L’armata delle sonnambule
Pubblichiamo l’introduzione di Incantagioni. Storie di veggenti, sibille, sonnambule e altre fantasmagoriche liberazioni, il libro di Mariano Tomatis da poco pubblicato per la collana Not di NERO. Potete acquistare il volume direttamente sul nostro sito, oppure in libreria.
Tutto è iniziato con un maiale parlante.
Un giorno, mentre attraversava il mercato di Mâcon, l’elegante signor Comte notò una contadina vestita di stracci che trascinava un maiale assai malridotto. Pallido per la fame, barcollante, l’animale pareva non avere neanche più le forze camminare – altro che cavarci un prosciutto. Risoluto, il signor Comte le chiese quanto volesse per il suo suino. Intuendo le intenzioni poco serie del passante, la donna non gli rispose neppure, e provò a farsi largo tra la folla tirando con maggior decisione il guinzaglio di corda improvvisato. L’uomo però insistette: «Siete sorda? Vi ho chiesto quanto costa il vostro suino».
«Lei mi vuole solo prendere in giro.»
«Niente affatto, mi risponda; se il prezzo è ragionevole, glielo pago subito e in contanti.»
«Il maiale non è in vendita, signore. Se proprio insiste nel volerlo comprare glielo venderò a non meno di cento franchi.»
Il signor Comte la fissò un attimo sgranando gli occhi, poi si schiarì la voce per attirare l’attenzione dei tanti passanti che gli sciamavano intorno: «Cento franchi? Lei dev’essere fuori di senno! Sono certo che perfino il vostro maiale è più ragionevole di voi, e sa bene di non valere cento franchi». Quindi rivolse lo sguardo verso l’animale e gli chiese: «Amico, mettiti una mano sulla coscienza: credi di valere davvero cento franchi?».
Nello sconcerto generale, il maiale rispose con voce cavernosa: «Non valgo quella cifra: sono un furfante e la mia padrona è una vecchia avara che vuole fregarvi; in realtà, nessuno mi vuole: sono la feccia di questo mercato».
Ho trovato questo aneddoto in un libro del 1816. Il protagonista ne andava fiero, perché era l’ennesima dimostrazione delle sue abilità: Louis Comte era il più celebre illusionista della sua epoca. Da abile ventriloquo, poteva prestare la voce a qualsiasi cosa, perfino al più misero degli animali di un mercato. Divertito, il biografo del mago ci racconta anche l’esito della burla: «I presenti accusano la donna di essere una strega e credono che il maiale sia indemoniato: tra schiamazzi e urla di derisione, l’animale viene percosso con violenza. Comte, intanto, se la svigna ridendo di gusto».
Perché un uomo ricco e di successo sente la necessità di bullizzare in questo modo una povera donna e la sua bestia? Come può poi vantarsi di una tale smargiassata, dando di gomito a chi legge la sua biografia? Ma soprattutto, come può restare impunito l’uso di un trucco magico per aizzare la folla contro gli ultimi?
Leggendo le pagine scritte da Beaufort d’Auberval sento la carogna che monta. È una sensazione sgradevole, che mal si concilia con la piacevolezza di questa mattina baciata dal sole e accarezzata dalla brezza. Da qualche giorno sono in cerca di idee per le vacanze, e per non soffocare quel fuoco interiore mi interrogo su come conciliare tempo libero e scrittura: Mâcon si raggiunge in giornata, e questa è una vicenda da raccontare.
Dentro c’è tutto: è una storia in cui l’illusionismo si è fatto sessismo, classismo e specismo.
C’è una cosa che la magia riesce sempre a far sparire: il nome delle donne.
Non sarebbe il mio primo lavoro del genere. Nel 2017, le dieci tappe del mio viaggio dal Piemonte alla Normandia erano prima finite online, poi in un libro. In viaggio con Mesmer era diventato un piccolo pamphlet di illusionismo critico: un reportage a puntate sul mentalismo in epoca rivoluzionaria – tra vetrini da lanterna magica, dedali sotterranei, baracconi da fiera e oblique risonanze con il presente. L’impresa era stata un tour de force: mi ero forzato a pubblicare un post in occasione di ogni sosta, sottraendo ore al sonno e finendo per scrivere un intero libro in una decina di giorni.
Oggi è il 9 agosto 2020, e mentre lascio nel libro un foglietto di carta, a segnare la pagina con l’aneddoto che tanto mi ha colpito, mi chiedo se riuscirò a mantenere i ritmi di tre anni fa. Usando il telefonino, studio il tragitto che porta a Mâcon, ma in un attimo mi ritrovo sulla timeline di Twitter. È una distrazione che accolgo con indulgenza: scrivendo un blog è sempre utile sintonizzarsi sui temi in tendenza. Proposto dal Women’s Prize for Fiction, l’hashtag del giorno è #ReclaimHerName – «reclama il suo nome». A venticinque anni dalla sua nascita, l’associazione inglese annuncia la riedizione di altrettanti romanzi: «Molte scrittrici hanno firmato i propri libri usando nomi maschili per poter essere pubblicate o per essere prese sul serio. È con emozione che vi annunciamo la collezione #ReclaimHerName, venticinque libri pubblicati originariamente con nomi maschili, riproposti con i nomi delle autrici scritti finalmente in copertina, per onorarne il lavoro e tributare loro il credito che meritano». Dal sito dello sponsor, i libri si possono scaricare in formato ebook o acquistare in edizione cartacea, raccolti in un coloratissimo cofanetto.
L’hashtag mi piace, perché c’è una cosa che la magia riesce sempre a far sparire: il nome delle donne.
Come si chiamava la vittima di Louis Comte?
Stringendo su di sé i riflettori, il ventriloquo parigino lascia nell’ombra chiunque lo circondi, a partire dall’innominata contadina di Mâcon. È destino comune tra le donne toccate dalla magia. Nei teatri dell’Ottocento, magnetizzatori e sonnambule hanno messo in scena prodigi memorabili, ma su locandine, libri e giornali, l’attenzione è quasi sempre rivolta all’uomo.
La prima persona che ha sperimentato la veggenza in stato di sonnambulismo è stata un maschio di cui sappiamo nome e cognome: Victor Race. A magnetizzarlo fu un altro uomo, Armand-Marie-Jacques de Chastenet, marchese di Puységur. Per far conoscere la sua scoperta a Parigi, il magnetista portò con sé Magdeleine, una ragazza di Dormans; quale fosse il suo nome di famiglia probabilmente non lo sapremo mai. Proseguendo gli studi di Puységur, Tardy di Montravel sperimentò a lungo con una ragazza il cui nome inizia con la N. È tutto. Della signorina N*** conosciamo solo una lettera. Neanche Jacques Petetin nomina mai la veggente con cui ha condotto i suoi studi: in tutti i libri la diciannovenne non è che una tripletta di asterischi.
Conosciamo nome e cognome di molti illusionisti che hanno portato in tour ognuno una propria «donna invisibile», e a noi non rimane sempre che un’ombra al posto dell’identità di queste compagne che di nascosto hanno prestato voce all’illusione. Donne che hanno dimostrato poteri straordinari e ricevuto applausi a scena aperta, ma che hanno quasi tutte incontrato lo stesso destino: la scomparsa del nome. Sia dalle cronache del tempo, che dai libri, anche quelli più intimi, autobiografici, che sono giunti fino a noi.
Facendomi largo attraverso recensioni, articoli di costume e rapporti scientifici, sento tremare i polsi. Onorare quell’hashtag non è compatibile con i tempi che mi sono imposto. Mentre i nomi da reclamare si moltiplicano, Caroline Criado-Perez mi chiarisce le dimensioni del problema; l’autrice ha dedicato alla scomparsa delle donne il libro Donne invisibili, riassumendo il suo saggio in quattro parole: «Una storia di assenze». Dati alla mano, l’attivista brasiliana mostra il modo sistematico con cui oggi il punto di vista femminile viene rimosso dal racconto e dall’analisi della realtà; il risultato è una società costruita a immagine e somiglianza dei maschi. Sfogliando le cronache illusionistiche del passato, riconosco uno dopo l’altro gli stessi meccanismi denunciati da Criado-Perez. No, reclamare un nome non è il lavoro di una manciata di ore, né basterà un post su Twitter: le identità che vengono a galla pretendono lo spazio e le attenzioni che solo una narrazione di più ampio respiro può garantire.
Mi sono già occupato di magia e questioni di genere. Il mio documentario Donne a metà evidenziava l’immaginario sessista alla base della più nota illusione da palcoscenico: la donna segata in due. Facendo notare la matrice politica del trucco, proposto anche in polemica con le attiviste che lottavano per il diritto di voto, mi chiedevo: cosa impedisce, a noi maghi uomini, di concepire per le donne un ruolo diverso da quello della valletta seminuda da seviziare, infilzare, squartare e segare a piacimento? Di certo, non sono loro a ostacolare soluzioni più fertili e creative, al contrario. Grattando sotto la superficie, da ogni epoca e luogo emergono artiste dell’inganno che hanno rifiutato ogni sottomissione: figure epiche e gaglioffe che hanno sfidato la morale e messo in atto forme di resistenza inaudite, basate sui più ingegnosi trucchi dell’illusionismo.
L’hashtag del giorno mi riporta sul tema, facendomi assumere il punto di vista complementare: se nel 2013 avevo parlato di donne passive sotto la lama di una sega, le figure che ho in mente hanno ribaltato attivamente il tavolo, usando il potere della magia nella chiave di un originale femminismo psichico (o forse di un «mentalismo femminista», per completare un chiasmo che mi ha suggerito Filo Sottile).
Nel racconto di Comte, la contadina di Mâcon resta nel mercato anonima, lasciata alle sevizie di una folla altrettanto anonima.
Per vendicarla convocherò un’armata di sonnambule. Mi muoverò inevitabilmente in modo goffo, considerando che scrivo da una posizione di assoluto privilegio – quella di un maschio bianco, eterosessuale, cisgender, normodotato e di classe media, il cui sguardo sul femminile e le questioni di genere non può che essere parziale e a tratti fuori fuoco. Come se non bastasse, il dibattito su Twitter mi fa notare che l’operazione del reclamo in sé è un campo minato.
Occupandosi di letteratura e studi di genere, Sarah Parker lo spiega senza mezzi termini: «Per quanto ispirato da buone intenzioni, #ReclaimHerName è un intervento “femminista” fuorviante e distorto. Ciascuna di queste scrittrici ha scelto il proprio nome in copertina per svariate e precise ragioni. Onorare davvero le loro opere significa rispettare la loro scelta, cercando di capirla e contestualizzarla». Assestando un ulteriore colpo all’iniziativa, la studiosa fa notare che l’idea di reclamare dei nomi sulla copertina di un libro stride con la sciatteria con cui essi sono stati abbreviati e trascritti. A Katharine Harris Bradley non hanno solo rimosso il nome centrale, ma addirittura cambiato una vocale (Attila, my Attila! risulta scritto da Katherine Bradley). Il nome di Mary Chavelita Dunne Bright è stato ridotto a Mary Bright – ma siamo sicuri che lei (e tutte le altre) avrebbero apprezzato il ripristino del nome di battesimo? Alle orecchie di quest’ultima, che si firmava George Egerton, il nome «George» suonava femminile: era un omaggio a sua madre Isabel George Bynon. Per non parlare di George Sand, che nella nuova edizione appare come Amantine Aurore Dupin: ancora oggi ci si chiede se la scelta di un nome maschile fosse per lei la rivendicazione di una precisa identità di genere; in quel caso, #ReclaimHerName si tradurrebbe in un’azione di deadnaming, la pratica irrispettosa di riferirsi a una persona transgender usando il nome assegnatole alla nascita. In nome di un femminismo di facciata, le scelte individuali delle scrittrici coinvolte vengono appiattite su un singolo canovaccio che dovrebbe valere per tutte. Invece di approfondire le ragioni di ognuna, l’iniziativa incoraggia una lettura semplicistica e binaria della realtà, perdendo l’occasione di allargare il punto di vista e gli orizzonti.
Eppure, #ReclaimHerName resta una prospettiva fertile per i giorni che ho davanti, forse addirittura «impoterante», per usare la spiazzante traduzione di empowering promossa da Rachele Borghi. Nel reclamare alcuni nomi dimenticati, voglio espormi alle sorprese che si verificano quando ci si spinge un po’ oltre gli orizzonti ordinari. Trattandosi di vicende umane legate a triplo filo con l’illusionismo, verrà sempre più a fuoco lo straordinario contributo femminile allo sviluppo del mentalismo, a partire dai suoi esordi.
Cartina alla mano, individuo sei luoghi e altrettante veggenti di cui ricostruire le imprese straordinarie; donne in ombra, di cui certifico l’invisibilità con un criterio grossolano: a oggi, la più grande enciclopedia del mondo non le ritiene degne di una voce. La contadina di Mâcon ha fornito la scintilla iniziale, ma il percorso che traccio taglia fuori la città della Borgogna. Oscillerò tra Sette- e Ottocento, seguendo una traiettoria irregolare: dal Canavese alle Turenne, attraverserò Savoia, Provenza e Linguadoca per sfiorare i Pirenei e rimontare verso nord, fino alle rive della Loira. Abbandonata l’idea del blog, ripiego su un semplice diario di viaggio: un quaderno che si apre sulla città di Torino.