».
La riflessione su processi come lo sviluppo dell’attenzione come merce di scambio, la sorveglianza di massa, il collasso dello spazio fisico nella cultura della rete, la riproducibilità e mutabilità dei materiali digitali, il concetto di «open source» e di autorialità espansa, erano nodi tematici strettamente legati al post-internet degli albori, che finì per comprendere un numero sempre crescente di ricerche diverse, fino a diventare un termine così vasto da perdere di vista cosa queste ricerche avevano in comune. La diluizione del «post-internet» nella pervasività capillare dei procedimenti a cui si relazionava, causò la progressiva perdita di senso dell’uso del termine per definire pratiche vicine ma non riducibili alla contemporaneità post-digitale: si pensi alla complessità del lavoro di artisti che prima o dopo nella loro carriera sono stati associati alla categoria, come Mark Leckey, Hito Steyerl, Frances Stark, Pierre Huyghe, Ed Atkins, Metahaven, Pamela Rosenkranz, Camille Henrot (ecc…)
Viene spontaneo chiedersi se questo suicidio per «eccesso di mondo» (per fare eco al celebre saggio di Steyerl Too Much World: Is the Internet Dead? del 2013) non fosse l’intimo significato e fine ultimo della definizione di «post-internet» fin dall’inizio, coerentemente con la dichiarazione di Geert Lovink «la sfida di domani non sarà l’onnipresenza di internet, ma la sua invisibilità» (2016). Ciò che forse non era stato previsto dai primi promotori della categoria, è tuttavia che il vuoto ontologico lasciato del termine ha fatto spazio da un lato alla sua facile strumentalizzazione post-mortem da parte del mercato globale, e dall’altro alla sua riduzione a una categoria puramente formale, segnando la transizione da concetto ad aggettivo, da epoca a tendenza, da condizione a stile. Come sintetizzato dall’intervento di Philipp Ekardt durante il simposio Lunch Bytes alla Haus der Kulturen der Welt (Berlino, 2015) «Forse sarebbe più produttivo riferirsi al post-internet come ad uno stile piuttosto che una “condizione”: una combinazione di valuta warholiana (appropriazione, svalutazione, iconofilia) con temi e tropi simbolisti (liquidità, iper-umanizzazione della natura, noia esistenziale, esoterismo, disaffezione). Piuttosto che il momento inaugurale del Terzo Millennio, il post-internet potrebbe venire interpretato come il capitolo di chiusura dell’arte del XX Secolo».
Un segnaposto perduto per una comunità che non esiste più
La lettura delle sofferte sorti del post-internet come una parola che, abbandonata a se stessa, è finita preda di un’appropriazione indebita da parte di giovani artisti assetati di autopromozione e dei diabolici attori del neoliberismo globale è certamente semplicistica e romanzata: il processo è stato graduale e si è sviluppato in modo tentacolare, con eccezioni alla regola e sviluppi locali specifici. Tuttavia, nel catalogo Art post-internet. INFORMATION / DATA (2014), Ben Vickers afferma, in modo rivelatore, «descriverei il “post-internet” come un segnaposto perduto per una comunità che non esiste più, sfaldata a causa di opportunisti e di generale mancanza di fiducia, ma che serve come un conveniente termine di marketing per venditori e giovani curatori che vogliono stabilirsi sul primo gradino della scala del complesso arte-industria». Post-internet era insomma un corpo che poteva morire con stile, e che invece si è trascinato stanco in una sua versione zombie, distorta e in decomposizione, fino ad oggi.
Non è casuale che l’evoluzione del termine sia strettamente legata a uno svuotamento ontologico. Il processo che la categoria ha subito negli ultimi dieci anni potrebbe venire paragonato al passaggio da denaro a speculazione finanziaria, alla capacità di generare valore dal nulla a partire da investimento sociale e desiderio. Stefan Heidenreich ha tentato di descrivere questo passaggio nell’emergere emblematico di una categoria di lavori post-internet che si allontana dalle più tradizionali pratiche «derivate» direttamente da internet – quelle che comprendono la produzione possibile ma non necessaria di oggetti materiali come risultato, restando interessate ai processi digitali come principale fulcro del lavoro (Oliver Laric, LuckyPDF). La categoria di lavori post-internet descritta da Heidenreich vede la produzione di convenzionali opere d’arte da galleria, che si relazionano tematicamente al mondo del web e non avrebbero senso senza di esso, ma che hanno tuttavia una vita materiale indipendente da esso (Katja Novitskova, Simon Denny).
«La svolta presa dal post-internet, dalla sua iniziale preferenza dalle pratiche “derivate” da internet al suo più recente output composto di metaforiche appropriazioni, è un esempio e una riflessione che gli imperativi del mercato stanno forzando sulla produzione artistica. Nel corso di meno di cinque anni, un movimento artistico che era cresciuto dalla rete e dal riconoscimento mutuale con i social media è stato trasformato in una macchina per la produzione di marche, che offre liquidità per la speculazione» (Freeportism as Style and Ideology, 2016). È un passaggio non troppo dissimile all’evoluzione di internet stesso, da utopica forma pura e totalmente aperta di ipertesto a sistema altamente controllato da grandi aziende, mosso dal fantasma del capitalismo cognitivo e dipendente da algoritmi iperproduttivi.
Il post-internet fa all’arte quello che la pornografia fa al sesso
«Non usate internet come un fottuto condimento», si lamentava l’artista Constand Dullaart all’Art Dubai Global Art Forum del 2012, sintetizzando bene la strategia di un certo numero di artisti suoi contemporanei che hanno approfittato del declassamento del post-internet a pura categoria formale per rendere il proprio lavoro più interessante e appetibile alle urgenze del mercato. Superfici lucide e patinate; prodotti di consumo inseriti come readymade all’interno del lavoro, specialmente quando relativi alla cura del corpo (artista donna) o all’industria automobilistica (artista uomo); video con voce fuoricampo meccanica in stile Siri; abuso di elaborazioni grafiche come pixel, timbro clone e fluidifica in Photoshop, filtri di Instagram, multischermi di After Effects; scenari desunti da un certo filone dell’estetica corporativa, dalla pubblicità, dalla fantascienza anni Ottanta; inserimento di typeface popolari nella cultura net anni Novanta; riferimento all’intelligenza artificiale in termini ironici, postumani, legati all’antropocene e/o all’accelerazionismo; animazione 3D volutamente di bassa qualità; immagini prese da stock online, specialmente se con il marchio dello stock ancora visibile sull’immagine e specialmente se l’immagine comprende una spiaggia con palma; saturazione di riferimenti a gattini, glitter, meme, cultura dei videogiochi.
Pur essendo tutti legittimi ambiti di ricerca artistica e culturale, questi sono solo alcuni degli stilemi che possono venire facilmente appropriati dall’artista contemporaneo per conferire rapidamente al proprio lavoro una patina post-internet. Come affermava Brian Droitcour nel celebre post sul suo blog Why I Hate Post-Internet Art (2014) «L’arte post-internet fa all’arte quello che la pornografia fa al sesso – la rende lurida. […] Post-internet è creare oggetti che stanno bene online: fotografati sotto un’illuminazione brillante nel white cube purificante della galleria (un doppio dello spazio bianco della finestra del browser che ne supporta la documentazione), filtrati da un contrasto alto e colori iper-saturati […] L’oggetto artistico post-internet sta bene in un browser esattamente come il detersivo per la lavatrice sta bene in una pubblicità. Così come il detersivo non appare tanto eccezionale in una lavanderia a gettoni, così la post internet art non scintilla in una galleria. È noiosa. Non è una vera scultura. Non attiva lo spazio. È spesso frontale, disegnata per soddisfare la lente della macchina fotografica. È un assemblaggio di qualche tipo, e c’è poca eccitazione nel modo in cui gli oggetti sono posizionati insieme, niente è ben eseguito se escludiamo i prodotti del mercato di massa che vi appaiono».
Domenico Quaranta, che va qua citato (insieme al Link Art Center) per il fondamentale lavoro di riflessione e divulgazione fatto dal 2011 nel contesto italiano, critica la semplificazione del fenomeno fatta da Droitcour («la transizione da una pratica radicalmente immateriale che rigettava il mondo dell’arte a una che si prostituisce per ottenere un angolino nel white cube», Situating post-internet, 2015), proponendo di ricontestualizzare il fenomeno post-internet come un limitato caso di «rebranding» avvenuto all’interno di una più ampia e complessa storia della «internet art» contemporanea. Quaranta è un esempio illustre di molta letteratura fiorita negli ultimi anni nel tentativo di ristoricizzare il fenomeno post-internet a partire dalle sue radici nella Net Art, tra estetica relazionale e critica istituzionale, la cui prospettiva principale generalizzerò in questa sede sotto la frase «è più complicato di quello che sembra», e che potremmo convenzionalmente esemplificare con la mostra Electronic Superhighway (2016-1966): From Experiments in Art and Technology to Art After the Internet alla Whitechapel Gallery, Londra.
Come una barzelletta che non è né ironica né divertente (e allora cos’è?)
Tirare le somme del fenomeno post-internet è impossibile senza toccare il capitolo dalla Biennale di Berlino del 2016. The Present in Drag ha suscitato le più feroci critiche all’intero fenomeno, che hanno posto le basi per qualsiasi evoluzione il termine potrà ipoteticamente avere nel futuro. Per sintetizzare in un unico esempio gli argomenti principali delle suddette critiche vorrei servirmi di una definizione di Ahmet Öğüt, secondo cui la biennale è stata una «barzelletta che non è né ironica né divertente […], la glorificazione di un nichilismo sarcastico che domina qualsiasi forma di sincerità, umorismo, ironia, emozione, discorso intellettuale, critica, conflitto politico e sociale su come modalità di produzione artistica possono essere detonatori per controcultura e contro-finanza» (Obscure Sorrows: Thoughts around the 9th Berlin Biennale, 2016).
Riappropriandosi strategicamente di quell’aura di ineluttabilità che ho sottolineato in precedenza con l’emergere della nozione di «condizione post-internet», The Present in Drag ha posto le sue radici concettuali nell’impossibilità di pensare un’alternativa alla sottomissione finanziaria della pratica artistica contemporanea, e ha quindi deciso di mettere in scena, allestire e performare la primigenia e ineludibile identità tra arte e Capitale. Tornando alla metafora di Droitcour con la pornografia, nella concezione di post-internet proposta da DIS «la precarietà della vita contemporanea non viene sfidata o descritta politicamente ma piuttosto infusa di energia sensuale, recuperata all’interno di una economia libidinale […] un’inquietudine sociale mascherata da teoria estetica.» (Anselm Franke, Ana Teixeira Pinto, Post-Political, Post-Critical, Post-Internet, 2016). Come in numerose pratiche artistiche contemporanee, la portata critica della Biennale si è concentrata sull’affermazione sarcastica della propria complicità al mercato, tramite l’imitazione dei protocolli su cui tale complicità è fondata. La dichiarazione e celebrazione ironica di questo dato di fatto, e lo strumento della riproduzione dei dispositivi della finanza globale come strategia artistica, possono essere considerati due elementi salienti del tardo post-internet (si pensi a pratiche come quelle di GCC, Timur Si-Qin, Christopher Kulendran Thomas), secondo una modalità operativa non troppo dissimile da quella usata dalla Pop art verso la società dei consumi.
Una volgare favola latouriana
Uno dei grandi alleati ideologici del post-internet nella sua evoluzione recente è rappresentato da quell’insieme diversificato di teorie che vanno generalmente sotto il nome di «ritorno all’oggetto». Senza entrare nello specifico delle diverse sfumature teoretiche e concettuali di realismo speculativo, Object Oriented Ontology, Neomaterialismo, Techgnosis, Manifesto Cyborg, Internet delle Cose e così via, basti ricordare che c’è un perturbante filo rosso che unisce i processi artistici che vanno sotto il nome di post-internet, i sistemi ontologici del suddetto realismo speculativo e (come sottolineato in più sedi da Alexander Galloway) le strutture delle tecnologie più evolute del capitalismo postfordista – come computer networks, linguaggi di programmazione object-oriented (Java o C++) e i software della grande economia.
Il mercato dell’arte non ha che da guadagnare dall’alleanza del post-internet con una prospettiva filosofica che promette una democrazia degli oggetti e un superamento della tradizionale differenza tra cultura e natura in un’ottica apolitica. Come sottolineano Anselm Franke e Ana Teixeira Pinto, il «drag» del sottotitolo della Biennale di Berlino The Present in Drag «non punta a una glorificazione queer o camp di ciò che è spesso non riconosciuto come naturale, ma piuttosto a una cancellazione programmatica della differenza (critica), che recupera la critica femminista del binomio natura/cultura per impiegarlo a servizio del pensiero dominante. Una volta che la natura scompare tutto diventa un segno umano, in stretta conformità con il regime della finanza neoliberista». Per questo l’influenza di Bruno Latour e delle teorie del suo Non siamo mai stati moderni (1991) non possono che diventare una favola volgare, nella felice definizione di Diedrich Diederichsen. Il ritorno all’oggetto diventa così la perfetta cornice ideologica per supportare la definitiva sussunzione del post-internet a «regime estetico del neoliberalismo.com» (Franke/Pinto).
Possiamo concludere, semplificando le analisi di cui sopra, che alla progressiva tendenza a odiare il post-internet abbiano contribuito la generale indeterminatezza semantica e quindi facile strumentalizzazione del termine, unita alla sua progressiva e in parte auto-imposta obsolescenza programmata, e alla conseguente «zombificazione» dello stesso, provocata da uno strategico accanimento terapeutico attivato da dinamiche del mercato finanziario globale, che lo hanno portato a diventare quel brand e quel manierismo formale che tutti conosciamo, epidemico quanto difficile da articolare – «lo capisci quando lo vedi» nelle parole di Droitcour. Di fronte alla vacuità del termine, ormai nulla più di un contestato contenitore concettuale (dalle superfici patinate e scivolose, ma pur sempre un mero contenitore) restano due possibilità: provare a riconquistarne il significato, a «porre il termine contro a se stesso», analizzando cosa di significativo può restare nelle sue spoglie deteriorate per descrivere le pratiche artistiche contemporanee (accettando il circolo vizioso tra post-internet, capitalismo postfordista e realismo speculativo); oppure tentare di abbandonare questa categoria confusa, in virtù di altri paradigmi ed esempi che nel corso degli anni hanno attraversato e si sono nutriti del post-internet ma si sono rivelati, per la loro complessità, irriducibili ad essere descritti da esso.
Tra questi, varrebbe la pena nominare almeno l’interesse per processi bio-tecnologici micro- e macro-dimensionali che esulano generalizzazioni stilistiche e determinazioni temporali (Andrew Norman Wilson, Thomas Hämén); le diverse declinazioni del concetto di «animazione», come categoria trasversale al rapporto tra materialità e virtualità (Cecile B.Evans, Jordan Wolfson); la ricerca attiva e interdisciplinare delle forme di potere legate alle tecnopolitiche digitali e militari (Laura Poitras, Trevor Paglen, Hito Steyerl), tenendo sempre conto che internet come lo conosciamo scomparirà probabilmente prima che diventino completamente chiari i suoi effetti. Parafrasando Ana Texeira Pinto, entro il 2020 ci saranno quasi ventisei miliardi di dispositivi connessi all’Internet delle Cose – ventisei miliardi di tostapane parlanti, probabilmente equipaggiati di interfacce accattivanti – che dissolveranno la rete in una più ampia convergenza di computazione e biologia, in cui l’assorbimento della natura da parte della cultura coinciderà con il consolidamento della proprietà corporate.