L’arte o la vita?

Una genealogia del vandalismo nell’arte, dal situazionismo alla zuppa sui Girasoli di Van Gogh

Da alcuni mesi l’attivismo ambientalista ha fatto irruzione nei musei. Il 22 luglio è toccato agli Uffizi, quando due militanti si sono incollati al vetro della Primavera di Botticelli. Il 14 ottobre due attiviste hanno versato una lattina di Campbell Tomato Soup sui Girasoli di Van Gogh alla National Gallery di Londra, al grido di “What is worth more, art or life? Is art worth more than food? Is art worth more than justice? Are you more concerned about the protection of a painting or the protection of our planet and people?”. Il 23 ottobre al Museo Barberini di Potsdam il Pagliaio di Monet è stato imbrattato di purè di patate. Il 27 ottobre è stata presa di mira la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer al Mauritshuis di Den Haag: un attivista ha incollato il proprio orecchio al dipinto.

Gli attacchi sono stati rivendicati dalle organizzazioni Just Stop Oil e Letzte Generation, che a questi gesti dimostrativi accompagnano forme di protesta più tradizionali, come incatenarsi a edifici, apporre striscioni, macchiare di vernice edifici simbolici, organizzare sit-in. Entrare nel museo è stata, per loro stessa ammissione, una strategia per ottenere una visibilità mediatica molto maggiore, anche perché, per quanto non dichiaratamente, è stato necessario concentrarsi su opere estremamente famose: lo spazio mediatico concesso agli atti vandalici viene generalmente limitato per il timore (statisticamente fondato) di emulazione, e in pochi, infatti, sono stati raggiunti dalla notizia dell’attacco a The Hay Wain di John Constable a inizio luglio. Colpire la Primavera o i Girasoli è un modo di aggirare il problema.

Colpire un’opera d’arte conservata in un museo esorta a riflettere sul nostro rapporto con l’istituzione museale e con lo status delle opere che nei musei vengono conservate.

Al di là dell’opportunità politica e di comunicazione, questi gesti entrano inevitabilmente a far parte della storia dell’attacco alle opere d’arte, una storia lunga e complessa quanto la storia dell’arte stessa, anche senza scomodare le ondate iconoclaste legate a grandi eventi politici o religiosi. Il confronto con alcuni atti iconoclasti storici può aiutare a mettere a fuoco questioni e istanze che eccedono quelle richiamate dagli attivisti: colpire un’opera d’arte conservata in un museo esorta a riflettere sul nostro rapporto con l’istituzione museale e con lo status delle opere che nei musei vengono conservate.

Prendiamo ad esempio un “classico” tra i casi di vandalismo museale di stampo politico: nel 1914 la suffragetta Mary Richardson, passata poi alla storia come Mary the Ripper, colpisce più volte con un coltello da cucina la Venere allo specchio di Velasquez conservata alla National Gallery di Londra. Richardson dichiara di aver sfregiato il dipinto come protesta per la morte in carcere di una sua compagna, Emmeline Pankhurst, e di aver scelto la Venere per un motivo preciso: “Non mi piaceva il modo in cui i visitatori maschi stavano a osservarla tutto il giorno a bocca aperta”.

Il caso di Mary the Ripper e quello degli ambientalisti contemporanei sono paragonabili per la comune spinta politica, ma esprimono, in realtà, posizioni diverse nei confronti dell’immagine. La scelta della suffragetta ricade su un’opera intimamente connessa alla propria battaglia, mentre la scelta degli attivisti di Just Stop Oil e di Letzte Generation risponde, come detto, a criteri di fama e visibilità. Il fulcro dell’azione vandalica per Mary Richardson, come per la maggior parte dei casi di vandalismo di stampo politico, è l’immagine e la sua agentività; per gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation, invece, il gesto acquisisce un’autonomia performativa rispetto all’immagine artistica. Le opere, in questo caso, non sono state nemmeno effettivamente danneggiate. Il gesto e la sua performance sono l’aspetto più calcato e curato degli attacchi: utilizzare proprio una warholiana Tomato Soup, o attaccare proprio l’orecchio alla Ragazza con l’orecchino di perla, non sono scelte casuali. Alcuni giornalisti hanno affibbiato agli attivisti anche l’epiteto di “eco-situazionisti”, riportando le loro azioni a una dimensione artistica.

Lo spunto è interessante, perché permette di evidenziare alcuni effetti involontari delle azioni dei militanti che il movimento situazionista, inconscio cattivo maestro, ha reso espliciti nell’accettare, difendere e addirittura fomentare atti iconoclasti. Un evento esemplare è l’accoltellamento, da parte del pittore Nunzio Van Guglielmi, della tela dello Sposalizio della Vergine di Raffaello conservata alla Pinacoteca di Brera di Milano nel giugno 1958. Nel foglio di rivendicazione dell’attentato, Van Guglielmi dichiara di essere un artista situazionista, e aggiunge il motto “W la rivoluzione italiana. Via il governo clericale”. Dopo un breve interrogatorio, Van Guglielmi viene dichiarato incapace di intendere e di volere e ricoverato in un ospedale psichiatrico.

Che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite.

L’artista Asger Jorn interviene a sua difesa, stilando, il 4 luglio 1958, un documento che firma a nome della Sezione Italiana dell’Internazionale Situazionista: “Noi situazionisti protestiamo contro l’internamento ipocrita in un manicomio di Nunzio Van Guglielmi, perché in giugno a Milano è arrivato a scalfire leggermente un mediocre quadro di Rafaello. Noi constatiamo che il contenuto del manifestino posto da Guglielmi sul quadro di Rafaello (…) esprime il voto di un grande numero di italiane col quale siammo. Vogliamo quindi attirare l’attenzione sul fatto che esso sarà un crimine contro la vera scienza psichiatrica di interpretare, col’aiuto della polizia psichiatrica, un gesto ostile alla chiesa ed al defunto valore culturale dei Musei, come una prova sufficiente di follia. Sottolineiamo il pericolo che presenta una tale precedenza per tutti gli uomini liberi e per tutto il futuro sviluppo culturale ed artistico”.

Asger Jorn, come vedremo, è stato una figura emblematica per la riflessione sul rapporto tra arte e vandalismo. Tra gli spunti di questo comunicato, un elemento particolarmente significativo è il riferimento al “defunto valore culturale dei Musei”. Sempre in ambito situazionista, lo scrittore Alexander Trocchi contribuisce a mettere a fuoco la questione nel pamphlet Invisible Insurrection of a Million Minds: “I musei hanno approssimativamente gli stessi orari delle chiese, lo stesso odore e silenzio sacrale, e una presunzione snobista di una vicinanza spirituale diretta con gli uomini vitali le cui opere sono lì rinchiuse. Cos’hanno a che fare quei corridoi silenziosi con Rembrandt, o i cartellini di ‘vietato fumare’ con Van Gogh? (…) L’arte non può avere significato esistenziale in una civiltà che ha disegnato una linea tra arte e vita e che colleziona artefatti come ossa ancestrali per riverenza”.

Un’eco inconscia delle parole di Jorn e di Trocchi sembra risuonare in quelle dell’attivista di Just Stop Oil: “What is worth more, art or life?”. “Arte o vita?” è una disgiunzione pretestuosa, ma cosa suggerisce? In un’intervista a un portavoce del gruppo, è stato chiesto conto del rapporto di Just Stop Oli con la cultura, e la risposta è prevedibilmente stata che, nella loro sensibilità, “there’s still a place for culture. Art has a lot of power”. Il ruolo del museo, in questo contesto, è l’elefante nella stanza: è l’istituzione museale, infatti, a spostare il significato dell’opera, rappresentandola, commodificandola, devitalizzandola, provocando un senso di estraneità nei suoi confronti: in definitiva, mortificandola.

L’attentato del 1974 a Guernica parte da presupposti simili, ed è uno dei rari casi in cui ci è dato conoscere le parole dell’assalitore. Si tratta del giovane artista iraniano Tony Shafrazi, che scrive a bomboletta rossa sul dipinto “Kill lies all”. Dichiara alla rivista Art in America: “Ho voluto portare l’arte nell’attualità assoluta, per recuperarla dalla storia dell’arte e darle vita. Forse è per questo che rimane difficile confrontarsi con l’azione di Guernica. Ho provato a trapassare quella barriera invisibile che a nessuno è concesso attraversare; volevo espandermi nell’atto della creazione artistica, rimanere invischiato nel creare l’opera, mettere la mia mano in essa e attraverso quell’atto incoraggiare il visitatore individuale a sfidarla, ad averci a che fare e perciò vederla nel suo stato crudo, dinamico, così come è stata fatta, non come un pezzo di storia”.

L’atto vandalico è un gesto che ha valore in sé, con un suo peso specifico. È pericoloso, faticoso, irrazionale, portatore di una perdita.

Che l’abbiano preso o meno in considerazione, gli attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno compiuto un’operazione simile: hanno riportato la Primavera, i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla dalle sale cimiteriali dei musei, dalle calamite per il frigorifero, dalle shopper museali alle nostre vite. Come diceva Shafrazi: dalla storia dell’arte all’attualità assoluta. È un’interpretazione dell’atto vandalico audace, ma difficile da confutare. L’antropologo Alfred Gell l’ha sostenuta per la stessa Mary Richardson, che “‘uccidendola’ e trasformandola in un bellissimo cadavere, ha conferito alla Venere Rokeby una vita che questa non aveva mai posseduto prima”.

Il gesto vandalico, distruttivo, è al tempo stesso un gesto vitale e creativo, e anche in questo caso la posizione di Asger Jorn è radicale. Nel 1961, anno in cui si dissocia dall’Internazionale Situazionista, Jorn fonda a Silkeborg l’Istituto Scandinavo di Vandalismo Comparato (SISV). A dispetto dell’interpretazione più ovvia dell’intitolazione dell’Istituto, questo è dedicato in particolare allo studio dell’arte popolare medioevale dei paesi scandinavi, con l’obiettivo di realizzare una serie di pubblicazioni. L’unica parte del progetto effettivamente realizzata è il libro Segni incisi sulle chiese di Eure e Calvados, con l’obiettivo di “situare, infine, il vandalismo nella sua vera luce. E di rendere conto, il più esattamente possibile, di quella che è ritenuta una delle sue più spettacolari manifestazioni: il graffito (…). Non posso pensare senza emozionarmi, davanti alle chiese della Normandia, alle mani pazienti e laboriose che hanno scavato, inciso la pietra. Allo stesso tempo furtive e tremanti – quelle mani – trattandosi di una cosa vietata. È bello immaginare che esse abbiano potute essere condotte dalla passione più cieca – quella di distruggere. L’esistenza della pietra è qualcosa di troppo fondamentale perché noi non siamo sensibili alla sua negazione, in maniera estrema. Se ciò viene ignorato – e viene utilizzata come semplice supporto per i graffitomani – o distrutta dai vandali – ecco che noi non lo sopportiamo, che ci scandalizziamo. E, allo stesso tempo, ci è interdetto di conoscere l’approccio e il movente di questi autori di segni ed immagini incise e disegnate; siamo condannati a non poter comprendere queste pulsioni per cui alcuni uomini più di altri possono distruggere”.

L’atto vandalico è un gesto che ha valore in sé, con un suo peso specifico. È pericoloso, faticoso, irrazionale, portatore di una perdita: Asger Jorn accoglie il lato più oscuro e controverso della distruzione dell’opera e lo ribalta, affermandolo come puro gesto artistico e poetico. Una decina di anni prima, un’opera di Robert Rauschenberg aveva provocato un cortocircuito simile. Nel 1953, Rauschenberg chiede a Willem de Kooning, che egli considera il più grande artista del suo tempo, di permettergli di cancellare un suo disegno, che sia sufficientemente importante da mancargli, di cui non abbia alcuna riproduzione e che sia difficile da cancellare. De Kooning offre un disegno a pastello, pastello a cera, inchiostro e matita. Rauschenberg impiega quasi un mese a completare la cancellazione, incornicia il disegno ormai scomparso in una cornice d’oro, appone firma, data e titolo: Erased de Kooning Drawing.

Il 10 marzo 1960, Gustav Metzger stila l’Auto-Destructive Art Manifesto: “L’uomo in Regent Street è autodistruttivo. I razzi, le armi nucleari sono autodistruttivi (…) L’arte autodistruttiva dimostra che il potere dell’uomo accelera il processo disintegrativo della natura e lo ordina”. In questo contesto, l’arte deve assimilare “l’immensa capacità distruttiva, il caos del capitalismo e del comunismo sovietico, la coesistenza di surplus e fame; la crescente accumulazione di armi nucleari – più che sufficienti a distruggere la società tecnologiche; gli effetti disintegrativi della meccanizzazione e della vita in immensi abitati sulla persona”.

L’immagine dei Girasoli ricoperta di zuppa ci ha permesso di provare un brivido: per un attimo, abbiamo pensato di non poterli rivedere mai più, così come presto potremmo non rivedere più i ghiacciai alpini, e come già non ci resta che il ricordo di una quantità impressionante di specie animali e vegetali scomparse nella Sesta Estinzione.

Gustav Metzger è un uomo dal profondo senso morale, civico e politico e sente tutto il peso delle “tragedie nel mondo, le guerre universali e le carestie e le catastrofi naturali che stiamo subendo. Quando uno è in questo stato e non c’è speranza – e non solo non c’è speranza, non c’è scappatoia alcuna – tutto ciò è assolutamente orribile. E se tutto questo è merito dell’uomo, è imperdonabile. E la pressione di dover vivere con questa consapevolezza a volte per me è estremamente difficile”, racconta in un’intervista a Clive Phillpot nel 2009.

Nel settembre del 1966 Metzger organizza il Destruction in Art Symposium presso l’Africa Center a Londra, a cui partecipano un centinaio di persone tra scienziati, artisti, filosofi, psicologi e poeti da 15 paesi del mondo; parallelamente, in diversi luoghi della città si svolgono performance e happening. Lo scopo del simposio è enunciato nel discorso introduttivo di Metzger. “Nel contesto della possibilità di cancellazione della civiltà, lo studio sull’aggressività nell’uomo e sulla spinta psicologica, biologica e economica alla guerra è probabilmente il tema più urgente che l’uomo debba affrontare”.

L’esperienza di Metzger riesce a chiudere il cerchio che congiunge la distruzione del pianeta, della civiltà e dell’opera d’arte, centrale nella sensibilità degli attivisti ambientalisti. “Are you more concerned about the protection of a painting or the protection of our planet and people?”. L’immagine dei Girasoli ricoperta di zuppa ci ha permesso di provare un brivido: per un attimo, abbiamo pensato di non poterli rivedere mai più, così come presto potremmo non rivedere più i ghiacciai alpini, e come già non ci resta che il ricordo di una quantità impressionante di specie animali e vegetali scomparse nella Sesta Estinzione. Non so se questi gesti abbiano aiutato o meno la causa ambientalista, e può darsi che non abbiano altro effetto che épater les bourgeois. In ogni caso, è certo che tirare una zuppa su un dipinto in un museo abbia più a che fare con Van Gogh dei cartellini ‘vietato fumare’.

Stella Succi è una storica dell'arte e ricercatrice indipendente. Ha fatto parte delle redazioni di Alfabeta2, Mousse Magazine, The Towner, Prismo e attualmente è coordinatrice del Tascabile. Fa parte di Altalena, collettivo e gruppo di ricerca interdisciplinare nel campo delle arti visive. Dal 2020 cura la ricerca drammaturgica della danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone.