L’invisibile
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Uno degli ultimi libri della collana Not si chiama 6|5, l’ha scritto un belga di nome Alexandre Laumonier. Il libro racconta la genesi e descrive l’orizzonte del trading ad alta frequenza: secondo l’autore – e una mole schiacciante di fonti – l’automatizzazione del mercato finanziario ha generato un ecosistema così complesso da essere scivolato dalle mani di chi, sul finire del Novecento, ne augurava l’ascesa. In qualche microsecondo vengono comprati e venduti titoli spremuti per marginare frazioni di centesimo in quella che chiamiamo Borsa, un ologramma che nasconde «uno spaziotempo dove umani e non umani provano a comprendersi a vicenda».
Invano, viene da aggiungere, leggendo il saggio di Laumonier. Da almeno dieci anni i mercati non hanno niente in comune con gli scenari douglasiani di Wall Street, il film: secondo gli stessi protagonisti di questa rivoluzione non abbiamo la minima idea di quale sarà il prossimo fotogramma. Un’altra storia che non dipende più da noi.
Se il mondo è nelle mani del caso, e se chiamiamo caso una quantità d’ordine che supera le nostre capacità di calcolo, con chi dobbiamo prendercela?
Nel secondo capitolo di Antropologia dei disastri (Laterza), Gianluca Ligi illustra delle scene di un documentario che in Italia è stato chiamato I Saami della Lapponia all’ombra di Chernobyl. Realizzato da Georg Henriksen, antropologo, e diretto da Peter Carr, il film racconta gli effetti di quando, dopo giorni di sospensione, un velo di cesio radioattivo si è disteso sulla valle norvegese di Brurskanken, impregnando i licheni di cui si nutrono le renne. Delle renne si nutrono i Saami come Tomas Renberg, un pastore settantenne, «un uomo dal carattere forte, abituato al lavoro duro e a prendere decisioni drastiche, a volte dolorose».
Intervistato da Henriksen, Tomas non guarda l’obiettivo perché ha paura di qualcosa – sta cercando di capire cosa sta attraversando la sua vita: «nel nostro lavoro con le renne noi Saami abbiamo dovuto affrontare molte situazioni difficili, ma abbiamo sempre trovato una soluzione nel corso degli anni. […] Finora siamo riusciti a risolvere tutti questi problemi perché sono difficoltà che possiamo vedere con i nostri occhi». I Saami hanno dato un nome alla contaminazione: il nemico invisibile. Un’invisibilità che va interpretata lato sensu, come qualcosa di impercettibile anche per olfatto, gusto, tatto e udito. Le nostre azioni sulla Terra ci costringono a una teologia negativa che si sviluppa oltre i nostri sensi… Non crediamo neanche in noi stessi.
La fede
Come tanti, sono cresciuto in una casa dove a cena si guardava il telegiornale e, come altrettanti, negli anni ho prolungato questa abitudine insalubre e ossessiva guardando roba sul computer. L’altro giorno ho trovato per caso una puntata di «Nel Sud di Ernesto De Martino», uno speciale del 1977. Si tratta di tre documentari raccolti in un video di cinquanta minuti; ho bisogno di scrivere del terzo (inizia a 20:48), La possessione, perché quando è iniziato si sono abbassate le luci. Ho iniziato a guardarmi intorno.
La possessione è stato girato nel 1971 a Serradarce, una frazione di Campagna (un comune che oggi conta 17.000 abitanti), in provincia di Salerno. La voce narrante è pacifica, ad agio con la storia che segue: al culto di Sant’Antonino, santo taumaturgo – liberatore dal demonio, se ne sono affiancati di nuovi, esorcismi dai connotati magici: a Campagna, e poi in larghe macchie di Meridione, si è diffuso il culto del Glorioso Alberto. Un culto eretico germinato intorno a Giuseppina Gonnella da quando di lei si è impossessato lo spirito del nipote, Alberto appunto, un ventunenne ucciso da una manovra sciagurata del camion dello zio, fratello di Giuseppina.
Il documentario propone i primi piani di Alberto accompagnati dalle sonorizzazioni di Egisto Macchi, una composizione agghiacciante che anticipa di decenni Laura Palmer costretta nella cornice. Agli occhi del ragazzo segue il racconto della genesi del culto: la medium, prima di quel giorno casalinga e madre di cinque figli, è entrata in un sonno catalettico pochi giorni dopo la tragedia, mentre si trovava nella casa del ragazzo. Da quell’anno, per quattordici anni, ogni mattina (dei giorni feriali) è stata invasa dalla voce del ragazzo, diventando Altro, il guaritore Giuseppina-Alberto.
«Il camion dell’incidente mortale diventa anch’esso oggetto e culto di venerazione», sfiorato con devozione e panico, illuminato dai ceri e dai fiori. Dai villaggi più depressi della penisola – e non solo – si fanno strada gli ex voto, arrivano le utilitarie, i pullman, ci sono automobili targate Svizzera; vengono per curarsi da mali dell’anima, invisibili, da maledizioni e condanne. C’è chi dona l’abito nuziale, chi non ha niente e dona i suoi capelli; nel tempio-garage che accoglie Giuseppina-Alberto c’è chi piange, chi urla disperato, bambini, anziani, gli occhi enormi dei morti di fame. I 200.000 visitatori annui, le offerte cospicue, il 45 giri dell’Inno a Sant’Alberto…
Giuseppina-Alberto viene uccisa da due proiettili di 9 mm nell’addome. Su La Stampa del 15 gennaio 1972, Francesco Manganelli – l’uomo che ha sparato nascosto dalla folla – dichiara che il suo obiettivo era «stroncare un commercio che prosperava sulle sciagure umane e darle una lezione davanti a tutti». I proseliti della sensitiva, invece, parlano già di martirio: «si è sacrificata per noi. La nostra fede non verrà mai meno». Voleva accompagnarci dall’invisibile al visibile, l’abbiamo uccisa con un fucile che spara ai lupi.