Musica per drogati

La grandezza musicale (e culturale) degli Spacemen 3, in occasione della ristampa del capolavoro Dreamweapon

L’edificio era stato costruito qualche anno prima, nel 1984, e sorgeva sulle rive del Tamigi. Per la precisione a Brentfort, sobborgo nell’area sud ovest di Londra noto per il Football Club omonimo e per la leggenda di un grifone che si aggirava nelle acque paludose della zona. Similmente alla maggior parte dei centri d’arte indipendente, lo spazio era costituito da una sala teatro, un cinema e una galleria. Diversamente dalla maggior parte dei centri d’arte dell’epoca, aveva manifestato sin da subito una certa attenzione per la musica dal vivo, zigzagando nella cultura pop contemporanea dalle prime forme di rave ai concerti di Ravi Shankar. Il pomeriggio del 19 agosto 1988, l’esperienza fu effettivamente qualcosa a metà tra le due.

Una discreta folla se ne stava in fila in attesa della proiezione di Wings of Desire di Wim Wenders, mentre da una stanzetta limitrofa usciva un insistente aroma di hashish. Di lì a poco, da quella stessa porta sarebbero sbucate le figure esili di Peter Kember, Jason Pierce, Will Carruthers e Steve Evans – insomma degli Spacemen 3. Ognuno si sarebbe seduto in un angolo del foyer, arrangiato per l’occasione a sala da concerto, e avrebbe pacatamente iniziato a suonare. Una stessa, incessante e nebulosa nota, a eccezione delle piccole melodie ellittiche disegnate da una delle tre chitarre (quella di Pierce). Un unico momento dilatato all’infinito, circolare e vibrante, in grado di allineare il battito cardiaco dei (pochi) convenuti in estasi e di far schizzare alle stelle sinapsi e irritazione di tutti gli altri. Quarantacinque minuti di drone music allucinogena e spettrale, che qualche decennio dopo sarebbe diventata una registrazione «di culto», fuori dal proprio tempo.

Il 19 agosto del 1988, al Waterman Arts Centre di Londra non sono in tanti ad assistere consapevolmente a quella che sarebbe divenuta la performance dal vivo (e relativa uscita discografica) chiave nella storia di uno dei gruppi più rivoluzionari degli anni Ottanta. Quel Dreamweapon – An Evening of Contemporary Sitar Music che non solo avrebbe condensato gran parte dell’attitudine e dell’estetica degli Spacemen 3, ma che avrebbe anche tracciato una linea fra la Dream Music di La Monte Young, il lavoro visionario dell’ex Velvet Undeground Angus MacLise (alla batteria prima di Moe Tucker), gli Stooges di Fun House, e la psichedelia oppiacea che gli Spacemen 3 stavano per sviluppare nei successivi Playing with Fire (1989) e Recurring (1991), preservando e allo stesso tempo mettendo a repentaglio tutto il bagaglio rock’n’roll contemplato e stravolto fino ad allora dalla formazione inglese.

Dreamweapon – An Evening of Contemporary Sitar Music

Di quel concerto atipico al Waterman Arts Centre ci racconta per la prima volta nel dettaglio Will Carruthers – che degli Spacemen 3 fu il bassista tra 1988 e 1990 – in un capitolo del libro Playing the Bass With Three Left Hands (Faber & Faber, 2016), storia del gruppo la cui ragione sociale risuona nel sempiterno adagio «prendere droghe per fare musica per prendere droghe». L’episodio rimarca la volontà lucidissima della band guidata da Peter Kember e Jason Pierce di non assecondare il contesto che li circonda, qualunque esso sia: un concerto programmato come «contemporary sitar music» dove di sitar non c’è neanche l’ombra, ma la cui assenza è sopperita dalla naturale inclinazione dei due chitarristi nel produrre suoni «spirituali» tenendo sempre la stessa nota (per l’esattezza un Mi); l’uso disinvolto di quintali di hashish per cui vengono più volte ripresi dagli organizzatori (e che porterà a due dei credit più memorabili di sempre: l’amico e mentore Pat Fish ringraziato per il «joint rolling», e le «bass vibrations» dello stesso Carruthers che, seppur fattissimo, suonò stoicamente per 45 minuti la stessa nota – peccato non accese mai l’amplificatore); infine, la totale noncuranza verso l’ostilità e le reazioni di insofferenza del pubblico, messo costantemente alla prova durante il concerto con riff detonanti reiterati per quaranta infernali minuti, o dalle note perpetuate sfidando le leggi spaziotemporali (fra le trame ad libitum di Dreamweapon si mescoleranno anche alcuni temi dell’imminente Playing with Fire, in un gioco di rimandi ingarbugliato dalle effettive date di uscita dei dischi).

La testimonianza di quell’evento fu un disco live, Dreamweapon, uscito postumo nel 1995 e dove non ci sono gli effetti di luce psichedelici con cui accompagnavano i set, né il frastuono che caratterizzava il gruppo dai tempi di Sound of Confusion, il loro album d’esordio uscito nel 1986. Ma dove però c’è tutto il resto, e in particolare l’alienazione da ogni convenzione formale e sostanziale della cultura pop di quegli anni, qui trasfigurata nell’arma onirica della ripetizione e della regola madre «Keep it simple».

È di questi giorni la ristampa dello stesso Dreamweapon per l’etichetta Superior Viaduct: a comporre il doppio vinile sono le due suite «An Evening of Contemporary Sitar Music» (pt. 1 e pt 2), ciascuna oltre i 20 minuti, due studio session di «Playing with Fire» accreditate al solo Sonic Boom (intitolate «Ecstasy Live Intro Theme» ed «Ecstasy in Slow Motion»), le meditazioni elegiache di «Spacemen Jam» (testimonianza di come i due leader Pierce e Kember non avessero ancora perso l’intesa musicale) e le nuove note a cura del solito Will Carruthers. Una notizia che pare buona ma che, in realtà, è buonissima. Soprattutto per chi negli ultimi anni ha seguito gli sviluppi non esattamente amichevoli tra i componenti storici degli Spacemen 3 e Gerald Palmer: manager del gruppo negli Ottanta, uomo «dalla testa a forma di portafoglio» e boss dell’etichetta Space Age con la quale, dal 1990 a oggi, ha stampato e ristampato qualsiasi loro registrazione in suo possesso (dischi, live, raccolte, singoli), lucrando più o meno legalmente sui diritti della band e appropriandosi persino del mitico logo disegnato dal primo bassista, Pete Bain. Per dare la misura della questione: l’invito a non acquistare nulla degli Spacemen 3 a marchio Space Age è stato l’unico fronte che, dalla fine del gruppo, ha visto Kember e Pierce pubblicamente uniti e concordi. A questo punto però, dobbiamo per forza fare un passo indietro.

Gli Spacemen 3 dal vivo nel 1989

«Al centro di quello che conta». È con questa frase, di cui potete rapidamente constatare la veridicità su Google Maps, che la (ridente?) cittadina di Rugby accoglie i suoi visitatori: quelli usciti da alcune delle autostrade più importanti che attraversano il Regno Unito, quelli scesi da uno dei numerosi treni che fermano in una delle più antiche stazioni ferroviarie inglesi, o quelli atterrati da uno dei principali aeroporti delle tratte low-cost che da qualche anno servono la Gran Bretagna. Al centro delle Midlands e quindi dell’Inghilterra, nel Novecento Rugby è stata un importante crocevia del boom industriale, ben nota a commercianti e, chiaramente, anche a spacciatori: il nomignolo «Drugby» avrà pur voluto dire qualcosa…

Negli anni Ottanta però, Rugby diventa una cittadina espressione dell’Inghilterra più gretta e conservatrice: la censura thatcheriana fa scomparire silenziosamente dalle biblioteche tutti i libri con riferimenti a droga e omosessuali, e se sei un tossico è più probabile che tu muoia di epatite C che di overdose. Il massimo della trasgressione musicale consiste nell’essere fan dei Bauhaus, band di casa nella vicina Northampton. Il luogo è sufficientemente inospitale affinché un gruppo portatore insano del gene della ribellione cresca ostinatamente nel disagio bigotto di quegli anni. Come un’erbaccia resistente e dalle proprietà psicoattive, germogliata su un terreno arido ma comunque impossibile da estirpare.

È a Rugby che Peter Kember e Jason Pierce si incontrano nel 1982, quando hanno ancora sedici anni. Due anni dopo, danno ufficialmente vita agli Spacemen 3. Il ponte tra passato e presente lo getta lo stesso Carruthers in nelle prime pagine di Playing the Bass with Three Left Hands. È il 1987, «e l’unica cosa che tutti vogliono è stare fatti». Siamo in un vecchio edificio industriale di Londra, dove tra visioni e realtà prendono forma diverse espressioni, umane e artistiche, del modo in cui la cultura della Thatcher sta alimentando l’anima della Gran Bretagna. «Mentre la band al piano di sotto riesumava il fantasma dei Doors, Sonic e Jason se ne stavano di sopra a suonare melodie che si scioglievano in droni onnipresenti e confortevoli. Era qualcosa di inusuale. La musica di allora non prevedeva droni, ma era giusto così, viaggiavamo alla ricerca di ciò che volevamo. E nel frattempo ci chiedevamo come fosse possibile che le cose non andassero bene come era stato in passato, in quegli anni gloriosi che forse, però, non erano stati così rosei come la nostra collezione di dischi sembrava farci credere. Quella musica era stata una reazione al grigiore claustrofobico della cultura dominante, quindi forse lo stesso pantano in cui vivevamo poteva essere terreno fertile per certe visioni aromatiche e funghi amanti dell’oscurità, fino ad allora costretti a restare sotto terra dalle truppe dell’avidità e del materialismo».

Da Sound of Confusion, 1986

Che le espressioni migliori del rock’n’roll, le più autentiche e resistenti al logorio del tempo, provenissero dalle peggiori forme di disagio lo avrebbero imparato sulla propria pelle i Cramps, gli Stooges e gli MC5, Captain Beefheart e Red Krayola, Suicide e Velvet Underground. Chi poteva saperlo meglio dei 13th Floor Elevators, cresciuti nel repressivo Texas? O dei cantori blues maledetti che gli Spacemen 3 avevano imparato ad ascoltare grazie all’amico (e primo batterista) Natty Brooker?

La collezione di dischi di Peter Kember e Jason Pierce sta tutta nelle distorsioni dell’esordio Sound of Confusion, acquisisce le sembianze di sinfonia oppiacea nelle trasfigurazioni religiose di The Perfect Prescription (1987), per poi mutare nuovamente forma e anticipare, in album come Playing with Fire e Recurring, i percorsi separati dei due: quello ossessivamente minimale e volto alla sperimentazione elettronica di Kember (come Sonic Boom/Spectrum e E.A.R.) e quello melodico e aperto all’improvvisazione di Pierce (con gli Spiritualized).

Ma nonostante quella collezione di dischi fosse atipica negli anni di Duran Duran, The Smiths e Phil Collins, nonostante i dischi degli Spacemen 3 abbiano aperto la strada a un certo tipo di estetica del rumore tracciando la strada per forme varie di ipnosi psichedelica (Galaxie 500, Flying Saucer Attack, Bowery Electric, Wooden Shjips…), nonostante la rivoluzione più deflagrante degli Spacemen 3 sia ancora spesso associata alla loro eredità musicale, il lascito più importante degli Spacemen 3 è di tipo più ampio. È un lascito culturale.

«Le droghe erano parte della nostra vita, per ognuno in termini diversi, e questo ci rese degli outsider, ci diede una prospettiva diversa sulla società.»

Vestirsi a caso, fare concerti da seduti, suonare tanto da far sanguinare le orecchie agli astanti, provocare il pubblico, approcciare la musica con assoluto rigore e poi scegliere di parlare di droghe piuttosto che del nuovo disco: nulla che altri non avessero fatto prima. Ma proviamo a prendere tutto questo e a trasportarlo in quel momento storico, nell’Inghilterra thatcheriana della divisione ferrea in classi sociali, devota al culto del lavoro e dell’apparenza. A rendere gli Spacemen 3 uno spartiacque unico nella musica indipendente inglese degli Ottanta, è un intero insieme di fattori: «Non so quante droghe prendessero le altre band, ma la grande differenza era che loro non ne parlavano. In realtà noi eravamo troppo poveri per drogarci quanto i Mötley Crüe, ma Pete aveva quest’abitudine con l’eroina e beh… Ne parlava alla stampa, era un modo di ribellarsi al sistema. Negli anni Ottanta parlare di droga era davvero la cosa meno di tendenza che potevi fare, c’era la cultura del «Just say no» della Thatcher. Questo ci rese particolarmente impopolari – a Rugby eravamo odiati, e durante il tour europeo dell 1989 fummo bannati dalle radio tedesche. Le droghe erano parte della nostra vita, per ognuno in termini diversi, e questo ci rese degli outsider, ci diede una prospettiva diversa sulla società. Era stato il regime fortemente proibizionista di allora a darci quel ruolo».

Queste parole di Will Carruthers lasciano intendere come gli Spacemen 3 fossero lontani dalla pretesa di essere un modello di riferimento, ma combattessero a modo proprio una battaglia. Sotto molti aspetti, leggere attraverso l’associazione fra droghe e musica alcune trasformazioni socioculturali avvenute nel corso dei decenni, si rivela illuminante. Devoti alla trance estatica provocata da downers quali l’hashish o la stessa eroina, gli Spacemen 3 non si incontrarono (quasi) mai con la cultura rave che stava per esplodere in tutto il Regno Unito: del resto, Kember e Pierce stanno al concetto di Second Summer of Love – quella che tra 1988 e 1989 esplose a suon di ritmi house – esattamente come i Velvet Underground stettero alla Summer of Love originale, quella di metà anni Sessanta.

Da The Perfect Prescription, 1987

Nel libro di Carruthers c’è però un passaggio che getta uno sguardo interessante sul crocevia di flussi sottoculturali del periodo. Il capitolo si intitola «Spacemen 3 on Spectrum» e racconta della prima esperienza con l’ecstasy del gruppo durante un live a Chester, nell’Inghilterra del Nord (40 miglia a ovest di Manchester). È qui che, in occasione di un concerto in un contesto vagamente atipico – una palestra con spa! – vengono inaspettatamente ben accolti da un pubblico di «casuals» appassionati di calcio, decisamente più vicini all’acid house che a qualsivoglia psichedelia dronica. «La cultura acid house ha contribuito a diminuire la violenza nel Regno Unito», raccontava a tal proposito Carruthers in un’intervista; «gli appassionati di football invece di finire a fare scontri finivano ad abbracciarsi ai rave e ad apprezzare la musica. Era un periodo interessante, anche se noi ne eravamo fuori. La cultura acid house era molto aperta: il nostro isolazionismo ci ha aiutati a creare una dimensione personale, ma ci ha precluso influenze che avrebbero potuto essere interessanti. Anche tutto quell’edonismo era una reazione al gretto regime thatcheriano».

Se, da una parte, solo negli ultimi anni la critica è andata oltre il wall of sound degli Spacemen 3, ravvisandone l’importanza per la musica indipendente inglese anche al di là delle coordinate sonore, dall’altra il pubblico si è troppo spesso appassionato soprattutto agli eccessi e alle, diciamo così, divergenze che hanno caratterizzato il sodalizio composto da Kember e Pierce, due menti per molti versi complementari. Un po’ come se il loro lascito artistico si trovasse costantemente a fronteggiare ostilità esterne complesse almeno quanto quelle interne (nonostante le quali l’album-testamento Recurring, diviso in due parti distinte dove i due non hanno più nulla da spartire, è un lavoro con molti alti e pochissimi bassi).

Anche quando finirono sulle copertine delle riviste musicali e nelle radio e tv nazionali, anche quando i loro concerti londinesi erano costantemente sold out, gli Spacemen 3 restarono mal tollerati nella loro cittadina «al centro di ciò che conta»: in fondo erano ancora quelli strani e sfacciatamente drogati di qualche anno prima, solo più «famosi». Carruthers racconta di come, per tutta risposta, all’apice del successo ma già sul punto di implodere, il gruppo decise di tenere un concerto gratuito a Rugby: una provocazione per attirare proprio quelle persone che non avrebbero mai pagato per vedere un loro concerto. Persone che risposero riempiendo la sala, ma non concedendo neppure un applauso.

Sono le dipendenze di entrambi, l’atteggiamento assertivo di Peter Kember e l’alienazione di Jason Pierce (dovuta perlopiù alla storia sentimentale con Kate Radley), ma anche la fama e il denaro generato dalle vendite dei loro dischi, ad alimentare la distanza siderale tra i due. Quando però Carruthers racconta dell’insistente interessamento di Alan McGee per far firmare la band con la sua Creation, e del probabile lavoro del manager Gerald Palmer nello sviare la trattativa (per non condividere con nessuno i proventi), viene difficile non chiedersi se la storia sarebbe potuta andare a finire diversamente. Quello che è certo, è che «Pete e Jason sono rimasti insieme anche più a lungo di quanto avrebbero desiderato: per la musica, e perché sapevano di avere ragione. E poi, certo, per il successo». Oggi, a continuare a tenerli separati, scongiurando una reunion di cui non hanno davvero bisogno, ci pensa una forza forse ancora più potente. L’odio.

Jason Pierce e Peter Kember (aka Sonic Boom)