L’orrore secondo Thomas Ligotti
È con sincera felicità (e terrore, ovviamente) che pubblichiamo qui Di notte, al buio: appunti critici sulla narrativa del mistero, il saggio critico di Thomas Ligotti con cui si apre Nottuario, la nuova raccolta di racconti appena pubblicata da Il Saggiatore. Ringraziamo l’editore e il traduttore Luca Fusari per la disponibilità.
Che cos’è il mistero non ce lo insegna nessuno. Lo impariamo nelle fasi iniziali della vita. Il primo incubo, la prima febbre alta, ci iniziano a una società universale e al contempo segretissima. L’iscrizione a questa società si rinnova poi nel corso della vita grazie a una serie di incontri con il soprannaturale che possono assumere molteplici forme e avere facce diverse. Alcune di queste forme e facce sono private, personali, altre le riconosciamo praticamente tutti, volenti o nolenti. Ma sono sempre lì, che attendono di essere rievocate in quei momenti speciali e unici.
Il punto, perciò, è chiaro: nella vita, l’esperienza del mistero è un dato di fatto inevitabile e fondamentale. E come ogni altro fatto di questo genere, prima o poi essa trova spazio in una forma di espressione artistica. Una di queste forme è stata etichettata weird fiction, nientemeno. Le storie di questo genere letterario sono ricettacoli di mistero. Sono un grande museo nel quale il mistero è in esposizione permanente, e si può studiare.
Per esempio, in mostra c’è una notissima storia che fa così: Un uomo si sveglia al buio e cerca gli occhiali sul comodino. Qualcuno gli mette gli occhiali in mano.
È l’ossatura, questa, di tante storie che ci fanno rabbrividire davanti a un mistero incomprensibile. Qualcuno lo accetta, il brivido, e passa ad altro; qualcuno persino tenta di sopprimere la potenza dell’episodio, se lo ha evocato con troppa vividezza. Oppure, al contrario, è possibile, per non dire desiderabile, considerare l’episodio in questione con la massima ricettività, aprirsi a esso in modo tale da consentire ai suoi effetti e al suo potere evocativo di fare presa.
Non è una questione di sforzo volontario; anzi, quant’è più difficile levarsi questa scena dalla testa, se la leggiamo al momento e nelle circostanze giuste. Allora succede che la mente del lettore si riempie del buio della stanza in cui qualcuno, uno qualunque, si sveglia. Allora succede che la parte interna del cranio del lettore si trasforma nelle pareti della stanza avvolte dall’ombra, e la rappresentazione è contenuta in un luogo da cui non si scappa.
L’illusione la crea la stessa materia che rimpolpa la scheletrica impalcatura del mistero. È l’essenza dei sogni, della febbre, degli incontri inauditi.
Per quanto sia una storia scarna, non è affatto priva di trama. Ci sono il più naturale degli incipit, l’azione perfetta nel mezzo, e alla fine una chiusura di sipario che getta ulteriore buio sul buio. Ci sono un protagonista e un antagonista e un incontro tra i due che, sebbene sia improvviso, rimane cristallino nella sua natura decisiva. L’epilogo non serve a chiarire il fatto che l’uomo si è svegliato e ha trovato qualcosa che aspettava lui, e nessun altro, in quella stanza buia. E la stranezza del tutto, guardata dritta in faccia, può segnare a fondo.
Un’altra volta: Un uomo si sveglia al buio e cerca gli occhiali sul comodino. Qualcuno gli mette gli occhiali in mano. A questo punto occorre ricordare che l’aggettivo inglese weird, che sta per «misterioso, soprannaturale, magico», se sostantivato può significare «fato» (tra gli esempi moderni degni di nota, The Weird of Avoosl Wuthoqquan di Clark Ashton Smith, che è appunto «il destino» del personaggio del titolo, profetizzato da un mendicante e consumato da una mostruosità affamata). La sinonimia tra nome e aggettivo insiste sulla resurrezione di una vecchia filosofia, forse la più vecchia: il fatalismo. Percepire, anche a torto, che tutti i nostri passi dovevano portarci a un appuntamento prestabilito, capire che siamo faccia a faccia con qualcosa che forse ci aspettava da sempre: questa è l’impalcatura necessaria, lo scheletro che sostiene la stranezza del weird.
Naturalmente il fatalismo come visione filosofica dell’esistenza umana è da tempo fuori moda, eclissato dal gusto per l’indeterminazione e dal simulacro di un universo «illimitato». Tuttavia, nella vita delle persone in carne e ossa capitano accadimenti capaci di rivitalizzare un punto di vista così antico e irrazionale. Questi accadimenti colpiscono sempre per la loro bizzarria, lo scarto dal normale corso degli eventi, e spesso scatenano una protesta universale: «Perché proprio io?». Stiate certi che non è una domanda, questa, ma un’esclamazione di scalpore. Chi la grida è viziato dallo stupefacente sospetto di essere, a conti fatti, l’oggetto perfetto di un weird, nel senso di destino, molto specifico, fatto su misura per lui, e che un impegno precedente, in tutta la sua misteriosità, sia stato onorato nel momento e nel luogo prestabiliti.
Questo strambo senso del destino è senza dubbio un’illusione. E l’illusione la crea la stessa materia che rimpolpa la scheletrica impalcatura del mistero. È l’essenza dei sogni, della febbre, degli incontri inauditi; avvolge le ossa del mistero e ne riempie le varie forme e ne riempie le tante facce. Perché l’illusione di un destino sia fondata e consolidata, infatti, dev’essere legata a una sostanza fuori dall’ordinario, qualcosa che non consideravamo parte del piano esistenziale benché, a posteriori, non si possa vedere in altro modo.
Dopotutto, non traiamo rivelazioni misteriose dal gesto di vedere una moneta sul marciapiede, raccoglierla e intascarla. Anche se non capita tutti i giorni, è un evento privo di risonanze o implicazioni fatidiche, straordinarie. Ma supponiamo che la moneta si riveli, a ben vedere, simbolo di grande ricchezza e misteriosità. Di colpo una grande sventura cambia la vita di qualcuno; di colpo il corso delle cose devia verso destinazioni totalmente impreviste. Chiunque sia tanto sfortunato da notare sul marciapiede l’oggetto in questione e da avanzare su di esso una pretesa, di colpo si rende conto di una cosa: è stato preso in trappola, il suo destino è segnato.
Quant’è difficile pensare che le cose avrebbero potuto andare diversamente, per lui. La sua vecchia prospettiva di vita si allontana ed è possibile, ora, vederla per l’azzardo che era. Cosa sapeva davvero della strada che la sua vita stava percorrendo prima di imbattersi nella moneta? Pochissimo, ovviamente. E persino adesso, dopo una svolta così melodrammatica, cosa ne sa? Non più di prima, e ciò è ancora più evidente quando, alla fine, egli cade vittima di un oscuro numismatico che rivuole indietro la sua moneta rara. Poi il nostro raccoglitore giunge alla terribile consapevolezza dell’inconoscibile, del misterioso, dell’aspetto veramente assurdo della sua esistenza: il fatto straordinario dell’universo e dell’esserci. Paradossalmente, potrebbe essere l’evento fuori dall’ordinario quello che meglio dimostra la condizione comune della nostra razza.
Se da una parte l’enigma trasuda un’inconfondibile atmosfera cimiteriale, dall’altra minaccia tanto per la sua natura irreale, la sua stranezza che disorienta, quanto per i suoi legami con il gran mondo della morte.
L’effetto principale dei racconti del mistero è la percezione della cosiddetta irrealtà macabra: «macabra» per via dello scheletro del destino, che con il dito scoperto indica una fine tragica; «irreale» per via dell’abito straordinario di tale destino, una veste ampia e svolazzante che non ne svela mai il segreto. Il duplice significato di irrealtà macabra raggiunge il culmine di intensità e strazio nell’enigma che sta al centro di ogni grande racconto del mistero. E da questa qualità prende le mosse ogni valutazione critica del misterioso in narrativa.
Per definizione, il racconto del mistero si basa su un enigma che mai si potrà sciogliere, se è fedele all’esperienza misteriosa – la quale potrebbe avvenire interamente nell’immaginazione dell’autore – che funge da sua unica provenienza giustificabile. Se da una parte l’enigma trasuda un’inconfondibile atmosfera cimiteriale, dall’altra minaccia tanto per la sua natura irreale, la sua stranezza che disorienta, quanto per i suoi legami con il gran mondo della morte.
Di solito questo schema narrativo si contrappone a quello della storia di «suspense» realistica, in cui un personaggio è minacciato da una fine tragica ma familiare e spesso puramente concreta. A prescindere dalle manifestazioni e dai fenomeni identificabili che presenta – i fantasmi della tradizione o gli incubi scientifici dell’era moderna, per esempio –, il racconto del mistero custodisce nel proprio nucleo una sorta di abisso dal quale il misterioso emerge, ma nel quale il misterioso non si può inseguire per analizzarlo o risolverlo. Una certa qualità enigmatica deve essere conservata, se si vuole che queste terribili tragedie mantengano la propria aura. Come colui che trova la moneta «preziosa», l’uomo che si sveglia di notte e cerca gli occhiali si ritrova in prossimità dell’ignoto assoluto, in questo caso sotto forma di cosa senza nome. È un esempio estremo, questo, e forse l’esempio più puro, di trama che torna nella storia dei racconti del mistero.
Un altro e più insigne esempio di racconto del mistero dalla trama enigmatica è Il colore venuto dallo spazio, di H.P. Lovecraft, vero paradigma della misteriosità. Qui una forza di origine e natura sconosciute viene a introdursi e installarsi in un pozzo scuro al centro della narrazione dal quale essa procede a governare come un tiranno senza volto ogni altro meccanismo della trama, innescando un complesso di fenomeni ed eventi. Quando la presenza esce di scena, verso la fine della storia, né i personaggi né il lettore sanno al suo riguardo più di quanto sapessero all’inizio. Quest’ultima affermazione non è del tutto fondata: ciò che tutti inequivocabilmente scoprono riguardo al «colore» è che il contatto con l’apparizione stellare è un’introduzione all’irrealtà macabra che è tanto un luogo comune del misterioso quanto un’esperienza a cui, peraltro, non ci si abitua mai e con la quale mai si è a proprio agio.
Potremmo fare altri esempi di grandi storie del mistero basate su enigmi cruciali, da L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann a The Scar di Ramsey Campbell, ma il punto ormai è evidente: ciò che è davvero misterioso, fatale, soprannaturale, tanto in letteratura quanto nella vita, regge sulle proprie ossa una modica quantità di carne: quanta ne occorre perché si sollevino certe domande e si evochino le appropriate e orribili risposte, ma mai così tanta da trasformare le dita sbrindellate nell’abituale lieta mano della routine quotidiana.
Riconosciamolo: l’idea che a plasmare un destino – destino che inevitabilmente si risolve nella morte – siano eventi straordinari è un modo di rappresentare l’esistenza umana alquanto pomposo e, il più delle volte, volgare. Nondimeno, la narrativa del mistero non ha lo scopo di far luce sulle procedure di routine che la maggior parte di noi segue fino alla tomba, ma di ripristinare un po’ della stupefazione che talvolta proviamo, e che probabilmente dovremmo provare più spesso, davanti all’esistenza nel suo aspetto essenziale. Reclamare questo senso di meraviglia di fronte all’irrealtà monumentalmente macabra della vita è risvegliarsi al misterioso: proprio come l’uomo che si sveglia nell’inferno perpetuo della sua breve storia, scuote la propria sensibilità intontita dal sonno e allunga la mano nel buio a cercare l’oggetto misterioso. Adesso, anche senza occhiali, ci vede. E forse, anche soltanto per quel momento di terrore artificiale concessoci dalla narrativa del mistero, insieme a lui anche noi vediamo.