Letteratura del disastro
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Per molti scienziati, quelli che stiamo vivendo sono anni irripetibili. I biologi, per esempio, possono scegliere una specie da studiare e guardarla mentre si estingue nel corso di poche stagioni. Lo stesso vale per fisici e glaciologi interessati al polo Nord, che nel giro di qualche decina d’anni potranno assistere, per la prima volta in assoluto, a un’estate artica senza neanche un cubetto di ghiaccio nell’Oceano. Scopriranno così anche loro quel brivido già noto agli oceanografi che hanno osservato – spesso in prima persona, al di là del vetro della loro maschera da sub – lo sbiancamento dei coralli delle grandi barriere australiane e la devastazione di quegli ecosistemi marini.
Siamo spettatori di una storia avvilente, angosciante, difficile da comprendere nella sua interezza. Raccontarla ci può aiutare a capirla meglio? Ci può dare qualche indizio su come superarla? Qualche mese fa, sul New Yorker, Elizabeth Kolbert (premio Pulitzer con il suo La sesta estinzione, 2014, tradotto in Italia da Cristiano Peddis per Neri Pozza) ha stilato una piccola bibliografia di quello che sembra quasi un nuovo genere letterario, la «letteratura di testimonianza del disastro», libri di divulgazione che cercano di raccontare la crisi climatica che stiamo attraversando, e alcune delle sue conseguenze. Tra i tanti, Kolbert cita:
In Search of the Golden Frog di Martha L. Crump
Extinction in Our Times di James P. Collins
Requiem for Nature di John Terborgh
Silence of the Songbirds di Bridget Stutchbury
The Last Rhinos di Lawrence Anthony e Graham Spence
Planet Without Apes di Craig B. Stanford
Witness to Extinction di Samuel Turvey
A Farewell to Ice: A report from the Arctic di Peter Wadhams (in Italia Addio ai ghiacci. Rapporto dall’Artico, Bollati Boringhieri)
Brave New Arctic: The Untold Story of the Melting North di Mark C. Serreze
Coral Whisperers: Scientist on the Brink di Irus Braverman
L’articolo del New Yorker è uno dei tanti pezzi usciti a ottobre a seguito della pubblicazione del nuovo report dell’IPCC (il panel intergovernativo sul cambiamento climatico) che ha ridestato dal torpore mediatico giornali e televisioni, costringendoli a tornare a parlare seriamente di riscaldamento globale (interesse fugace che in Italia è rimasto comunque per lo più confinato ai media online: solo La Stampa ha dato la notizia in prima pagina sul cartaceo e Radio3 Scienza è stata una delle poche trasmissioni radio e TV a commentare approfonditamente la notizia).
Da dove viene questo documento? Nel 2015, a Parigi, la 21ª sessione annuale della conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (per brevità COP21) ha chiesto ai governi mondiali di fermare il riscaldamento globale sotto i 2 gradi centigradi, con l’ambizione di arrivare sotto il grado e mezzo. Perché non bastano 2 gradi centigradi, hanno chiesto allora i governi mondiali? Perché guardate qua che casino, ha risposto l’IPCC con questo documento, appunto, che è una meta-analisi e una sintesi della letteratura scientifica disponibile sul tema (un compendio di decine di migliaia di articoli).
Lo scarto tra i due scenari, quello a +1,5°C e quello a +2°C, è un divario netto, e dobbiamo tenerlo bene a mente se vogliamo quantomeno mitigare le conseguenze ambientali, economiche, sociali e le implicazioni sulla salute umana alle quali comunque andremo incontro. «Abbiamo 12 anni per porre un limite alla catastrofe dei cambiamenti climatici», ha titolato il Guardian, mentre il New York Times ha, tra le altre cose, pubblicato un articolo di confronto tra i due possibili mondi con tanto di gif illustrative di immediata comprensione.
Il futuro, ora, è una questione puramente politica. Convertire la domanda energetica dei Paesi in via di sviluppo – con una popolazione in crescita – e contenere, governare e bilanciare le emissioni dell’Occidente sarà un esercizio di equilibrio massacrante. L’unica via percorribile è secondo molti quella dello sviluppo tecnologico: riuscire ad aumentare l’efficienza energetica e la produzione di energia rinnovabile, e in parallelo diminuire la produzione antropica di gas serra e ideare metodi di rimozione della CO2 dall’atmosfera. Tecnologie che oggi sono ancora instabili, inaffidabili, embrionali: per rimanere sotto il grado e mezzo, secondo il report IPCC, a livello globale dovremmo investire 900 miliardi di dollari l’anno.
Secondo Robert Socolow, climatologo dell’Università di Princeton, siamo di fronte a quel tipo di problema che all’inizio sembra insuperabile, o sconveniente, magari trascurabile, ma che poi, dopo un cambio di mentalità e di paradigma del sistema, si riesce almeno in parte a superare: come abbiamo fatto con il lavoro minorile, dice Socolow, o con la schiavitù.
È una citazione che ho ripescato in un libro scritto proprio da Elizabeth Kolbert: Field Notes from a Catastrophe – Man, Nature, and Climate Change, che ho ripreso in mano in questi giorni non senza un brivido di sconforto nel constatare che nei 12 anni passati dalla sua pubblicazione sembra essere cambiato molto poco. In quello stesso libro Marty Hoffert, professore di fisica all’Università di New York, si lancia in un’altra similitudine:
L’idea che siamo già in possesso delle capacità scientifiche, tecniche e industriali per risolvere il problema delle emissioni è vero nello stesso senso in cui, nel 1939, le competenze tecniche e scientifiche per costruire armi nucleari erano già disponibili. Ma ci volle il Progetto Manhattan per renderle reali.
Abbiamo bisogno di un Progetto Manhattan per il clima. E perché i governi decidano seriamente di attuarlo ci vuole la pressione di una massa critica di cittadini coinvolti. E perché si crei questo interesse, perché venga avvertita questa urgenza, c’è bisogno di strategie di comunicazione migliori. Qui torniamo alle storie.
Come succede ciclicamente in questi casi, dopo la pubblicazione del report IPCC, tra intellettuali, attivisti e divulgatori è partita l’analisi della sconfitta. Perché, se la situazione è così grave, la gente non si interessa a questi temi? Cosa sbagliamo nel comunicarli? C’è un limite intrinseco, cognitivo, nel riuscire ad assorbire questo tipo di messaggio? Oppure le nostre storie non sono abbastanza potenti? Bisogna essere più o meno catastrofisti, più o meno ottimisti, spingere per salvare il salvabile o tentare di dare una scossa forte, per puntare a un cambiamento radicale?
Secondo l’Eurobarometro, in Italia, il riscaldamento globale è il primo problema mondiale solo per il 7% delle persone. Jonathan Gottschall qualche anno fa ha scritto un libro di successo, L’istinto di narrare (Bollati Boringhieri), con una tesi seducente: le storie sarebbero il riflesso di qualche funzione biologica che ha guidato la nostra evoluzione, e per questo funzionano, perché la narrazione è un bisogno universale dell’essere umano. Parlare di climate change e farlo in prima persona, come nei libri scritti e citati da Kolbert, ha aumentato consapevolezza e interesse del pubblico. Ma che succede quando qualcuno decide, a priori, di non voler ascoltare quello che raccontiamo?
Da più di trent’anni vengono ripetute le stesse cose, gli stessi allarmi, con un grado di precisione sempre più elevato e una crescente urgenza, discorsi accolti da trent’anni con lo stesso scetticismo e stupore.
Qualche giorno fa Marco Ferrari, per il Tascabile, è andato a spulciare le seconde file della sua libreria per tirarne fuori i libri divulgativi che raccontavano di cambiamenti climatici già a partire dagli anni Settanta e Ottanta. «Sappiamo con precisione qual è la storia scientifica delle ricerche sui cambiamenti climatici, ma da quanto tempo ne stiamo parlando anche a livello divulgativo? Da quanto tempo l’opinione pubblica è a conoscenza del riscaldamento globale per cause antropiche? E come se ne parlava, all’epoca, del problema?».
In breve: non solo tra gli scienziati, ma anche tra un pubblico più vasto, da più di trent’anni vengono ripetute le stesse cose, gli stessi allarmi, con un grado di precisione sempre più elevato e una crescente urgenza, discorsi accolti da trent’anni con lo stesso scetticismo e stupore, e poi immediatamente rimossi con la stessa velocità.
«Le notizie di questi mesi, e gli scenari niente affatto inediti del report dell’IPCC dello scorso ottobre, non possono insomma aver colto di sorpresa politici ed economisti», scrive Ferrari. «A meno di non presumere una totale e abissale ignoranza delle sorti dell’ambiente, una altrettanto notevole noncuranza o una palese malafede».