Uomini, dei e vulcani

Dove la terra ribolle, le fondamenta dell’uomo sono scosse dalla natura: sulla battaglia (impossibile?) contro la lava che trasforma il nostro rapporto con l’ambiente in guerra

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Il 23 gennaio 1973 una fenditura si allargò nel terreno, non lontano da un centro abitato, nell’isola di Heimaey, in Islanda. Una fontana di lava si alzò dalla ferita, centocinquanta metri in altezza, millecinquecento metri in lunghezza. Eldfell, la «montagna di fuoco».

Poche ore dopo l’inizio dell’eruzione gran parte degli abitanti dell’isola venne evacuata. Nella speranza di salvare il porto della città di Vestmannaeyjar, snodo cruciale per l’economia del luogo, le autorità cercarono un modo per solidificare la roccia liquida in movimento che minacciava di impossessarsi dell’intera isola. Si decise di pompare acqua di mare sul fronte di avanzamento. La popolazione locale, scettica, prese a chiamare la missione di salvataggio del porto pissa a hraunid.  «A hraunid» significa «sulla lava», il resto si intuisce.

Le operazioni di raffreddamento iniziarono però a regalare qualche piccolo successo. Si decise di insistere. John McPhee racconta nel dettaglio quelle settimane in uno dei capitoli del suo Il controllo della natura (Adelphi, 1995, traduzione di Gabriele Castellari). Fu una guerra di logoramento: un centinaio di pompieri si davano il turno in prima linea ogni paio di giorni. Gli scarponi prendevano fuoco per le alte temperature, il metallo dei macchinari diventava blu di calore, i fumi, i vapori e le ceneri non permettevano di orientarsi, ci si muoveva seguendo il rombo del vulcano. Le emanazioni davano alla gola e l’unico rimedio contro le laringiti era un bicchiere di «medicina norvegese per la tosse»: alcool puro.

 

Sei milioni di tonnellate d’acqua vennero gettate sulla lava utilizzando pompe e draghe, mentre i vigili del fuoco avanzavano sul terreno con i bulldozer e il vulcano si ribellava lanciando ceneri a ottomila metri sulla verticale, sollevando fontane ignee di duecento metri. Quando veniva raggiunto dalla lava, il mare bolliva.

In Islanda le eruzioni vulcaniche sono allo stesso tempo elemento quotidiano della vita di molti e ingrediente determinante del mito fondativo della nazione. Nel suo documentario del 2016, Dentro l’inferno, Werner Herzog ripercorre la via dei vulcani, dalle Hawaii alla Corea del Nord fino all’Islanda. Racconta come, dove la terra ribolle, le fondamenta dell’uomo sono scosse dalla natura, e cultura religione e superstizioni si fondono in un magma primordiale. Perno del film è la scena in cui Herzog, in Islanda assieme al vulcanologo Clive Oppenheimer, sfoglia il Codex Regius, antico manoscritto del XIII secolo. Il brano di apertura, intitolato La profezia della veggente, è una visione allucinata, una descrizione apocalittica della fine degli dèi pagani che assume le sembianze di un gigantesco evento vulcanico.

La terra sprofonda nel mare, il sole si oscura, cadono dal cielo le stelle lucenti. Erompe il vapore e il fuoco dirompente. Giunge la vampa fino al cielo stesso. La sorte io comprendo ma vedo ancora oltre: il destino travolgente degli dei potenti. E viene dalla tenebre il drago volante, Nidhogg, dai monti Nidafjoll. Vola sulla pianura, porta sulle sue ali i morti: egli ora sprofonderà.

Con qualche esagerazione di troppo Herzog descrive il Codex Regius islandese come «un testo che definisce lo spirito di questo popolo, importante quanto i rotoli del Mar Morto per Israele».

Torniamo a Heimaey, nel 1973. Per coordinare la battaglia contro la lava furono indetti consigli di guerra a cui parteciparono militari, difesa civile e scienziati. Gli esseri umani conobbero sconfitte e arretramenti, decine di case furono abbandonate alla furia del nemico. Uno dei testimoni ricorda «sirene, cose che vanno a fuoco, paura delle esplosioni per le fughe di gas, bombe che cadevano».

Il parallelo con la guerra non è solo una suggestione, e l’opzione militare per sconfiggere la lava fu seriamente presa in considerazione. Una cosa simile era già successa nel 1935, quando i bombardieri dell’esercito americano bersagliarono un tubo di lava sul vulcano Mauna Loa, nelle Hawaii, per deviarne il corso. E poi di nuovo nel 1942, durante la guerra – quella mondiale, contro l’Asse Roma Berlino Tokyo – quando alcuni B-18 si presero una pausa dalle attività militari e fecero saltare un argine naturale del fiume di lava che si era creato sempre lungo il Mauna Loa, nel frattempo tornato in attività.

In entrambi i casi i tentativi si rivelarono comunque poco fruttuosi, e vennero vissuti come una violenza dai nativi del luogo, poco interventisti, più fatalisti. Per gli hawaiani i vulcani sono luoghi sacri, centri di pratiche tradizionali ancora vive come la costruzione di templi, lo spargimento delle ceneri dei defunti e di piccole offerte alle divinità.

Alla fine, nella guerra di Heimaey, non ci furono morti e non servirono le bombe: bastarono tanta acqua, un bel po’ di attesa e una piccola dose di fortuna. Dopo cinque mesi di lotta, l’eruzione si fermò. I flussi lavici non avevano raggiunto il porto di Vestmannaeyjar.

Durante il periodo di  trincea, però, l’isola aveva cambiato connotati. Una nuova cima di duecento metri di altezza aveva preso possesso del panorama. Dalla costa fino alle valli interne il paesaggio era stato trasformato. Argine di se stessa, la lava raffreddata si era accumulata, andando ad aumentare del 20% la superficie insulare. Si ricominciò da capo, le case vennero ricostruite su pendii che non erano più gli stessi, nuove piante nacquero in luoghi diversi, su un suolo di nuova formazione.

Solo un oggetto rimase dov’era. Il cenacolo di pietra di Kirkjubaer, una stele alta due metri dedicata a un ministro del culto ucciso dai pirati marocchini nel 1627. Rimosso prima dell’eruzione, è stato riportato al suo posto dopo qualche anno, racconta McPhee. Stessa latitudine e longitudine, ma cento metri più in alto rispetto al basamento originale, ormai ricoperto di pietra lavica.

D’altra parte,  proprio secondo Clive Oppenheimer, il vulcanologo amico di Herzog, la conversione al cristianesimo delle popolazioni islandesi, avvenuta alla fine del decimo secolo, fu facilitata da una devastante eruzione vulcanica che colpì i primi coloni vichinghi sull’isola, grandiosità naturale che venne interpretata come un funesto atto divino. Dove la terra ribolle, le fondamenta dell’uomo sono scosse dalla natura, e cultura, religione e superstizioni si fondono in un magma primordiale.