Mark Fisher vs Roberto Calasso
Iniziamo con una citazione da Musil: «Di tutti questi fenomeni quello più appariscente è una certa tendenza all’allegoria, se si intende con questo un rapporto morale dove tutto significa più di quello che onestamente gli compete». Si tratta di una premessa, nel caso del presente studio, metodologica e al tempo stesso correlata con l’andamento dei tempi che, come si noterà, paiono torcersi ultimamente sino a restituire l’impressione di un rivolgimento all’indietro, per non dire di una ripetizione, piuttosto che di una marcia inesorabile lungo la linea del progresso. Data la ristrettezza di vedute dell’epoca attuale, sarà dunque utile rispolverare anche l’opinione profondamente umanistica di Jurij Lotman secondo la quale quanto più distanti si collocano due pensatori, tanto più ampia sarà la portata delle loro idee considerate nel proprio complesso. E veniamo all’argomento del contendere: due uscite avvenute nel corso dell’ultimo anno sul mercato editoriale italiano segnano il punto di una lettura del presente criticamente orientata che, pur partendo da presupposti ideologici e sensibilità personali apparentemente inconciliabili, si presenta ai nostri occhi quale visione radicalmente pessimista del nuovo secolo in particolare e della civiltà capitalista nella sua interezza.
Fa specie osservare come in effetti tanto Realismo Capitalista di Mark Fisher quanto L’innominabile attuale di Roberto Calasso considerino il tempo nei termini di un eterno ritorno dell’uguale – assai più agevole sarebbe concentrarsi sulle differenze: se per Fisher il tempo gira su se stesso quale risultato delle illusioni percettive generate dai perversi meccanismi del mercato, per Calasso esso è ontologicamente circolare, e tanto basterebbe a stabilire la linea di demarcazione tra una critica marxista eterodossa (ma ben satura di antenati) ed una visione filosofica irrazionalista che individua nel pensiero economico e scientifico la colpa originaria dalla quale dipenderebbe la nostra cacciata dal paradiso terrestre.
Torniamo a Musil con un occhio a Calasso: la seconda parte de L’innominabile attuale è infatti costituita da una cronologia di aneddoti e citazioni che coprono l’arco temporale 1933-1945 e che sembra voler suggerire un’assonanza tra la perdita di significato della realtà oggettiva che ha condotto l’Europa al baratro del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale e lo sfacelo semantico caratteristico del nostro tempo; seguendo il gioco di specchi proposto dall’autore è pressoché impossibile non imbattersi ne L’uomo senza qualità, opera capitale sul disastro che una civiltà si trova a dover fronteggiare in seguito allo smarrimento di una chiave interpretativa del reale che risponda a delle leggi condivise. Ora, se si rovesciasse, come in uno specchio, il senso della citazione di Musil e si smettesse di considerare l’allegoria alla stregua di parola fallace, atta a generare falsificazioni del discorso, ma ci si proponesse piuttosto di operare uno slittamento in senso dialettico di tale antichissima e nobile pratica, la cronologia di Calasso potrebbe svestire i suoi panni di banale ammonimento circa il pericolo delle stesse cose che ritornano e trasformarsi in una preziosa suggestione riguardante il concetto di tempo circolare considerato quale strumento della critica, utile ad operare uno smascheramento del malvagio incantesimo che sta alla base della nozione di Realismo Capitalista esposta nel pamphlet di Mark Fisher.
Vale la pena di notare che alla frenesia cui soggiace il nostro tempo, il primo decennio del XXI secolo descritto da Fisher è sicuramente un’altra epoca rispetto al 2017 de L’innominabile attuale, ma l’ulteriore vantaggio presentato dal pensiero millenarista cui pertiene l’opera di Calasso, al netto delle sue ingenuità profetiche e delle sue parossistiche tonalità apocalittiche, risiede nel fatto di sapersi proporre quale visione del mondo buona, per così dire, per tutte le stagioni.
Sulla scorta di tali considerazioni passiamo dunque agevolmente a considerare un discorso in chiave allegorica sulla tradizione che non si soffermi più di tanto sulle ammuffite gallerie, sui vecchi musei e sul gusto un po’ inquietante per le rovine, quanto piuttosto sulla storia delle idee e della loro ricorrenza; chissà che la depressione oramai proverbiale del compianto Mark Fisher non ne esca nobilitata in un senso veramente, questo sì, rivoluzionario.
È un sentore di rassegnazione a trasparire dalle pagine di Realismo Capitalista – rassegnazione che, a livello narrativo, appare francamente soverchiante rispetto al pallido ottimismo col quale Fisher conclude le sue analisi.
E veniamo a noi, o meglio al 1794, l’an troisième de la République Françoise, une et indivisible: nel pieno degli sconvolgimenti della Rivoluzione Francese compare a Parigi una traduzione delle Ansichten vom Niederrhein di Georg Forster, documento di viaggio attraverso i Paesi Bassi della fine del XVIII secolo e testimonianza imprescindibile sulle prime forme di capitalismo industriale considerate all’interno del loro alveo culturale di riferimento. Leggiamo dalle prime righe della versione di Charles Pougens: «Au lieu d’un soleil dégagé des nuages, nous n’avos eu qu’un ciel gris, mais dont les pâles reflets répandoient sur toute la nature cette teinte romantique qui invite l’ame à une douce mélancolie, source féconde des plus grandes pensées et des sensations les plus délicieuses» ed eccoci al cospetto di una libera interpretazione del testo originale apparentemente contraddittoria ma che cela nel suo nucleo più profondo un orizzonte di possibilità interpretative effettivamente les plus fécondes.
Se infatti può sembrare strano il conferimento da parte del traduttore di uno stato melancolico alla figura di Forster – uomo d’azione, rivoluzionario, grande viaggiatore ed antropologo ante litteram – si consideri la scelta del termine dal punto di vista di una intensa visione interiore associata alla melancolia ed ecco che il suo utilizzo con un’intenzione propriamente politica troverà modo di emergere con chiarezza; lo stato di catatonia e di impotenza tradizionalmente attribuito al prevalere dell’umor nero nel soggetto ipocondriaco può infatti essere indice di una capacità di interpretazione del reale di ordine superiore, non tanto quale espressione del genio melancolico proprio della tradizione umanistico-rinascimentale, quanto per la profonda capacità di osservazione critica che l’individuo melancolico riesce a raggiungere in virtù del suo stato di alienazione. Dalla follia di Hamlet sino a Sterne, passando attraverso Robert Burton e l’introduzione alla sua monumentale Anatomy of Melancholy del 1621, lo stato melancolico si configura quale spia ed indicatore delle storture della società, condizione esistenziale drammatica ma al tempo stesso efficacissimo strumento capace di mettere in luce (ed in ridicolo) le stolte contraddizioni, l’inumana ferocia e il conformismo paralizzante del potere – e nel caso del celebre principe di Danimarca, esso viene proposto addirittura quale motore di una trama finalizzata alla distruzione fisica di quest’ultimo e alla sanguinosa vendetta sulle sue ingiustizie.
Ma è ora di abbandonare il cielo grigio delle Fiandre del 1790 e di tornare indietro, con un balzo di tigre nel futuro, alle infinite possibilità di redenzione della nostra epoca infelice.
Occorre fare attenzione: collocare un’opera teorica al di fuori del suo contesto di riferimento può apparire fuorviante, soprattutto nel caso di un testo qual è quello di Mark Fisher che, partendo da una presa di coscienza su una situazione contingente, finisce col suggerire effettive possibilità di intervento sulla stessa. A differenza dell’intento monitorio del libro di Calasso – che lascia effettivamente il tempo che trova – il saggio di Fisher pare infatti animato dalla volontà di cercare una strada per uscire dall’impasse del tempo bloccato del capitalismo postfordista, come testimoniato dalle conclusive proposizioni circa l’adozione di una pratica politica da contrapporre, giorno dopo giorno, agli inganni e alla violenza di un potere apparentemente invincibile.
Si consideri ora la questione dell’efficacia di tale pratica alla luce della storia più recente, laddove essa risulta essere quantomeno debole per non dire assolutamente inconsistente: al di là delle migliori intenzioni dell’autore, è in effetti un sentore di rassegnazione a trasparire dalle pagine di Realismo Capitalista – rassegnazione che, a livello narrativo, appare francamente soverchiante rispetto al pallido ottimismo col quale Fisher conclude le sue analisi, e che sembra fare da contraltare alle inquietanti qualità del nostro tempo. Tale sentore si manifesta per prima cosa sul piano dello stile utilizzato, e un ulteriore confronto con L’innominabile attuale si rivelerà forse utile, in questo senso, per mettere meglio a fuoco la questione.

Oliver Laric, Sleeping Boy
La prima cosa che balzerà all’occhio da una lettura in parallelo dei due testi sarà una sostanziale divergenza formale nella quale è possibile ravvisare i segni di un’irriducibile diversità di intenti relativi al contenuto: se il libro di Calasso è infatti caratterizzato da un’estrema accuratezza nella tornitura della forma aforistica, da un utilizzo ben calcolato di coltissime citazioni, da una raffinatezza della prosa nella quale l’autore sembra quasi compiacersi di fronte al circolo vizioso tra conformismo e pulsioni di morte cui soccombe – a suo dire – la civiltà contemporanea, tutto il contrario avviene nello stile asciutto del saggio di Mark Fisher.
Laddove il demone di Calasso dipinge un quadro a tinte forti della nostra apocalisse quotidiana, la piattezza espressiva di Fisher accompagna e sostiene un’impietosa disamina dell’ideologia capitalista attraverso la quale egli mette a nudo le sofisticatissime forme di coercizione e le subdole pratiche che ne mantengono inattaccabili le fondamenta profonde e le infinite ramificazioni. Sotto la grande area grigia che sovrasta questo racconto del nostro recentissimo passato, Fisher percorre le tappe di un viaggio che esplora la reificazione dei sentimenti, la monetizzazione dei rapporti umani e l’assimilazione al pensiero egemonico di qualsiasi forma di dissenso.
La monotona lucidità con la quale egli incalza il lettore, la sua geometrica freddezza analitica – che assume, a volte, un tono quasi burocratico – producono un curioso senso di soffocamento generato dalla sovrapposizione tra soggetto, oggetto e destinatario della critica; si avverte, in effetti, una sottile traccia di risentimento a percorrere tutte le pagine di Realismo Capitalista che suggerisce un livello di lettura autobiografico – riscontrabile, del resto, nella maggior parte della produzione di Fisher – nel quale è possibile ravvisare un principio di identificazione, quasi a dire una relazione empatica, tra l’autore e i suoi lettori per tramite dell’opera.
Stress, paranoia e alienazione – le tre teste del drago capitalista – possono essere viste, in quest’ottica, quali elementi attivi della prosa e non più soltanto quali oggetti di una sterile speculazione critica. Il metodo analitico sotteso a questo procedimento rimanda ad alcuni temi ricorrenti nelle ricerche di Mark Fisher sull’ecosistema culturale britannico dell’ultimo trentennio: l’eterno ritorno degli anni ’80 thatcheriani, l’asfissiante onnipresenza del paesaggio mediatico (cfr. James Ballard), il disperato nichilismo nascosto dietro all’utopia millenarista della rave culture, ma anche l’infelicità senza desideri di Ian Curtis e il feroce sarcasmo di Mark E. Smith – tutte espressioni di un umore depressivo con le quali Fisher ha disegnato i contorni di un carattere nazionale votato ad un pessimismo senza speranza, sul quale aleggiano gli spettri di un sistema economico disumano e di una ideologia del mercato totalmente pervasiva; conseguenza di tale drammatica congiuntura è il dilagare inesorabile della piaga della depressione, che egli considera nei termini di una vera e propria malattia sociale.
Ora, se si ponesse questo punto fondamentale della riflessione teorica di Mark Fisher in una prospettiva storico-dialettica, non sarebbe possibile prescindere dalla sopracitata Anatomy of Melancholy di Robert Burton che (ricorda Mauro Simonazzi in La malattia inglese) «già all’inizio del Seicento (…) aveva avanzato l’idea che l’educazione e l’ambiente sociale avessero un’incidenza rilevante sulla predisposizione alla melanconia e che quindi occorresse guardare anche all’organizzazione della società, e non solo all’equilibrio degli umori o all’intervento di cause sovrannaturali per elaborare una terapia efficace» interrogandosi «sul reale statuto della melanconia» e «individuando una specifica causa morale o sociale, che affiancava a quelle di origine medica e a quelle di derivazione teologica». Non solo: lo stesso Burton, rifacendosi alla leggenda sul melancolico Democrito che indagava le cause e le manifestazioni dell’atrabile per curare se stesso, auspicava come fine della sua opera una guarigione dal male sociale che potesse scaturire dalla maniacale minuziosità della sue analisi.
La malefica formula pronunciata da Margaret Tatcher «There’s no alternative» va spezzata utilizzando una chiave magica prima ancora che politica; narrazioni magiche sono infatti quelle che disvelano i meccanismi simbolici del nemico.
Dando per buona questa serie di indizi sul prevalere dell’umor nero all’interno del pensiero di Mark Fisher, è ora possibile tentare di collocare questo autore all’interno di una tradizione melancolica anglosassone la cui genealogia può essere ricostruita a partire dal poema del 1594 The Shadow of the Night di George Chapman; secondo la brillante interpretazione di Frances Yates, in questo misterioso componimento Chapman utilizzava tutto l’armamentario semantico all’epoca in circolazione sulla melancolia per mettere in piedi una strenua difesa dei principi umanistici legati alla filosofia occulta rinascimentale, con l’intenzione di contrastare il dilagante oscurantismo della Controriforma e le violentissime campagne di repressione scatenate dall’Inquisizione nei confronti di tutto ciò che fosse vagamente in odore di stregoneria. Tale utilizzo stabilisce il diritto ad affermarsi, in un contesto propriamente politico, del discorso melancolico.
Appellarsi a una tradizione che ha fatto dell’alienazione il suo vessillo per porre fine all’epoca delle sterili lamentazioni suonerà forse contraddittorio, almeno quanto potrà sembrarlo il fatto che il sistema di pensiero che sta a monte di tale tradizione, pur accettando l’occultismo e la magia quali strumenti della conoscenza, abbia contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo del pensiero scientifico. Simili paradossi non si sciolgono operando tagli netti, bensì sfumandone i contorni. Si consideri, ad esempio, il termine «magia» all’interno di un ordine allegorico del discorso nel quale esso venga a ricoprire il significato di «manipolazione di simboli» (Alan Moore), e lo si metta in relazione con una situazione storica qual è quella attuale, dove il confronto politico è ridotto ad una competizione sul piano dell’efficacia del racconto tra diverse narrazioni: in un simile contesto, una manipolazione di simboli ben ordita può determinare il significato e la potenza di tali narrazioni attraverso l’artificiosa creazione di orizzonti percettivi peculiari; per conseguenza, una pratica politica che voglia essere davvero incisiva nei confronti del potere dovrà tendere necessariamente verso la rottura degli stereotipi che regolano il funzionamento delle sue narrazioni.
Nello specifico del caso, la narrazione incantatrice del capitalismo postfordista di un tempo che gira su se stesso, operante per causa della malefica formula pronunciata da Margaret Tatcher «There’s no alternative», va spezzata utilizzando una chiave magica prima ancora che politica; narrazioni magiche sono infatti quelle che disvelano i meccanismi simbolici del nemico. Nulla che riguardi la pratica della magia potrà, in questo senso, travalicare l’ordine della realtà: nessuna implicazione soprannaturale, nessuna fantomatica teoria sacrificale che avrebbe perso di efficacia in seguito all’affermarsi del pensiero illuminista (Calasso), quanto piuttosto una tecnica di intervento sul reale che si configura, nel nostro caso, per mezzo di lettere e di parole.
La tradizione della melancolia anglosassone dispone in effetti di un arsenale ben nutrito di formule e incantamenti altrettanto efficaci, sul piano simbolico, delle diavolerie thatcheriane: meccanismi dialettici in grado di rimettere in moto un tempo uscito fuori dai cardini, ordigni retorici caricati di magia bianca, le parole della melancolia – e del suo dialettico rovescio, cioè a dire la risata sarcastica – sono in grado di produrre un universo il cui carattere è dinamico, il significato reversibile, la narrazione aperta.

Oliver Laric, Hermanubis
Narrazioni verbose, esattissime per sovraccarico di citazioni ma al tempo stesso sfuggenti per il massiccio impiego di tecniche digressive, stabiliscono la base di un discorso critico realmente proficuo: attraverso l’abbattimento delle regole del gioco narrativo esse producono quello straniamento (Verfremdung, остранѐние) che risveglia le coscienze obnubilate dalla continua ripetizione delle solite, vecchie storie. Sul piano allegorico è possibile intendere una parodia come utopia rovesciata (Robert Burton), far funzionare la digressione come un argine contro lo scorrere del tempo del racconto in direzione della morte (Laurence Sterne), considerare l’ironia alla stregua di caustico reagente atto a disvelare il male metafisico connaturato alla condizione umana (David Foster Wallace).
Lo stesso concetto di «tradizione melancolica anglosassone» è labile, arbitrario, meramente suggestivo ed obbedisce a un criterio estremo di apertura secondo il quale le narrazioni, spesso e volentieri, non arrivano alla fine. Tale antologia dello humour nero trova una valenza politica unitaria sotto il segno di un intento a disarticolare gli equilibri del potere in una chiave strettamente sentimentale: si rilegga, in questo senso, l’aneddoto di Viktor Šklovskij (il più anglosassone dei russi, o viceversa) sulla scelta del titolo per la sua autobiografia: «Tra la compilazione del primo e del secondo libro partii dalla Russia, vissi da Gor’kij nei dintorni di Berlino. C’era da lui un bravo pianista, Dobroven. Mi consigliai con lui sul titolo da dare al libro. Senza averlo nemmeno letto, propose, così a bruciapelo, Viaggio sentimentale. E così lo chiamai. Ora lo interpreto come un rifiuto di vivere ad occhi chiusi».
Il fattore sentimentale che trova nell’autobiografia il suo veicolo espressivo e che stabilisce la relazione empatica tra Mark Fisher e i suoi lettori pare dunque essere il vero metro di giudizio per misurare l’altissimo livello di incisività della sua critica, benché la sua evidente mancanza di verve retorica sembri indicare esattamente il contrario: come si è visto, sul piano allegorico la piattezza stilistica determinata da un umore depressivo può in effetti diventare rivoluzionaria, e persino una pratica politica apparentemente inefficace qual è quella suggerita da Realismo Capitalista ne può uscire caricata di un notevole potenziale sovversivo.
Lo spleenatico torpore che aleggia sul nostro tempo come un cielo delle Fiandre del 1790 trova sempre il suo dialettico rovescio nel ghigno inquietante del teschio del povero Yorick. Questo scherzo senza fine, questa risata che seppellisce, è la formula magica in grado di evocare lo spettro che reclama giustizia nelle sale del potere: «Il futuro non è scritto» sta dicendo; a chi vive ad occhi aperti, il compito di tradurre in atto il suo melancolico richiamo.


