L’era di Internet è nata su un tappetone ambient
Pubblichiamo la prefazione alla nuova edizione di Oceano di suono. Musica ambient e ascolto radicale nell’era della comunicazione, il classico di David Toop da poco riproposto da add con nuova traduzione di Michele Piumini, ringraziando l’editore per la disponibilità.
Negli anni mi è capitato spesso di descrivere Oceano di suono come “uno dei libri di musica più importanti mai scritti” – e ogni volta la definizione mi è sembrata fuorviante, imprecisa, non in grado di restituire il respiro di un’opera che, in un impeto di entusiasmo, il mensile The Wire arrivò a paragonare nientemeno che alle Città invisibili di Italo Calvino – un’investitura che a qualcuno potrà sembrare fuori misura (in effetti, il fatto che tra i collaboratori dello stesso The Wire ci fosse Toop in persona qualche legittimo sospetto lo alimenta…), ma che a suo modo restituisce quel misto di sorpresa, incantamento e trasognata eccitazione che colse i primi lettori di un’opera rimasta da allora tra le più cruciali letture del cambio di paradigma intervenuto con la rivoluzione digitale di fine Novecento.
Quando Oceano di suono uscì originariamente in Inghilterra era il 1995 – l’anno in cui, per restare alle musiche prese in esame da Toop, escono dischi come …I Care Because You Do di Aphex Twin, Orbus Terrarum degli Orb, e Brian Eno collabora con Jah Wobble nell’album Spinner. Ma anche l’anno in cui, dall’altra parte dell’Oceano, si spalancano i portali di quella che di lì a breve diventerà nota come “bolla dot.com”, con colossi informatici oramai semidimenticati quali Yahoo e AltaVista che muovono i primi passi, mentre Larry Page e Sergey Brin gettano le fondamenta di Google e Jeff Bezos lancia Amazon. Quanto questi due mondi siano tra loro legati – e quanto di questo legame Oceano di suono sia un documento inestimabile – lo vedremo poi; per il momento, basti sapere che, come scrittore, Toop aveva esordito una decina d’anni prima con un libro solo apparentemente lontano dalle tematiche al centro della sua opera più nota: uscito nel 1984, si intitolava Rap Attack e, com’è facile intuire dal titolo, era un pionieristico tentativo di indagare l’ancora giovane cultura hip hop.
Per una fetta non trascurabile di lettori in primo luogo bianchi (compresi quelli italiani, che lo conobbero in un’edizione curata dalla torinese EDT e uscita solo a metà anni Novanta), Rap Attack rappresentò una prima, parziale immersione nei temi e negli immaginari al centro dell’ultima grande rivoluzione interna al discontinuum black americano. Scritto con fare divulgativo e non esente da occasionali errori e semplificazioni, fu il testo che rese Toop uno dei più riveriti critici del panorama pop britannico, ma anche una fonte imprescindibile per chiunque fosse interessato alle evoluzioni che, di lì a qualche anno, porteranno all’esplosione – dapprima in Inghilterra, poi nel resto del globo – della cultura rave. Ancora nel 1984, si deve a lui uno dei più celebri articoli di copertina della “bibbia dello stile” The Face, quello che – splendidamente illustrato dai caratteristici logotypes di Neville Brody – annunciava l’avvento del “New Sound of the City”: una “sinister robot music” chiamata electro che, nata dagli stessi sottoboschi hip hop già indagati in Rap Attack, avrebbe svolto un ruolo chiave nel definire la futura grammatica del suono techno.
Sempre su The Face, Toop tenne per anni una fortunata rubrica principalmente dedicata alle nuove sonorità imperversanti per i club di Londra e New York: volevi capire chi si celasse dietro la misteriosa sigla M/A/R/R/S, autori nel 1987del classico house “Pump Up the Volume”? Ti interessava saperne di più su questa fantomatica “Second Summer of Love” che nell’estate del 1988 battezzò un’espressione fino a quel momento ignota ai più quale “rave party”? David Toop era la firma che faceva per te. All’inizio degli anni Novanta, arrivarono quindi le collaborazioni con The Wire da una parte e Mixmag dall’altra: il primo era un ex mensile di musica jazz improvvisamente convertitosi alle non meglio identificate “nuove sonorità” che cominciavano a mescolare elettronica e rock, suoni sperimentali e sensibilità pop; il secondo era uno dei magazine di riferimento del mondo clubbing: principalmente rivolto ai dj, al culmine della stagione rave arrivò a vendere 70.000 copie a numero.
È su queste testate che Toop inizia a indagare un inaspettato sottoprodotto dell’euforia rave: il ritorno dei placidi, eterei, confortevoli suoni della cara vecchia musica ambient, originariamente formalizzata da Brian Eno nel remoto 1978 all’interno dell’album Music for Airports. In articoli quali “The Chill Out Zone” (uscito su Mixmag nell’ottobre del 1992) e nelle recensioni di artisti quali Aphex Twin e Mu-Ziq scritte per The Wire, Toop getta quindi i semi di quella sorta di affresco ennedimensionale che sarà Oceano di suono, da allora ricordato come il “libro sulla musica ambient” definitivo ma anche primo titolo di una immaginifica trilogia della techno-era poi completata da altri due autori anch’essi britannici quali Kodwo Eshun (che nel 1998 pubblica Più brillante del sole) e Simon Reynolds (che nello stesso anno replica col classico Energy Flash).
Oceano di suono rappresenta il culmine del percorso che Toop aveva intrapreso come critico musicale a partire dal 1984: per molti il suo capolavoro, di certo è tuttora il suo libro più amato. Solo che un critico musicale Toop lo era diventato fondamentalmente per caso – se non addirittura contro la sua volontà, come lo stesso Toop ammetterà molti anni dopo, in quella sorta di autobiografia sonora intitolata Flutter Echo (2019). Perché in effetti, da tanti punti di vista, Rap Attack e le rubriche su The Face, gli articoli su Aphex Twin e le interviste ai principali nomi del rinascimento ambient, significarono per lui l’inizio di una vera e propria seconda vita, parallela e successiva a una ricerca inaugurata almeno un quindicennio prima, oltretutto lungo traiettorie sulla carta parecchio distanti tanto dalle musiche di strada del Bronx quanto dalle colorate tinte intrise di MDMA della stagione rave.
Gli ambienti più eterodossi della scena musicale britannica se lo ricordavano bene: era dall’inizio degli anni Settanta che il nome di Toop circolava nei sottoboschi inglesi – e non sotto le sospette spoglie dello scrittore di cose di musica, ma in veste di musicista o meglio ancora compositore, per giunta di estrazione cosiddetta “colta”. Per chi era abituato ad associarlo alle coloratissime pagine di The Face e agli articoli su LL Cool J e i NWA poteva essere una sorpresa, ma in realtà le radici di Toop affondavano non nel pop, quanto nella grande stagione propiziata dalla nuova avanguardia in primo luogo americana: minimalismo, improvvisazione radicale, sperimentazione elettronica per oscillatori e nastri…
Ben prima che le sue attenzioni si concentrassero sulla nascita del rap nei ghetti di New York e su quella “sinister robot music” chiamata electro, per Toop c’erano stati il piano preparato di John Cage, i bordoni di LaMonte Young e la repetetive music di Steve Reich. Nel 1975, assieme al sodale Max Enstley – altro irregolare della scena sperimentale britannica ed eccentrico costruttore di strumenti musicali fai-da-te – incise un album per la storica serie Obscure della Islands Records, appositamente concepita da Brian Eno al fine di ospitare gli esiti meno accademici dell’avanguardia postminimalista. E un’etichetta, ancora alla metà degli anni Settanta, l’avrebbe fondata anche lui: chiamata Quartz Publications, oltre ai lavori di Toop e relativi collaboratori pubblicò antologie di musica tradizionale della Nuova Guinea e del Venezuela, a metà tra approccio etnografico e ricerca sul campo.
Quanto però già all’epoca il futuro autore di Oceano di suono fosse poco inquadrabile in qualsivoglia scuola o tendenza lo dimostra il crescente coinvolgimento in progetti distanti assai dalla supposta seriosità che sempre perseguita gli arcigni circoli dell’avanguardia. Alla fine degli anni Settanta lo ritroviamo all’interno dei Flying Lizards, strambo ensemble a metà tra collagismo prankster e post-punk artistoide, coi quali finirà persino a esibirsi nel sancta sanctorum della pop music made in UK, il programma televisivo Top of the Pops. Tra 1979 e 1980 registra assieme a Steve Beresford un album rimasto di culto quale Danger in Paradise a nome General Strike, che però sarà pubblicato solo nel 1984 (per giunta solo in formato cassetta): ispirato contemporaneamente al jazz interstellare di Sun Ra, al dub di King Tubby e Lee Perry, alla exotica di Les Baxter e alla stessa musica ambient da poco battezzata dall’amico Brian Eno, Danger in Paradise è assieme un’anticipazione e un compendio dei temi che, quindici anni dopo, saranno al centro di Oceano di suono. Ascoltarlo è ancora oggi un ottimo indizio per comprendere il metodo-Toop, la cui enciclopedica conoscenza delle contorte geografie sonore postbelliche – di nuovo: dall’avanguardia al pop, dal jazz alla muzak di consumo, dalle sperimentazioni colte a quelle da cameretta degli imberbi produttori fai-da-te armati di drum machine e campionatore – viene sempre stemperata da una sorta di giocosa leggerezza, di dadaismo gentile figlio degli insegnamenti di John Cage, ma anche di un sano, spudorato principio del piacere derivato dall’eterna passione per le musiche da classifica della sua adolescenza, in primo luogo soul e R&B.
Per tutta la seconda metà degli anni Ottanta, non senza rimpianti, i crescenti impegni nel campo del giornalismo allontaneranno sempre di più Toop dalla musica sia scritta che suonata. Ma quando, all’inizio degli anni Novanta, pubblico e critica vengono investiti dalla nuova mania “ambient house” alimentata dagli imprevisti successi di nomi quali KLF e The Orb, l’ex compositore convertitosi in columnist pop si ritrova in una posizione privilegiata. Non solo ha seguito passo dopo passo tutte le fasi che, dalla nascita di electro, techno e house, hanno plasmato la nascita della cultura rave di cui la ambient house è filiazione diretta, ma è anche tra i pochi a vantare una conoscenza in prima persona delle radici profonde di quegli stessi suoni: che stanno, sì, nei ritmi ipnotici della nuova musica da ballo elettronica, ma anche negli altrettanto mesmerici tappeti sonori del minimalismo firmato Terry Riley e Steve Reich, nei bordoni estatici di quel discepolo di John Cage che fu LaMonte Young, nei primigeni impressionismi di Claude Debussy ed Erik Satie, oltre che – ci mancherebbe – nella stessa musica ambient per come originariamente concepita dal solito Eno.
La passione di Toop per le musiche black e la sua familiarità con le grammatiche sonore dell’afro-diaspora gli permettono inoltre di rimbalzare tra le ingessate posture del canone colto bianco e le persino più dirompenti innovazioni introdotte dal dub giamaicano (con la sua idea di, per citare Kodwo Eshun, “spazializzazione interna dalla canzone” attraverso un’apposita “mitoscienza del mixer”) e dal jazz contagiato dal virus elettronico di Sun Ra e Miles Davis (che assieme al produttore Teo Macero tanto ruolo ebbe nell’espandere le potenzialità “ambientali” dello studio di registrazione, e che della musica ambient fu involontario precursore – vedi le foschie elettriche di un brano come “He Loved Him Madly”, anno 1974).
Di tutti questi passaggi, Oceano di suono restituisce una mappa tanto precisa quanto suggestiva, complice le divagazioni ellittiche di una prosa visionaria ma al contempo cristallina, leggera, mai seriosa e anzi attraversata da uno humor a volte svagato, a volte malinconico, raramente acido. Nel 1996, il successo del libro porterà alla compilazione di un fortunato doppio disco di accompagnamento, una specie di compendio ambient a 360 gradi intitolato anch’esso Ocean of Sound, con dentro tracce di King Tubby e Debussy, Aphex Twin e Sun Ra, Terry Riley e My Bloody Valentine, Brian Eno e Les Baxter. La musica da sola, però, non basta a spiegare Oceano di suono, il suo successo iniziale, la sua influenza negli anni a venire. Né il fatto che, in quel primo scorcio di anni Novanta, la musica ambient fosse tornata a destare tanto interesse può essere derubricato a mera moda passeggera o peggio ancora tendenza di mercato.
D’accordo: secondo la lettura di rito presso i commentatori dell’epoca, il rinascimento ambient a quasi quindici anni dai primi esperimenti di Brian Eno celava una ragione ben precisa, di natura – diciamo così – “funzionale”. Era una specie di effetto collaterale della cultura rave che, danza dopo danza dopo danza (e pasticca dopo pasticca dopo pasticca), aveva prodotto un diffuso – ehm… – senso di affaticamento nella generazione che per prima sperimentò il magico connubio musica elettronica da ballo + sostanze psicotrope da laboratorio. Detta senza troppi giri di parole: le sonorità avvolgenti della musica ambient, le sue proprietà calmanti e distensive, fornivano la perfetta musica di decompressione utile a lenire i postumi della danza (e delle droghe) a party concluso, quando gli effetti dell’ecstasy scemano e a restare è solo una nube confusa di good vibes inebetite.
C’è senz’altro del vero in questa lettura, oltretutto comprovata da una serie di passaggi storici di cui lo stesso Oceano di suono fornisce un resoconto pressappoco in diretta (vedi le pagine su Land of Oz e sulla prima ondata di “serate chill out”). Per Toop però – per citare un suo noto articolo del 1992 – la musica ambient non era solo “la colonna sonora d’elezione delle sale chill out”: piuttosto, era un vero e proprio “suono del futuro”. La sua commistione di sonorità elettroniche e atmosfere pastorali, residui new age e futuribili slanci hi tech, tradiva i caratteri di uno smottamento più profondo, portando alla luce quello che fu il vero e proprio zeitgeist all’alba dell’Era della Rete.
Fu sempre Toop a notare come, negli anni immediatamente precedenti all’uscita di Oceano di suono, la ambient era diventata, da semplice corrente musicale tra le tante, una “parola adesiva polisemantica che si attacca ovunque si posa”. Più che una musica era ormai un termine in codice, forse addirittura un movimento culturale. La sua grande fortuna non era tanto da ricercarsi nei postumi del dopo-rave, né poteva ridursi ai ciclici meccanismi di hype che da sempre determinano i gusti del pubblico pop. Erano semmai le sue qualità innate – tecnologia e pace dei sensi, elettronica pastorale e animismo tecnologicamente mediato – a fornire la dimostrazione pratica di quanto, in quel primo scorcio di evo internettiano, “l’elettronica, l’immateriale e la spiritualità sono diventati sinonimi”: un’equivalenza cara innanzitutto ai famigerati techno-sciamani di cui Toop rende testimonianza nel suo scritto del 1995, ma anche il dogma di tutti i più invasati esegeti del nuovo verbo digitale, convinti (ieri come oggi) che l’avvento di Internet altro non fosse che il preludio a una futura Coscienza Cosmica informaticamente implementata.
Non è questa la sede per approfondire quanto la musica elettronica, in particolar modo nelle sue varianti ambient, abbia influenzato alla radice la visione del mondo di tanti futuri guru della Silicon Valley, Basta un episodio: ancora nel 1995, in copertina della “bibbia di Internet” Wired finisce il padrino dell’ambient in persona, Brian Eno. A intervistarlo non è un banale critico musicale, ma Kevin Kelly, messianico autore di un classico della prima cybercultura quale Out of Control, il testo a cui – vuole la leggenda – le sorelle Wachowski si sarebbero ispirate per la saga Matrix. Di Wired Kelly era a dire il vero uno dei fondatori, ma prima ancora era stato tra i collaboratori di Stewart Brand, l’ex hippie che nei tardi anni Sessanta si era inventato il Whole Earth Catalogue, la bibbia del fai-da-te il cui motto “Stay hungry, stay foolish” tanta influenza ebbe sulle successive generazioni di smanettoni che nei garage di California stavano preparando la rivoluzione digitale – Steve Jobs in primis, com’è noto.
Fantasie new age e utopie al silicio, fricchettonismo kitsch e cieca fede nel potere della tecnologia, good vibes bucoliche pescate da qualche comune agricola di nudisti capelloni e ultraliberismo tecnocratico ispirato all’oggettivismo di Ayn Rand: da questa accozzaglia di suggestioni tra il demenziale e il naif, la Silicon Valley eresse non solo l’immaginario di riferimento, ma una vera e propria ideologia. E quando, negli anni Novanta del Novecento, le camerette degli adolescenti di mezzo mondo cresciuti a Pac Man e svezzati a MDMA vennero finalmente invase dalla prima diffusione di massa del personal computer, questa stessa ideologia venne propagata, oltre che dai roboanti editoriali di Wired, dai rilassati, ottimisti, meditabondi e al contempo (quasi sempre) sintetici tappeti sonori della musica ambient, vecchia o nuova che fosse.
Nonostante oggi rimpianga di “non aver previsto un futuro assai più oscuro per il web”, già nel 1995 Toop era consapevole di quanto, dietro l’utopia ambient dei primi anni Novanta, covasse la distopia tecno-turbocapitalista post-Californian Ideology. L’ironia sottile di tante pagine di Oceano di suono, la sua profezia sul prossimo venturo “fuoco di bivacco hi-tech” dominato non dalle dotte disquisizioni sui radiosi destini dell’umanità iperconnessa ma dal mero chiacchiericcio fine a se stesso, stanno lì a dimostrarlo. E se è vero che, in un moto di modestia, per il suo autore Oceano di suono altro non rappresenta che un “pretesto per un discorso ben più ampio sulla musica sperimentale novecentesca”, la realtà è che Oceano di suono è tuttora un documento cruciale per chiunque, pur non interessato alla musica, voglia comprendere le origini di quella Civiltà della Rete inizialmente sospinta dal lento arrancare di un modem a 56k e dalla sigla di avvio di sistemi antidiluviani come Windows 95 (a tal proposito: sigla composta indovinate da chi? Ma dall’onnipresente Brian Eno, che domande).
In questo senso, Oceano di suono merita di stare a fianco di classici tra loro diversissimi e in qualche caso inconciliabili quali Techgnosis di Erik Davis, Smart Mobs di Howard Rheingold, lo stesso Out of Control di Kevin Kelly o le criptiche theory fiction del giro Nick Land/CCRU; testi che non solo hanno descritto l’alba di un’era che all’epoca ancora restava in bilico tra utopia cyber e incubo da società del controllo, ma che di tale era hanno fornito quella che oggi chiameremmo la lore: l’apparato mitico senza la cui comprensione il presente è destinato ad apparirci persino più nebuloso e informe di un vecchio tappetone ambient.