Le eredità di Ted Kaczynski
Quando si inceppa la macchina del mondo
di Claudio Kulesko
Dovremmo essere grati a Theodore “Ted” Kaczynski per aver infiammato, e proiettato al di là dei confini del possibile, l’immaginario di movimenti di ogni genere e tipo – non solo ambientalisti, non solo di sinistra, non solo di destra. Un aspetto che sembra non entusiasmare molti in Italia, anzi. Nelle ultime settimane, qualcuno si è spinto persino a celebrare la morte di altri personaggi noti, politici e artisti, per come tali scomparse siano riuscite a interrompere in modo prematuro le riflessioni sul mito, il pensiero e la vita del più famoso ecoterrorista dell’epoca moderna.
Perché accade questo? La risposta di Ted K sarebbe stata grossomodo questa: perché chi vive in modo gregario, nutrendosi di concetti stantii e pacche sulle spalle, non sopporta che qualcosa esca dalle proprie coordinate. Perché l’unità di pensiero e prassi, soprattutto quando si presenta in modo così estremo e radicale, fa paura a quelli che vivacchiano proprio in virtù della loro separazione. A terrorizzare costoro sono gli oggetti alieni, inclassificabili, fuori categoria. (Una risposta che sarebbe potuta giungere anche da sotto i baffi del Nietzsche più diabolico).
Dal punto di vista teorico gli scritti di Kaczynski – in particolare il celebre Manifesto e il saggio Antitech Revolution – sono vera e propria dinamite filosofica. La miscela di filosofia, sociologia, evoluzionismo, ecologia e matematica introdotta da questi brevi testi rappresenta l’incubo di ogni pensatore accademico e militante – avvezzo a intasare la propria produzione di accademismo, jargon, luoghi comuni e note che rimandano immancabilmente ad amici, maestri e allievi.
Lo stesso riduzionismo scientista che permea le opere di K conferisce a quest’ultime (un po’ come accadde con lo Schopenhauer di Nietzsche e di Nick Land) un certo spirito selvatico, che non è solo anti-umanista ma anche profondamente anti-umano. L’idea alla base del lavoro di K, di fatto, è che i sistemi siano sempre al di sopra (per scala e grado ontologico) dell’operato dei singoli enti, degli agglomerati e delle reti. Persino quelli umani. Una visione che non si presenta in quanto astrattamente atmosferica o impersonale, ma che pullula di tendenze, ricorsività e leggi che rimandano a un indomabile caos deterministico. Un orizzonte al tempo stesso antico (quasi presocratico) e iper-moderno, dominato da un irriducibile pessimismo. Non c’è proposta o sogno tecno-scientifico del quale K non abbia fornito una critica dettagliata, fondata sulla probabilità, sulle teorie del caos, sui precedenti storici o sull’evoluzione della nostra specie.
La vera forza di K, tuttavia, non risiede nella sua capacità critica, né nel suo carisma, ma nella rara facoltà di staccarsi dall’orizzonte comune e dalla rappresentazione che esso impone. Al di là del buon senso; al di là del senso comune. Questo “spirito della distanza” gli ha permesso di allontanarsi non solo dalla civiltà ma anche dalla stessa comunità umana, di osservare dall’alto un mondo indifferente e magmatico.
Quando K prende in considerazione i progetti umanitaristici, ad esempio (che si tratti della piena automazione, del sogno liberale di una società priva di povertà, del mutualismo anarchico o del comunismo), non può fare a meno di incorporare nella sua critica la biologia evoluzionistica: l’idea di una cooperazione orientata alla competizione; il dubbio che la nostra compassione e il nostro altruismo siano frutto di meccanismi biologici che nascondono, in realtà, opzioni e preferenze di tipo economico; il sospetto che la natura umana sia essenzialmente crudele, egoista e irrazionale. È proprio questo sospetto radicale a rendere l’opera di K così antagonistica rispetto alle illusioni del razionalismo filosofico e scientifico, dell’ingegneria sociale, della geoingegneria e della politica.
Il suo odio per il progressismo, la tecnologia, lo statalismo, i fanfaroni della Silicon Valley e la competizione politica hanno forgiato – critica dopo critica – uno dei dispositivi più adatti a individuare e definire i contorni filosofici e naturalistici della grande macchina che plasma la civiltà industriale. Un pensiero negativo che contagia in modo irrimediabile chi vi si accosta – allontanando e ripugnando gli alfieri del tecno-ottimismo. Ed proprio questa negatività programmatica a segnare una netta linea di confine tra chi è ancora in grado di pensare e chi è, ormai, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Accogliere oggi il pensiero di K (come fecero negli anni ‘90 i militanti di Earth First!) significa arrestarsi di colpo e installarsi al centro di un catastrofico uragano, a metà strada tra uno sviluppo sempre più inarrestabile e coercitivo e un imminente collasso di proporzioni globali. Ben vengano, allora, il dubbio e la negazione. Ben vengano l’incoerenza, l’esitazione e i capovolgimenti di cui, pochi giorni fa, ha parlato Paolo Mossetti in un suo articolo per Esquire – fraintendendo l’esodo verso un nuovo pensiero anti-politico per un subdolo tradimento ideologico.
Accogliamo in noi il sospetto e la frattura, per vendicare un passato di devastazione e abolire un futuro di morte e totalitarismo.
La libertà è un club per un solo individuo
di Dario Bassani
Il marchio con cui Theodore Kaczynski firmava le sue bombe ha dentro di sé un interessante paradosso: il Freedom Club – il significato della sigla FC incisa sugli ordigni – aveva un solo membro. Interessante e rivelatore, perché nel manifesto La società industriale e il suo futuro la libertà è il concetto più importante ed è sempre un affare per singoli, mai per collettivi. Ben più di una certa idea di natura incontaminata, è l’individualismo il vero cuore della visione del mondo di Kaczynski. Non sorprende quindi che, dopo che fu pubblicato sia dal «New York Times» sia dal «Washington Post» il 19 settembre 1995, il suo manifesto avesse raccolto molte impressioni positive sulla stampa americana. Su «The Nation», per esempio, Kirkpatrick Sale definì Kaczynski “un uomo razionale le cui credenze sono ragionevoli”. Sul «Time», poi, Robert Wright osservò che “c’è un po’ di Unabomber nella maggior parte di noi”.
In fondo, il manifesto non faceva altro che dare voce alle – sempre individuali – inquietudini tecnologiche e alle aspirazioni di una vita nella natura incontaminata della borghesia americana all’indomani del crollo dell’URSS, la sola potenza con cui gli Stati Uniti avessero rivaleggiato dal 1945 in avanti. Il punto di riferimento delle sinistre di tutto il mondo – odiate da Kaczynski – era stato cancellato, e la libertà aveva, in apparenza, conquistato il pianeta. Ma ancora non bastava. Per Kaczynski, era necessario sbarazzarsi dell’intera infrastruttura tecnologico-industriale globale perché gli individui potessero essere finalmente davvero liberi.
Se queste righe fossero state spedite in prigione a Kaczynski, immagino che le avrebbe accolte con divertito disprezzo. La sua avversione per il comunismo e per le masse non va certo letta tra le righe perché è esplicita sin dall’inizio del manifesto, e diventa ancora più chiara se si ripercorrono gli esempi positivi proposti: il nobile di spada (elevato dal costante sforzo guerresco con cui mantiene il proprio status), ma non di toga (decadente e pigro); il colono americano sulla frontiera del vecchio West (capace di vivere da solo in mezzo al nulla, ma anche di fondare piccole comunità in cui fioriscono ottimismo e autostima, poco male se a scapito delle popolazioni che già abitavano dove si è insediato); l’uomo primitivo (stoico e capace di difendersi da solo). Ho visto Nietzsche che bacia Tocqueville che bacia Rousseau che bacia Ellul, l’arciduca Clint Eastwood nelle grotte di Lascaux: insomma, c’è ben poco di originale nel manifesto, ed è Kaczynski stesso ad ammettere che, se non avesse ucciso delle persone, probabilmente non sarebbe stato mai pubblicato – e che, anche se avesse raggiunto il mercato editoriale, forse nessuno gli avrebbe dato attenzione.
Il piano di studi di Kaczynski ad Harvard, in cui entrò giovanissimo, a 16 anni, può aiutare a capire come è nato il suo pensiero. Lo possiamo ricostruire grazie ad Alston Chase, un ex professore di Filosofia che ha vissuto una curiosa vita parallela con Kaczynski – simile in tutto, salvo le bombe -, e che ha intrattenuto una corrispondenza epistolare con lui: entrambi frequentarono la prestigiosa università della Ivy League quasi negli stessi anni, ed entrambi si ritirarono a vivere in una capanna senza elettricità e acqua corrente nei boschi del Montana. In un articolo sull’Atlantic poi diventato un libro, Harvard and the Unabomber, Chase si sofferma sul percorso di “educazione generale” che, negli anni ‘50, tutti gli studenti di Harvard dovevano seguire: un curriculum che oscillava tra una sfiducia umanista nei meriti del progresso scientifico e tecnologico, e la certezza positivista che quello stesso progresso non fosse arginabile. In questo modo, secondo Chase, il programma contribuiva a creare una “cultura della disperazione”, perché insegnava che la marcia disumanizzante della tecnoscienza non si poteva arrestare.
Meglio che il Freedom Club rimanga fermo al suo numero di membri originario: uno.
A tutto questo va aggiunto che, giovanissimo, Kaczynski fu coinvolto dal professor Henry A. Murray in una serie di esperimenti in cui le sue idee ancora in formazione furono attaccate in modo “veemente, radicale e personalmente offensivo” – secondo le parole di Murray stesso – per il programma MK-Ultra, con cui la CIA stava conducendo una ricerca per sviluppare un siero della verità e delle tecniche di controllo mentale in funzione antisovietica.
Non è certo quanto questi esperimenti abbiano contribuito a formare la personalità di Kaczynski, ma, negli anni ‘50, la CIA diede il proprio contributo anche al dibattito sul totalitarismo, caposaldo teorico dell’anticomunismo e nemico ideologico per eccellenza del manifesto. Insieme alla Fondazione Ford, la CIA sostenne il Congresso per la Libertà della Cultura, un gruppo di intellettuali anticomunisti che nel 1950 presentò un “Manifesto degli uomini liberi”, in cui affermò che il conflitto fondamentale del loro tempo non era più tra capitalismo e socialismo, tra destra e sinistra o tra democrazia e fascismo, ma tra libertà e tirannide. La tirannide della tecnologia, avrebbe aggiunto 45 anni dopo Kaczynski.
Theodore Kaczynski è stato un prodotto traumatico dello sforzo bellico e culturale americano durante la Guerra Fredda, una sua vittima collaterale. È però bene che chi oggi dichiara di volersi ispirare alla sua opera conosca chi già lo fa: nel luglio del 2011, prima di uccidere 77 persone, Anders Breivik aveva pubblicato online un manifesto di 1.518 pagine, nel quale diversi stralci erano plagi evidenti di La società industriale e il suo futuro. Forse è meglio che il Freedom Club rimanga fermo al suo numero di membri originario: uno.
Né geni né eroi
di Melanie Erspamer
È possibile per un individuo praticare una ragione di stato, una realpolitik? Elevare un obiettivo sociopolitico sopra tutto il resto, il cui compimento legittimerebbe qualsiasi azione? Fino a quale punto un individuo può agire puramente, o soprattutto, strategicamente?
Potrebbe iniziare così: qualcuno si rende conto (cinicamente o giustamente) di vivere in un mondo dove gli stati e le grandi aziende controllano la vita di ognuno. Il loro potere è mantenuto con la forza, e qualsiasi sofferenza o sporcizia che ne risulti viene occultata con politiche di attenzione (i media) e propaganda che, ancora di più di chiamare il brutto bello e lo sporco pulito con delle manovre orwelliane, chiama ciò che accade inevitabile, necessario, meglio delle alternative. Questo qualcuno viene colpito dalla mancanza di libertà di noi moderni. Crede che la modernità abbia spezzato qualcosa: il libero agire, l’autonomia umana, la libertà — non nel senso moderno della possibilità di scegliere, tramite il voto e il portafoglio, ma nel senso più robusto di una capacità di agire in un modo che possa fare differenza, di contribuire ad impostare le condizioni della propria vita e sopravvivenza.
Divenuto convinto della crescente perdita di libertà sia per gli individui che per i piccoli gruppi, sepolti fra gli imperativi delle grandi organizzazioni e le logiche della tecnologia, il nostro protagonista si chiede come può promuovere il libero agire. Per fortuna il sistema stesso, come ogni sistema, soffre di fratture interne, conflitti, patologie, perversioni che con il tempo possono dilagare. Solo con un aumento decisivo di queste fratture si può agire in modo decisivo. E allora il nostro protagonista, Ted Kaczynski, legittimato dall’obiettivo di disfare l’ordine tecnologico, forma la sua strategia: 1) far crescere le fratture nel sistema; e 2) divulgare un’ideologia antisistema—così che quando il sistema barcolla, e cade, sarà diffusa la convinzione che non sia possibile rimetterlo in piedi.
Da solo, la mette in atto. Nel corso di 17 anni, fa crescere le fratture nel sistema inviando bombe per posta a figure in qualche modo rilevanti al sistema tecnologico e poi, avendo conquistato l’attenzione pubblica, divulga la sua ideologia antisistema con un manifesto di lunghezza compiaciuta in alcuni giornali importanti. Ironicamente, è proprio questa divulgazione a portare al suo arresto, tramite un riconoscimento del suo stile di scrittura dal fratello. Lo sapeva pure lui: la violenza può rimanere stocastica, opponente, ma l’ideologia viene inglobata dalla tecnologia. Analizzata, capita, ridotta.
Gli errori maggiori di Ted, per chi guarda comunque con una certa simpatia alcune delle sue convinzioni, sono due: quello morale (uccidere innocenti) e quello strategico. Quello morale è evidente. I suoi crimini, le bombe arrivate una mattina in una casa o azienda qualsiasi, la violenza delle esplosioni, i nomi dei morti e i feriti: questi minacciano di screditare tutte le sue idee, di renderlo un terrorista e basta. In un senso Ted ha fatto l’errore di Raskolnikov (da Delitto e Castigo): ha astratto l’atto di uccidere dalle sue vittime. Ha voluto essere un Napoleone. Dietro il mantello di Napoleone ci sono strade di cadaveri ma lui ha raggiunto lo stato, il potere, nel quale le scelte possono essere analizzate sotto la lente di cos’è necessario, inevitabile, o meglio delle alternative.
Se questi sono in parte aggettivi propagandistici, uno si può chiedere anche fino a quale punto siano veri. È una domanda che Ted non ha il lusso di farsi, come neanche Raskolnikov. La morale puramente consequenzialista non è qualcosa che si applica al singolo individuo; la strategia per un obiettivo sociale non può essere sviluppata in una baita del Montana ma necessita di una qualche organizzazione collettiva. Che non significa che l’organizzazione sociale possa giustificare qualsiasi realpolitik ma che l’individuo, da solo, rimane un assassino, non un Napoleone.
L’errore morale disgusta un simpatizzante del manifesto di Ted, l’errore strategico lo imbarazza. Con quale naïveté un individuo può aver pensato, solo, di poter spingere un intero sistema alla rottura? Questo sembra dimostrare un’ingenuità che Ted disprezzava negli altri, ma in cui è caduto a capofitto. Ma forse questo ci può insegnare qualcosa a proposito della strategia che si può cercare, per noi che abbiamo qualche preoccupazione sulla deriva della società attuale e sul degrado dell’umano e delle comunità causati dalle forze della tecnologia e dal capitalismo neoliberista.
Le fratture e perversioni del sistema esistono e devono essere sfruttate senza l’illusione megalomaniaca e spesso violenta di poter causarle da soli.
“Per poter divulgare il nostro messaggio al pubblico con qualche possibilità di dare un’impressione durevole, dovevamo uccidere delle persone”, scrive Ted con logica fredda. Eppure quell’impressione durevole non ha indebolito il sistema. Il manifesto rimane una pubblicazione interessante, che periodicamente provoca sussurri su Internet (Uncle Ted, alcuni lo chiamano su Twitter, con quella mezza-sincerità-mezza-ironia dei nostri tempi), ma che da solo non agisce, nel senso di fare una differenza. Le tendenze sociali sono rimaste quelle di prima, nonostante le vittime delle bombe.
Come ha fatto a sbagliare così gravemente e come possiamo evitare di farlo noi? Credo che, alla fine, le macro-idee strategiche di Ted fossero giuste: le fratture nel sistema esistono, e un’ideologia antisistema dovrebbe essere divulgata. I dettagli di questi pilastri possono essere discussi, sviluppati in modi diversi. Ted, per esempio, ha proposto di identificare l’ideologia antisistema con l’idea della natura; io argomenterei invece con un’ideologia fondata sulla ridistribuzione del potere. Ma a prescindere, il punto principale che vorrei proporre è che questa costruzione e propagazione ideologica è un processo paziente di organizzazione, non un’idea di un genio di Harvard.
Le fratture e perversioni del sistema esistono e devono essere sfruttate senza l’illusione megalomaniaca e spesso violenta di poterle causare da soli. Dobbiamo pensare a un progetto che non sia da geni né da eroi, quello della preparazione di un’ideologia antisistema che possa durare nel tempo. È un progetto che Ted ha compiuto in parte, malgrado gli elementi derivativi del suo manifesto. Ma si è dimenticato, forse, che la storia è quasi sempre più grande di un uomo su un cavallo.
Sottrarsi alla morte vivente
di Tiziano Cancelli
Per chi sopravvive, la morte è sempre un grande momento di riflessione. Questo è ancor più vero quando a morire è un personaggio famoso o largamente conosciuto: quello che si fa è tirare un bilancio, una somma della vita del defunto. Nel caso di Kaczynski è difficile tirare un bilancio: come si può esprimere un giudizio sulla vita di qualcuno che ha plasmato la propria esistenza intorno a un’unica idea? Che ne ha pagato le conseguenze fino a morirne, con una fermezza sconosciuta al mondo contemporaneo?
Pensare la fede incrollabile in un’idea, nel momento in cui tutte le idee vacillano, è sicuramente un atto di volontà rivoluzionario. E non importa se Unabomber fosse di destra, flirtasse con la sinistra o si dichiarasse profondamente anarchico, ciò che importa è che la sua vita è l’esempio di una volontà incrollabile, che nel bene e nel male tenta di plasmare il mondo a sua immagine, coerentemente alla sua visione. Che rifiuta di vivere la morte vivente a cui lo stato di cose lo ha condannato.
È facile scrivere editoriali accusando la sinistra di essere senza idee e quindi preda degli stregoni di turno, ancora più facile è incarnare il ruolo del buon padre che dall’alto del suo distacco intellettuale guarda con un misto di pietà e imbarazzo a coloro che brancolano nel buio. Più difficile è essere di ispirazione. Estremamente difficile è incarnare un esempio di volontà e di visione capace di produrre un minimo cambiamento nella realtà.
Con i suoi scritti, con i suoi studi e molto meno con le sue azioni, Theodore Kaczynski ha ispirato larga parte dei movimenti più radicali a difesa dell’ambiente sorti negli ultimi 20 anni. Ha generato dibattito, scontro di idee, pratiche e simboli. La sua volontà ha dato origine a un mito, ha incarnato un sentimento di sofferenza e di dolore che ha trovato nella violenza del suo personaggio un canale di espressione. La cosa importante del mito non è la storia in sé, ma il perché fa presa sulle persone. La macchina mitologica va smascherata come macchina, ma ne va capito il funzionamento. Una volta fatto questo, la macchina si può utilizzare, il meccanismo mitico può essere reindirizzato e diventare creatore di nuovi significati e nuove forme di potenza.
Ben venga il mito se con lui arriva un vitalismo che scuote le fondamenta.
Alla sinistra e ai suoi editorialisti non piace parlare di potenza: la potenza è intrinsecamente fascista. Qualsiasi sua affermazione, qualsiasi sua conquista va rigettata nell’abisso del risentimento; meglio fare la disamina intellettuale sui cadaveri. Il punto è che quello che oggi gli intellettuali si affrettano a spiegarci come l’origine del male per noi è all’opposto la nascita dell’unico bene possibile. Il coinvolgimento, la passione, le emozioni di rottura come rabbia, dolore e disagio sono la via necessaria verso un accrescimento di potenza, e quindi di vita. Se Unabomber ti ricorda che sei vivo ma imprigionato in una gabbia di degrado e cemento, e che fuori c’è un’altra vita, idealizzata sicuramente, ma comunque altra, allora ben venga. Ben vengano lui e tutti quelli come lui. Ben venga il mito se con lui arriva un vitalismo che scuote le fondamenta.
Non abbiamo bisogno di editoriali che ci spieghino quanto e come siamo persi e in cerca di guida; lo sappiamo già da soli. Abbiamo bisogno di figure che ci ricordino che fuori da queste galere a cielo aperto che chiamiamo città c’è ancora un desiderio da raggiungere, una lotta da combattere. E poco importa, poco davvero, se è un terrorista omicida a doverlo ricordare con i suoi scritti dal carcere che diventano memi che diventano immagini, che diventano simboli e poi risvegliano emozioni. L’importante è provare qualcosa che non sia risentimento, che non sia passività, che non sia disamina fredda e intellettuale, distaccata dalla vita e dai viventi.
Se Unabomber deve diventare moodboard, che succeda. A tempi estremi servono risposte estreme. In Euphoria, la serie più importante degli ultimi anni, vediamo in opera sempre lo stesso meccanismo. Al mondo si chiede: hit me, I wanna feel something. Colpiscimi, con qualunque cosa, te ne prego, purché io mi senta ancora vivo. Se sono vivo posso agire, se sono vivo posso disertare. Posso negare lo stato di cose presenti, posso destituire il presente e nel farlo cercare nuove armi, qualsiasi arma, immaginifica, simbolica, concreta. Se leggere che le conseguenze della rivoluzione tecnologica sono state un disastro per l’umanità può farmi bucare la patina di apatia che mi circonda, può farmi provare il desiderio di respirare aria pulita, di essere libero e dare fuoco alla città allora tanto mi basta. Qualunque cosa diventa la mia arma, compresa l’immagine di una capanna nel bosco e la storia di un uomo che per difendere quella capanna e la terra sulla quale era costruita ha dato in cambio la sua intera vita. Yours for wild nature.
Sovrasocializzazione o “virtue signaling”
di Alessandro Lolli
Il manifesto dell’ecoterrorista noto ai media col nome di Unabomber si apre con la singolare dichiarazione di non voler parlare di ambiente. Dice: c’è chi lo fa meglio di me. Punto e a capo. La critica de La società industriale e il suo futuro insiste invece nei territori della sociologia, dell’antropologia e della psicologia. Quest’ultima in particolare appassiona molto Kaczynski che la usa come chiave privilegiata per comprendere un’area politica a lui invisa: la sinistra moderna. Senza mezzi termini, secondo Kaczynski, la sinistra è “una delle più diffuse manifestazioni della pazzia del mondo moderno”.
Due sono i tratti che determinano la psicologia delle persone di sinistra: il senso di inferiorità e la sovrasocializzazione. Per ragioni di spazio, sorvoliamo sul primo, che è una rielaborazione della morale degli schiavi che già Nietzsche individuava come la visione del mondo che accomuna ebrei, cristiani, anarchici e socialisti. La sovrasocializzazione, d’altro canto, è in parte una conseguenza del senso di inferiorità ma anche una sua declinazione specifica che Kaczynski per primo descrive in certi termini.
Per socializzazione si intende il processo di interiorizzazione delle norme sociali da parte degli individui. Secondo Kaczynski, il problema sorge dal fatto che nessuno può davvero seguire sempre l’insieme di norme etiche che pure consideriamo giuste. Sappiamo che mentire è sbagliato, ma tutti mentiamo; l’odio è un sentimento negativo, ma odiamo un sacco di persone, e così via. L’individuo mediamente socializzato vive questa contraddizione con relativa tranquillità: la ignora, la accetta, la abbraccia, insomma ci convive.
L’individuo sovrasocializzato no, non può accettarla. È sovrasocializzato chi ha preso troppo sul serio il processo di socializzazione fino a sviluppare una forma di nevrosi. In prima battuta, l’individuo sovrasocializzato si vergogna; soffre dello scarto tra l’etica e il suo comportamento, prova senso di colpa e si sente inadeguato. Ma secondo Kaczynski non si ferma qui. Al fine di alleggerire il peso di questa sofferenza, l’individuo sovrasocializzato razionalizza la sua condizione con una proiezione verso l’esterno: accusa la società stessa di essere sbagliata, di non vivere all’altezza dell’etica che impone e si incarica di difendere quest’etica da tutti coloro che non la rispettano.
Quella che Kaczynski propone attraverso il concetto di sovrasocializzazione è una eziologia psicologica del moralismo. Una persona mediamente socializzata perdona sé stessa e gli altri. Una persona sovrasocializzata non può perdonare sé stessa e quindi non perdona gli altri. Questa spiegazione ha una sua eleganza, che risuona con altre importanti intuizioni sul lato oscuro dei moralisti, una su tutte la storia della trave e della pagliuzza che amava ripetere un certo predicatore della Palestina.
C’è un ultimo aspetto che rende affascinante e involontariamente profetico il concetto di sovrasocializzazione proposto da Kaczynski. Se infatti, egli dice, il complesso di inferiorità è uniformemente diffuso in tutte le persone di sinistra, la sovrasocializzazione pertiene invece a un segmento di questo gruppo, e cioè alla classe media, al ceto intellettuale e più di tutti agli accademici. Il motivo non è esplicitato, ma possiamo provare a dedurlo.
Per realizzarsi pienamente, la sovrasocializzazione ha bisogno di una certa pubblicità: si tratta in fondo di un atto di accusa che sposta il peso della norma etica verso l’esterno. E questo è il lavoro (sostitutivo, aggiungerebbe Kaczynski) degli intellettuali che sono specializzati nella produzione di discorsi virtuosi che segnalano se stessi a discapito degli altri. L’intellettuale prende posizione pubblicamente nei confronti del mondo e nel farlo completa e rinnova il processo di sovrasocializzazione.
Se alcune parole che ho usato per descrivere il lavoro degli intellettuali vi suonano familiari, non è un caso. “Virtue signalling” è un neologismo che descrive un comportamento diffuso sui social network, in cui gli utenti prendono posizioni virtuose per il feedback di riconoscimento che ricevono, spesso a discapito di altri. Ho parlato di profezia involontaria perché, negli anni Novanta, quando Ted Kaczynski scriveva della sovrasocializzazione, il virtue signalling non esisteva, visto che non esistevano neppure le piattaforme sociali che lo hanno reso possibile.
Solo gli intellettuali soffrivano di sovrasocializzazione perché era il loro lavoro a nutrire questa macchina di rinforzo positivo. Da un lato avevano accesso a – grandi, piccoli ma comunque significativi – spazi di discorso pubblico, che consentivano di esprimere la loro etica superiore alla media sociale e segnalarsi come virtuosi. Dall’altro, si trovavano inseriti in una comunità di virtuosi, quella di intellettuali, accademici e pensatori di sinistra, che rinnovava la sovrasocializzazione originaria con una forte pressione dei pari a condividere quell’etica giusta senza sbagliare mai (da qui il loro proverbiale conformismo).
Entrambe queste condizioni sono soddisfatte dai moderni social network. L’utente medio ha accesso a – grandi, piccoli ma comunque significativi – spazi di discorso pubblico ed è costantemente sotto l’occhio sovrasocializzante dei pari. In questo senso, chiunque abbia un profilo su un social network è psicologicamente e sociologicamente paragonabile ad un intellettuale del passato. Oggi chiamiamo virtue signalling quella strana tensione che sentiamo a dire la cosa più giusta di tutti di fronte a tutti, a segnalarci come quelli che camminano dalla parte corretta della storia. Ted Kaczynski la chiamava sovrasocializzazione.