Michelstaedter Superstar
Quello di Martin Heidegger è un caso particolare. È stato e continua a essere uno dei filosofi più influenti della filosofia occidentale, ma al tempo stesso è stato anche quello la cui adesione al nazismo è stata più facilmente smascherabile. Fino a qualche tempo fa, la famosa intervista a Der Spiegel del 1976 in cui minimizzava su tali questioni, ma si giustificava tirando in ballo una riorganizzazione delle Scienze Tedesche, rappresentava uno dei documenti più preziosi su cui lavorare, da questo punto di vista. Ma dalla recente (e ancora in corso) pubblicazione di tutti i suoi scritti e seminari, che danno modo di leggere anche la sua intera opera sotto una luce diversa, si capisce che il messaggio di quell’intervista non era teso solamente a minimizzare, quanto piuttosto a nascondere una serie di implicazioni profonde e serie col nazismo, che secondo alcuni potrebbero addirittura averne influenzato la genesi – come ad esempio sostengono in maniera più o meno esplicita una serie di studiosi come Emmanuel Faye, Luciano Parinetto, Victor Farias, Hugo Ott, Donatella Di Cesare… Ovviamente l’opera di riferimento sono quegli a dir poco controversi 33 taccuini rilegati in tela cerata di colore nero che prendono per l’appunto il nome di Quaderni neri; nome che egli stesso gli diede, e che raccolgono le sue annotazioni filosofiche che vanno dal 1931 al 1969.
Ma quello dei Quaderni neri è solo il caso più eclatante, perché leggere oggi le opere heideggeriane pubblicate o rese accessibili dopo la sua morte significa trovarsi al cospetto di una gran mole di scritti che spesso chiarisce il senso di altri suoi testi già pubblicati, ma che allo stesso tempo può innescare dubbi. Thomas Vašek ad esempio, si è ritrovato a tanto così dal confermare la sua scoperta sensazionale. Notando una somiglianza davvero troppo ambigua per essere casuale tra l’opera cardine heideggeriana, Essere e tempo, e il capolavoro di Carlo Michelstaedter La persuasione e la rettorica, non ha potuto fare a meno di avviare la sua personale inchiesta, che ha finito per assumere in alcuni casi le tinte del giallo.
Il risultato è un libro, Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica, che oltre ad accompagnare il lettore verso questa suggestione, ha il pregio di chiarificare alcuni dei tratti più oscuri di Essere e tempo, un’opera notoriamente oscura per via del suo linguaggio ostico e anche – ovviamente – per l’originalità con cui trattava il tema dell’Essere, mettendoli a confronto con i concetti chiave di La persuasione e la rettorica. La somiglianza è in molti casi davvero sorprendente. Dopo aver letto il suo libro, ho deciso di fargli delle domande per chiarire anche alcuni dei miei dubbi.
Riccardo Papacci: Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?
Thomas Vašek: Qualche anno fa, avevo cominciato a indagare su Martin Heidegger in maniera approfondita. Dopo la pubblicazione dei Quaderni neri, ero particolarmente interessato a quanto la filosofia stessa di Heidegger fosse contaminata dal suo coinvolgimento al nazionalsocialismo. Piuttosto per caso, ho scoperto all’epoca un estratto da un manoscritto inedito di Heidegger inerente al libro Rivolta contro il mondo moderno del filosofo ed esoterista italiano Julius Evola. Fino ad allora non si sapeva che Heidegger aveva letto l’opera del protofascista e razzista Evola. Il mio articolo sul ritrovamento nella Frankfurter Allgemeine Zeitung attirò anche una certa attenzione in Italia all’epoca. Leggendo più attentamente il libro di Evola, ho trovato alcuni paralleli con i testi di Heidegger alla fine degli anni Trenta. Soprattutto, però, mi sono imbattuto nel nome di Carlo Michelstaedter. Evola stesso cita La persuasione e la rettorica di Michelstaedter come un’importante influenza. All’improvviso, ho notato che gli studiosi di Michelstaedter del tempo si erano resi conto presto delle somiglianze sorprendenti tra La persuasione e la rettorica e l’opera principale di Heidegger, Essere e tempo. Questo mi ha finalmente messo sulla pista giusta.
In quale momento hai capito che fosse giusto approfondire una ricerca del genere?
Nel corso del mio lavoro sui testi, ho realizzato che le somiglianze tra Michelstaedter e Heidegger sono molto più profonde di quanto si fosse supposto in precedenza. Nella ricerca di Michelstaedter, l’affinità con Heidegger è stata una costante per molti anni. A mia conoscenza, tuttavia, le somiglianze non sono mai state indagate a fondo; in particolare, la ricerca su Heidegger ha praticamente ignorato del tutto queste indicazioni. Ci sono diverse ragioni per questo, una delle quali è che Michelstaedter non è mai stato veramente apprezzato e riconosciuto nella sua competenza di filosofo; ancora oggi, molti lo vedono come un semplice epigono di Schopenhauer o Leopardi. Penso che questo sia un errore fatale di interpretazione che oscura completamente la visione del testo molto complesso di Michelstaedter. Il suicidio di Michelstaedter gioca un ruolo particolarmente tragico in questo fino ad oggi. Allo stesso tempo, per molto tempo era considerato molto improbabile che Heidegger potesse aver letto il testo di Michelstaedter, poiché La persuasione e la rettorica era inizialmente disponibile solo in italiano. Tuttavia, nell’archivio Michelstaedter a Gorizia, nella tenuta dell’amante di Michelstaedter, Argia Cassini, ho trovato una prima traduzione tedesca della prima parte di La persuasione e la rettorica. Non ci sono prove, ma è almeno possibile che questa traduzione possa aver raggiunto anche Heidegger…
In Heidegger e Michelstaedter. Un’inchiesta filosofica racconti che persino lo scienziato Albert Einstein venne in possesso de La persuasione e la rettorica…
C’erano delle relazioni familiari. La storia è un po’ contorta: la sorella maggiore di Carlo, Paula, era sposata con Fritz Winteler, il figlio del linguista svizzero Jost Winteler, che fu, tra l’altro, una specie di mentore del giovane Albert Einstein. Il cognato di Paula era anche l’amico di una vita di Einstein, l’ingegnere svizzero-italiano Michele Besso, che aveva sposato la figlia di Jost Winteler, Anna. Besso ha anche lavorato per un periodo a Gorizia, la città natale di Michelstaedter. In una lettera a Einstein dell’8 agosto 1922, Besso scrisse che gli aveva inviato il libro del suo giovane fratello a nome di sua cognata Paula. Questo era proprio la nuova edizione de La persuasione e la rettorica pubblicata nel 1922.
Non ho trovato nessuna risposta di Einstein alla lettera di Besso. Non sappiamo se Einstein abbia letto il libro di Michelstaedter. Forse lo passò a uno dei filosofi con cui era in contatto, potrebbe darsi anche che lo abbia passato al suo amico Hermann Weyl, che era in stretto contatto con Husserl. Einstein era sempre molto disponibile. Anche a causa dei legami familiari, si può supporre che si sia impegnato nel libro di Michelstaedter. Tuttavia, rimane un’affascinante speculazione che La persuasione e la rettorica possa aver raggiunto Friburgo attraverso Einstein al giovane assistente di Husserl, Martin Heidegger. Non c’è ancora nessuna prova di questo. Sarebbe anche possibile che Paula abbia inviato il lavoro di suo fratello ad altre personalità filosofiche e non di lingua tedesca – forse anche la traduzione tedesca già menzionata.
Ho trovato molto emozionante, ma anche molto difficile ripercorrere queste tracce nel nostro tempo. Michelstaedter aveva certamente alcuni ardenti ammiratori nei primi anni Venti del Novecento. Uno di questi fu il filosofo viennese Oskar Ewald (1881-1940), anche lui ebreo, che tenne addirittura una conferenza su Michelstaedter a Gorizia nel 1924. Ewald era in contatto con Husserl tramite un rapporto epistolare, quindi il testo di Michelstaedter potrebbe aver raggiunto Friburgo anche attraverso di lui.
Essere e tempo di Heidegger è, secondo me, una mostruosa complicazione di ciò che Michelstaedter ha detto in modo più denso, più compatto.
La famosa “svolta heideggeriana” consiste fondamentalmente nel comprendere l’Essere dalla prospettiva dell’esistenza umana. Michelstaedter è considerato un “esistenzialista della prima ora” proprio perché basa tutta la sua ricerca sull’esistenza. A parte le molte somiglianze che hai trovato tra il pensiero di Michelstaedter e quello di Heidegger, non credi che un posizionamento così radicale sarebbe stato sufficiente per supporre un’influenza diretta sui due autori?
Consiglierei di prendere un po’ le distanze da certi concetti come “esistenzialista”, così come dal termine “Kehre” (svolta), che è molto controverso nella ricerca su Heidegger. Ciò che è certo è che Essere e tempo fu inteso dai suoi primi lettori in modo abbastanza diverso da come Heidegger stesso interpretò più tardi la sua opera principale – cioè come un’analisi dell’esistenza umana, nella tradizione di Agostino, Lutero o Kierkegaard. È vero che il libro inizia e finisce con la questione dell’Essere. Ma la maggior parte di essa riguarda la soggettività umana, come ha già notato Karl Löwith. Si tratta di un’identità reale e inautentica, di un possibile cambiamento nella natura dell’essere umano – della possibilità di una sorta di rinascita.
Michelstaedter e Heidegger sono certamente d’accordo sul fatto che l’“esistenza” preceda l’“essenza”, cioè l’essere metafisico. Ma le somiglianze tra i due autori non possono essere ridotte a questo impegno “esistenziale”, cioè a temi come la paura, la morte o l’alienazione. La somiglianza sta piuttosto nella concezione “esistenziale-ontologica”, cioè nella focalizzazione della struttura ontologica dell’esistenza umana. Michelstaedter, come Heidegger, si occupa della questione dell’essere, di ciò che significa “essere”. Ma questa è una domanda a cui non si può rispondere teoricamente, ma solo attraverso l’esperienza personale. Per tutt’e due, la parola “Essere” sta a significare una cosa precisa: un percorso, un compito. La domanda posta da entrambi gli autori è essenzialmente la stessa, e come cerco di mostrare nel mio libro, entrambi arrivano anche a risposte molto simili. Questa affinità è molto difficile da vedere perché le opere sono talmente diverse nei loro aspetti formali. Essere e tempo di Heidegger è, secondo me, una mostruosa complicazione di ciò che Michelstaedter ha detto in modo più denso, più compatto. A partire dalla pubblicazione del mio libro due anni fa in Germania, ho avuto modo di vederlo in maniera molto più chiara.
Nella sua tesi di laurea, Michelstaedter identifica il momento in cui inizia la “decadenza” già negli ultimi dialoghi platonici. Con Aristotele si impose definitivamente la “rettorica”, in quanto si tentò di dominare razionalmente il mondo attraverso la lingua, e non più attraverso le cose stesse. In questo discorso trovo delle similitudini col pensiero di Husserl, il padre della fenomenologia e il maestro di Heidegger, in particolare nel concetto di mondo-della-vita. Alla fin fine, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale è un testo del 1936 e dal momento che Husserl non gradì Essere e tempo, in qualche modo potrebbe essere interessante scoprire che anche Husserl fosse venuto a conoscenza de La persuasione e la rettorica.
Questa è una domanda affascinante. Ci sono interessanti connessioni tra La persuasione e la rettorica e la scrittura di Husserl. I parallelismi consistono soprattutto nella critica alla pretesa di oggettività scientifica. Agli occhi di Michelstaedter, questa “oggettività” è una finzione che offre l’illusione della vicinanza alle cose. Per Michelstaedter, come per Husserl, ogni intuizione scientifica si fonda su un correlato dell’esperienza soggettiva quotidiana. Il microscopio non “vede” più dell’occhio nudo. Il “mondo” non è qualcosa di dato o di autoevidente che può essere afferrato “oggettivamente”, ma un tessuto dinamico di relazioni che abbiamo con le cose. Noi “viviamo” il mondo prima di riconoscerlo: il mondo è quindi solo il mio mondo, come dice Michelstaedter.
A prima vista, questo sembra molto simile al concetto di mondo-della-vita di Husserl, anche se Michelstaedter stesso non usa questo termine. Tuttavia, Michelstaedter non si occupa della creazione di significato in senso puramente idealistico. Il mondo non è semplicemente un “costrutto soggettivo” (Husserl) che ci imponiamo noi. Per Michelstaedter, il mondo appartiene alla vita stessa, il che significa che ci muoviamo già da sempre in questi riferimenti di senso, ci nuotiamo dentro come pesci nell’acqua: “La stessa cosa è la mia vita e il mondo che vivo”. In questo modo, penso che Michelstaedter si avvicini più all’essere-nel-mondo di Heidegger che al mondo-della-vita husserliano.
Per Michelstaedter e per Heidegger, la “trama dell’illusione” e il “Si” offrono all’individuo la “stabilità”. Non percepisci in questo una critica alla vita borghese e al conformismo?
Sì, certo. Michelstaedter e Heidegger si rivolgono contro il livellamento e l’uniformità della società moderna. La retorica corrisponde per molti aspetti al “Si” (Man) di Heidegger. La persona “retorica” si lascia determinare dalle convenzioni e dalle norme. Non vive la propria vita, la sua vita è vissuta dagli altri. La “retorica” è l´inadeguata affermazione d´individualità; in questo modo si ha l’illusione di essere in senso pieno. Ma in realtà la retorica copre solo l’“oscurità”, il dolore della nostra finitudine, che non possiamo sopportare. La retorica ci solleva dalla nostra responsabilità. I “luoghi comuni” trasmettono certe opinioni prevalenti, simili ai “discorsi” di Heidegger. La gente parla senza dire nulla, quindi si intorpidisce. L’uomo retorico è intercambiabile, non è se stesso, ma un uomo sociale. La somiglianza con il “Sì” di Heidegger è impressionante. Il dominio della retorica porta in definitiva alla “disintegrazione” della persona, così come dice anche Heidegger nei riguardi del “Sì”.
In questi due pensatori emerge come non mai un soggetto caratterizzato essenzialmente dalla sua finitudine. Esso si smarcherebbe da questa finitudine solo una volta raggiunta la morte, ma in quel momento ovviamente si appresterebbe a non-essere. La nascita è l’accidente mortale. Quanto è grande il debito che un pensatore come Cioran ha nei confronti di Michelstaedter?
Certamente, c’è una certa sfumatura pessimista, persino nichilista, nell’opera di Michelstaedter. Per lui, tutta la vita è permeata dalla negatività, dalla mancanza, dal dolore e dalla morte. Questo corrisponde anche a un certo clima intellettuale e culturale del suo tempo. Alcuni hanno inteso Michelstaedter come una sorta di “nichilista eroico” che, con il suo suicidio, cioè il suo stesso annientamento, aveva in un certo senso pensato il nichilismo alla fine. Visto in questo modo, Cioran è certamente nella tradizione di Michelstaedter. Tuttavia, penso che questa lettura sia sbagliata.
Ai miei occhi, Michelstaedter non è un nichilista. La nascita è effettivamente un “accidente mortale” per lui, ma solo nella misura in cui siamo esseri mortali. Non vedo come egli consideri una “catastrofe”, come Cioran, il fatto di essere nato. Michelstaedter non è nemmeno un antinatalista, non nega la vita in sé. Per lui, solo la vita inautentica, illusoria o “retorica” è senza senso. Per contro, c’è un aspetto molto positivo della vita: la via della persuasione. Possiamo liberarci dalle nostre illusioni, accettare la nostra mancanza, sopportare il nostro dolore. Possiamo possedere noi stessi, cioè essere in senso pieno, anticipando per così dire la nostra morte. E questo si ottiene proprio non suicidandosi, ma vivendo come se la morte fosse imminente – e «nell’oscurità crearsi da sé la vita», come dice Michelstaedter. In altre parole, affrontando la nostra finitezza. Secondo Michelstaedter, c’è davvero un senso alla vita. Il senso è essere, e lasciare che gli altri siano. Questo è il nostro debito, il nostro dovere. Un’enorme esigenza etica nasce dall’ontologia. La “persuasione” non è il nichilismo, ma il suo superamento.
Ti interessa il pessimismo contemporaneo? Personaggi come Peter Wessel Zapffe e poi oggi Thomas Ligotti, Eugene Thacker…
So troppo poco di questi pensatori. Ma come ho detto, non credo che Michelstaedter sia fondamentalmente un nichilista o un pessimista. Né penso che creda che l’umanità debba smettere di riprodursi, come Zapffe. Ciò che ha in comune con il pessimismo è sicuramente la prospettiva della finitezza dell’esistenza umana, e la sensibilità alla sofferenza che ne deriva. La questione del pessimismo è importante perché Michelstaedter è ancora oggi visto da molti come un epigono di Schopenhauer. Non si può negare una certa influenza di Schopenhauer su di lui… Ma ci sono anche differenze fondamentali. Come dice Schopenhauer, la vera essenza della realtà è la cieca “volontà di vivere”. Per Michelstaedter, invece, l’uomo ha la voglia non solo di vivere, ma di possedere se stesso – cioè, vuole essere. Questo è il fatto che distingue il suo approccio, come quello di Heidegger, da Schopenhauer e dalla successiva “filosofia della vita”.
Non so se conosci e apprezzi Mark Fisher. Ho sempre associato la sua parabola letteraria ed esistenziale a quella di Carlo Michelstaedter…
Penso che i due fossero anime gemelle, in un certo senso. Michelstaedter sarebbe probabilmente d’accordo con la tesi di Fisher del realismo capitalista, secondo la quale è diventato impossibile oggi anche solo immaginare un’alternativa coerente al sistema capitalista. Per lui, il capitalismo di oggi sarebbe il trionfo definitivo della “retorica”: un mondo di apparenze, controllo totale e manipolazione. Sarebbe anche d’accordo con Fisher che non dobbiamo adattarci a questa realtà.
Trovo inoltre particolarmente interessante il concetto di “hauntology”, che Fisher ha preso in prestito da Derrida in Spettri di Marx. L’hauntology è diretta contro l’ontologia tradizionale, che intende l’essere come presenza costante. Il concetto di “spettro” significa qualcosa che “infesta” il presente, anche se “non è più” o “non e ancora”, proprio come gli “spettri di Marx”. Il tempo è fuori «dai cardini», come dice Amleto – è spezzato. Il concetto di spettro, tuttavia, non ha solo una dimensione politica, come è stato in primo luogo per Derrida. Lo spettro personale di Fisher era la grave depressione che lo ha perseguitato per anni. Per lui, la depressione è definitivamente una teoria sul mondo e sulla vita. La persona depressa crede di aver visto attraverso la vera natura delle cose. È una persona che è completamente intrappolata in se stessa, completamente isolata dal mondo. C’è solo questo dentro, ma lo sperimenta come completamente vuoto, come un semplice guscio. Il mondo esterno, apparentemente “normale”, è quindi una mera apparenza, un teatro di marionette senza senso.
Michelstaedter ha una “ontologia depressiva” (come la chiama Fisher) molto simile. Andrei anche oltre questo aspetto. Per Michelstaedter, noi stessi siamo una specie di spettro. In realtà non siamo affatto presenti, ma assenti. Nella nostra preoccupazione per il futuro, il presente ci sfugge, come dice Michelstaedter. Lo “spettrale” non è altro che la temporalità della nostra esistenza. Siamo sempre già ciò che non siamo ancora, la nostra attualità è la potenza. Ma questo significa che in realtà siamo già morti. Si può dire che noi stessi facciamo effetto come spettri. Nella vita quotidiana, tuttavia, questo rimane nascosto. Le nostre relazioni con il mondo ci danno l’illusione di essere: in questo senso siamo tutti metafisici, per così dire. Il depresso, però, non può più o non vuole più capire se stesso fuori dal mondo; tutto perde il suo significato, non c’è più niente su cui appoggiarsi – così tutte le illusioni crollano. In questi momenti, lo spettro riappare improvvisamente, come Michelstaedter descrive in modo impressionante. Si sente solo un ghigno: “Uuuu, niente sei tu, niente, niente”. Questa voce dall’oscurità è lo spettro che siamo noi stessi. È la nostra stessa nuda esistenza, la nostra ultima impotenza, la nostra gettatezza. Heidegger la chiama l’angoscia. Credo che nel caso sia di Michelstaedter che di Heidegger si tratti di episodi depressivi.
A un certo punto del tuo libro parli dell’”ontologia esistenziale” in Michelstaedter, subito dopo aver notato come i due autori fossero stati influenzati dal concetto di “raccoglimento” agostiniano. Puoi spiegare questa affinità?
Agostino è presente ovunque nell’opera di Michelstaedter, anche se non è menzionato per nome – si potrebbe dire che ne infesta l’intera opera. Nelle Confessioni, Agostino racconta la sua lotta per l’unità della sua volontà, combattuta tra il suo amore per Dio e le sue abitudini quotidiane. Si tratta di resistenza alle tentazioni, di raccolta e fermezza interiore. Questa è anche l’idea alla base della persuasione di Michelstaedter. Tuttavia, il “persuaso” non ottiene la sua stabilità nell’amore di Dio, ma nel possesso di se stesso.
L’idea geniale di Michelstaedter sta qui in una sintesi dell’analisi dell’esistenza di Agostino da un lato e l’ontologia greca dall’altro. Questo è evidente anche nelle osservazioni di Agostino sul tempo. Il tempo è fugace, il futuro si fonde con il passato, il presente non ha durata, finisce in un attimo. Il tempo tende quindi verso il non-essere – la nostra vita è «distentio», cioè dilatazione distratta. Secondo Agostino, il tempo è soggettivo, è solo nell’anima o nella coscienza, come presenza del passato (memoria), presenza del presente (contemplazione) e presenza del futuro (attesa). Per Michelstaedter, il “luogo” del tempo non è l’anima. Il tempo è il movimento della vita stessa. Il concetto di “persuasione” di Michelstaedter, cioè la proprietà di sé, ha una forte somiglianza con il concetto di memoria di Agostino. La memoria non significa solo memoria empirica, ma autocoscienza o autopresentazione. Per questo Agostino può dire che noi stessi siamo il nostro ricordo. La persuasione di Michelstaedter associa ovviamente la memoria con il greco ousia – essere come presenza. La “persuasione” significa la presenza dell’assente. Ma questo non è altro che il tempo come “distentio”. Questo è ancora una volta lo “spettro”, ma il persuaso non lo fugge più, lo abbraccia.
Il punto di Michelstaedter è di riportarci indietro dalla distrazione quotidiana, di raccogliere tutta la nostra vita nel presente – in altre parole, essere il tempo stesso. Per Agostino, possiamo ottenere fermezza solo raggiungendo ciò che sta “davanti a noi”, cioè l’eternità. Secondo Michelstaedter, otteniamo questa fermezza anticipando la nostra stessa morte. In questo modo, il persuaso supera la cunctatio e la distentio, cioè la lacerazione della sua volontà e la fugacità del tempo, che gli rimuove costantemente il suo essere.
Ciò che tutte queste persone “trasformate” hanno in comune è che credono di essere gli unici a vivere nella verità, mentre tutti gli altri sono semplicemente intrappolati nelle loro illusioni. Forse anche questo è un eroismo maschile, una cosa da ragazzi. Penso ai Joy Division e a Ian Curtis, che si è ucciso a 23 anni, come Michelstaedter.
Torniamo al confronto con Heidegger: ambedue gli autori parlano di “eroi”, “uomini significativi”, che possono esser presi come “modelli esistentivi”. Se oggi fossero in vita, quali personaggi sceglierebbero?
Questa è una domanda difficile. Michelstaedter stesso cita Socrate, e anche Gesù Cristo. Forse prenderebbe anche il Mahatma Gandhi come modello. I suoi “eroi” sono certamente persone talmente “persuase” della loro causa che sono disposte a dare tutto per essa – fino a rischiare la vita per essa. Stranamente, mi sono appena ricordato del free solo climber Alex Honnold, che scala una parete di mille metri senza protezione di corda. Forse per Michelstaedter, l’“eroe” dovrebbe essere una combinazione di Honnold e Madre Teresa. Non so chi sceglierebbe Heidegger… Nel caso di Heidegger, purtroppo, bisogna ricordare che egli ha visto un tale modello in Adolf Hitler, almeno per un po’ di tempo.
Mi rendo conto che abbiamo fatto di tutto per non parlare di questo argomento: che all’inizio del tuo libro, specifichi come non ti interessi risolvere la questione dell’Heidegger nazista. Possiamo però approfondire un po’ il tema sul Michelstaedter fascista o simpatizzante del fascismo, o in generale sulla dimensione politica legata a questo autore?
Michelstaedter non era certamente un fascista, e nemmeno un proto-fascista. Tuttavia, non sappiamo come si sarebbero sviluppate le cose se Michelstaedter avesse vissuto più a lungo. È vero che almeno inizialmente alcuni avevano visto il suo lavoro nell’ambito di un attivismo fascista. Non è certo una coincidenza che il proto-fascista Evola sia stato influenzato da Michelstaedter. La “persuasione” di Michelstaedter può essere intesa come una realizzazione dell’Übermensch di Nietzsche; qualcosa di simile vale per la “determinazione” di Heidegger. Queste nozioni di trasformazione e rinascita, di vero essere in un mondo di apparenze, si sono ripetute nel XX secolo. Ciò che tutte queste persone “trasformate” hanno in comune è che credono di essere gli unici a vivere nella verità, mentre tutti gli altri sono semplicemente intrappolati nelle loro illusioni. Forse anche questo è un eroismo maschile, una cosa da ragazzi. Penso ai Joy Division e a Ian Curtis, che si è ucciso a 23 anni, come Michelstaedter.
In ogni caso, vorrei dire a tutti i fan di Michelstaedter che il mondo del depresso non è il “vero mondo”, e che il suicidio non è il vero essere. Il vero messaggio di Michelstaedter non è la morte, ma l’amore. Possiamo solo sperare di poter cambiare il mondo e le nostre stesse vite in meglio. Non in un isolamento radicale, ma insieme agli altri con cui condividiamo questo mondo, questa vita.