La sinistra riparta dalle catacombe
Lo scorso 23 gennaio, l’opposizione venezuelana ha convocato una serie di manifestazioni di protesta in tutto il mondo. Nella principale, a Caracas, il semisconosciuto nuovo presidente dell’Assemblea Nazionale Juan Guaido – uno che il New York Times, quindi non proprio la stampa chavista, nel darne la notizia ha definito «praticamente sconosciuto alla politica venezuelana» – si è autoproclamato presidente a interim del paese. Poche ore prima aveva incassato l’esplicito sostegno statunitense (sotto forma di un goffo videomessaggio del vicepresidente Mike Pence), poche ore dopo avrebbe ricevuto riconoscimenti formali da parte degli Stati Uniti e diversi altri paesi dell’America Latina.
Da quel momento la cronaca giorno per giorno degli eventi – principalmente mosse e contromosse diplomatiche – può tranquillamente essere ignorata e riassunta in questa formula: c’è un paese in condizioni disperate diviso tra due centri di potere in competizione tra di loro.
Da una parte il governo di Maduro, un late stage burocratizzato del chavismo sotto il fuoco costante di critiche sia da destra che dalla sua sinistra, che per un mix di incompetenza e corruzione non ha saputo approfondire il processo ridistributivo cominciato con Chavez; dall’altra un’opposizione che rappresenta la borghesia bianca e ricca, che da sempre vuole riportare il paese a una presunta età dell’oro in cui non doveva condividere la propria ricchezza con nessuno e che ora sta riuscendo a trascinare con sé ampi strati delle classi inferiori venezuelane che soffrono la crisi economica.
Dietro entrambe le parti c’è un gioco di schieramenti internazionali che, a prima vista, è facile liquidare come un conflitto tra imperialismi in competizione tra loro. Da una parte gli Stati Uniti, dall’altra la Cina; da una parte l’Unione Europea, dall’altra la Russia. Da una parte le democrazie, dall’altra i regimi autoritari. Da una parte l’ordine liberale, dall’altra i governi che influenzano le elezioni coi troll e censurano internet a casa loro.
Una scelta facile, no? Talmente facile che qui da noi la sentiamo riproporre in praticamente tutte le analisi e commenti sul Venezuela. Tutti e due i lati dello schieramento mediatico e politico sono uniti in un solo coro: è un «noi contro di loro», dove «loro» stanno con Maduro – il cui governo, come per magia, diventa un «regime» – e quindi «noi» non possiamo che stare con l’opposizione democratica e liberale.
Solo che guardare a questa contrapposizione è fuorviante. Non solo perché, dato il bias occidentale che ci portiamo dietro, si traduce nel guardare esclusivamente alle brutte compagnie di Maduro (Putin, Assad) sorvolando su quelle di Guaido (Bolsonaro in primis), affossando il primo e innalzando il secondo. Ma soprattutto è fuorviante perché è una prospettiva che getta fumo negli occhi per elidere deliberatamente quello che è il punto fondamentale della crisi venezuelana, l’elefante nella stanza, la contraddizione principale.
La lotta di classe che si è acutizzata in Venezuela è il riflesso di una lotta di classe più grande: da una parte l’Occidente come borghesia del mondo, dall’altra l’emergere sulla scena del resto del pianeta.
Il 23 gennaio gli Stati Uniti e i loro stati vassalli sudamericani sono stati rapidi e compatti nel riconoscere Guaido appena poche ore – se non minuti – dopo la sua proclamazione, mentre l’Unione Europea e il resto dell’Occidente si sono schierati anch’essi dalla sua parte ma più lentamente, con più distinguo e più autonomia. In questo contesto si inserisce l’escalation di minacce statunitensi delle ultime settimane: interventi militari, i «5000 soldati in Colombia» di John Bolton, Maduro a Guantanamo, le nuove sanzioni in aperta contraddizione con la retorica umanitaria di voler «salvare un paese al collasso.»
In questo contesto anche il ridicolo ultimatum lanciato a Maduro da diversi paesi europei – convocare nuove elezioni entro una settimana – prima di riconoscere Guaido, e anche il colossale furto in corso (1,2 miliardi di dollari) delle riserve auree venezuelane detenute dalla Banca d’Inghilterra. In questo contesto il comportamento di Instagram che verifica il profilo di Guaido (Maduro non è mai stato verificato) e di media supposti neutrali come Reuters e l’Economist che hanno cambiato la loro immagine di copertina su Twitter mettendo una foto di Guaido.
Intanto la maggior parte degli stati del mondo e il grosso della sua popolazione si schieravano (in modo esplicito, o non esponendosi e quindi implicitamente supportando lo status quo) dalla parte di Maduro, il Segretario Generale dell’ONU Guiterres affermava che l’ONU avrebbe cooperato solo con il governo legittimo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU respingeva una mozione di condanna di Maduro avanzata dagli Stati Uniti.
Insomma, mentre veniamo bombardati dalle immagini di manifestazioni oceaniche e dalle notizie di militari chavisti che disertano e passano all’opposizione, le linee del fronte sono piuttosto chiare. La lotta di classe che si è acutizzata in Venezuela è il riflesso di una lotta di classe più grande: da una parte l’Occidente come borghesia del mondo, dall’altra l’emergere sulla scena del resto del pianeta. I veri «noi» contro i veri «loro».
La guerra fredda che viene
Mentre sul campo di battaglia venezuelano si udivano i primi spari, tra le nevi svizzere di Davos George Soros col suo discorso di fronte ai grandi della terra ci mostrava un altro riflesso di quella stessa lotta di classe planetaria.
Il fatto che sia stato proprio lui a farlo non è casuale, ma un’ulteriore crepa nella falsa dicotomia «noi contro di loro», liberali/sovranisti e democrazia/autoritarismo di cui Soros è la personificazione, lo yang per lo yin dei vari Trump e Salvini. Ma sui campi di battaglia della lotta di classe planetaria il nero e il bianco si mischiano in grigio e Soros e Trump, Soros e Salvini, Soros e Bolsonaro si ritrovano sulla stessa linea.
Il discorso di Soros ha riconosciuto l’esistenza di un nuova guerra fredda che già si combatte di fatto ma che ancora non si ammette né si dichiara, e ha sottolineato l’urgenza di mobilitare per essa tutte le risorse a nostra disposizione. È la guerra fredda tra gli Stati Uniti e la Cina.
Secondo Soros, i progressi cinesi nei settori dell’intelligenza artificiale e del machine learning sono al momento la più grande minaccia esistente per «le società aperte». Ancora per Soros, la priorità in questa fase storica dev’essere contrastare la Cina: invece di fare una guerra commerciale un po’ contro tutto il mondo, gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi sul gigante asiatico. Bisogna cioè fare di tutto per danneggiare la comunità imprenditoriale cinese, impedire a compagnie come Huawei e ZTE di diventare leader nel 5G e far sì che Xi Jinping venga rovesciato. Per dire: secondo Soros il cambiamento climatico è un problema, certo, ma molto meno pressante.
È chiaro che dietro la perifrasi sorosiana «società aperte» e dietro l’ossessione per Xi Jinping visto come una specie di cattivo dei fumetti si nascondono i due poli di questa grande lotta di classe: la borghesia del mondo che cerca di mantenere il controllo sulla tecnologia che le consente di perpetrare la propria condizione secolare di privilegio versus l’ascesa di un secondo mondo che reclama la rottura di questo monopolio.
Non per chissà quale altruismo, ovviamente, ma per interesse – che incidentalmente però coincide con una distribuzione del potere più equa. Ed ecco che allargando lo sguardo ai processi storici Xi Jinping – che, restringendo quello stesso sguardo, è una personificazione del processo di burocratizzazione nel Partito Comunista Cinese – diventa una specie di Prometeo venuto a rubare agli dèi il 5G.
È anche logico che questa nuova, titanica lotta di classe per strappare l’egemonia alla borghesia del mondo non possa esprimersi se non come una guerra fredda. La prima guerra fredda rappresentava una reazione della borghesia mondiale all’inizio di questi stessi processi: la grande sfida lanciata dall’URSS era l’avvio del processo di decolonizzazione, che poneva le prime basi per colmare il divario secolare di forze produttive capitale e tecnologia che separa «noi» borghesi dal resto del pianeta. La seconda guerra fredda è una reazione alla continuazione e al completamento di almeno una fase di quel processo.
Come la prima guerra fredda è stata caratterizzata dalla costante minaccia di uno scontro frontale fine-di-mondo che mai si è verificato, sostituito da giochi diplomatici, screzi commerciali, campagne stampa e sfide tecnologiche, così la seconda guerra fredda comincia con gli screzi tra Stati Uniti e Cina sulla rete 5G, una sonda cinese sul lato oscuro della Luna, la campagna mediatica sugli uiguri in Xinjiang e il caso Huawei.
E come nella prima guerra fredda a esorcizzare lo scontro finale è stato il concentrarsi della lotta di classe in specifiche regioni del pianeta, così la seconda guerra fredda comincia con il concentrarsi della lotta di classe in Venezuela – che non per niente è un alleato strategico della Cina, che ha fortissimi investimenti nel paese.
Il fronte interno
Lo scorso 5 febbraio la tomba di Karl Marx al cimitero di Highgate a Londra è stata vandalizzata: uno sconosciuto ha preso a martellate la sua lapide di marmo, parte della tomba originale del 1883 incorporata nel monumento nel 1954. Come ha detto al Guardian Ian Dungavell, rappresentante della fondazione che si occupa di preservare il cimitero, è stato un attacco politico preciso e l’autore «ha fatto del suo meglio per cancellare il nome di Karl Marx»
Con particolare simbolismo, quello stesso giorno Donald Trump ha tenuto il suo annuale Discorso sullo Stato dell’Unione e ne ha approfittato per denunciare il socialismo. «Qui negli Stati Uniti siamo allarmati dalle nuove richieste di adottare il socialismo nel nostro paese», ha detto a un certo punto. «L’America è stata fondata sulla libertà e l’indipendenza e non sul controllo governativo e il controllo. Siamo nati liberi e resteremo liberi.» Applausi scroscianti da film, e inquadratura su Bernie Sanders che scuote la testa.
Non è la prima volta che l’amministrazione Trump si è dedicata all’argomento: lo scorso autunno il Council of Economic Advisers del presidente aveva pubblicato un report delirante e maccartista sui mali del socialismo. «Il socialismo sta tornando nel discorso pubblico americano» esordiva, per proseguire con i classici talking points di propaganda generati automaticamente a partire dalla formula: «governi antidemocratici + carestia».
L’epopea di Bernie Sanders nel 2016, la recente ascesa di Alexandria Ocasio-Cortez, ora Trump che attacca il socialismo – si parla già di come questo potrebbe essere uno dei suoi cavalli di battaglia per le elezioni del 2020: è evidente che seppure in forma estremamente edulcorata, più vicina alla socialdemocrazia tedesca d’anteguerra che al partito bolscevico, il socialismo si sta riaffacciando nel discorso politico americano.
L’ultima volta che aveva alzato la testa era stato sotto lo stimolo diretto della lotta di classe incarnata nell’URSS. La nuova lotta di classe globale in corso oggi si riflette – anzi, ne è la causa prima – anche nella situazione politica qui da noi, nella metropoli capitalista del mondo, ma a maggior ragione anche questa volta non bisogna illudersi che l’ascesa socialista in Occidente possa arrivare a giocare un ruolo diverso da quello del bersaglio per un nuovo maccartismo.
La fase di reazione che vediamo non è una reazione in ascesa, ma una reazione che compatta i ranghi.
Negli Stati Uniti Trump e si scaglia contro i discorsi socialisti più blandi tra applausi scroscianti; in Europa le destre più o meno estreme avanzano, talvolta governano pure con percentuali bulgare che di fatto consentono loro di rimodellare le società a loro piacimento; in Italia la più blanda sinistra non esiste proprio e la lotta è tra destra liberale e destra neofascista, tra destra elegante e destra grezza; in Ucraina il Partito Comunista viene estromesso dalla competizione elettorale.
Tutti i segnali ci indicano una nuova epoca di profonda reazione e il fatto che in questo contesto si parli di un ritorno del socialismo non è affatto contraddittorio, semmai una conferma: la fase di reazione che vediamo non è una reazione in ascesa, ma una reazione che compatta i ranghi. Lo fa con l’autoritarismo appoggiato dai militari di Bolsonaro, con la creazione di società organiche, blocchi di consenso al 60 percento che di fatto espellono il dissenso dall’arena politica come in Europa, e attaccando i simboli stessi di quel dissenso come le martellate sulla tomba di Marx. C’è una guerra fredda che viene e bisogna prepararsi compattando il fronte interno.
Impregnati come siamo del bias sciovinista occidentale che limita il nostro mondo mentale alle due sponde dell’Atlantico, e soprattutto calati fisicamente dentro il fronte interno, non riusciamo a vedere oltre il nostro naso – al punto che ci passa sotto gli occhi il più grande sciopero della storia, in India, e non ci rendiamo nemmeno conto della sua portata. Ma se uscissimo per un momento da quella prospettiva e riuscissimo a osservare il quadro generale, le lotte di classe su scala globale, ci troveremmo davanti a una situazione per cui potremmo parafrasare le parole di Marx nel famoso incipit del Manifesto del partito comunista:
Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze del vecchio mondo si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro: Trump e il deep state, Soros e Bolsonaro, liberisti europei e sovranisti italiani.
La sinistra riparta dai primi cristiani
Dunque ottime notizie: la situazione è terrificante, disperante, orribile ma tutto questo potrebbe essere una notizia positiva. In una situazione come questa la sinistra occidentale dovrebbe porsi domande su come supportare questa lotta di classe globale dall’interno, come fare opera di sabotaggio. Oppure – il passo ancora prima – come svelare i mascheramenti che vorrebbero impedire al fronte interno di percepire questa lotta di classe per quello che è.
Nonostante in questo momento storico la nostra posizione non sia nemmeno più difensiva, nemmeno più di ritirata strategica, ma piuttosto di fuga a rotta di collo, continuiamo imperterriti a cercare sempre nuove ricette per tentare di ricostruire un tentativo di egemonia.
Abbiamo visto che brutta fine fanno queste ricette: lo spostarsi verso il liberalismo partorisce Marco Minniti senza nemmeno rallentare il processo di sgretolamento; il tentare di rivolgere contro le destre in ascesa le loro stesse armi (populismo di sinistra, sovranismo di sinistra) non solo non attecchisce ma spesso viene cooptato nel rossobrunismo. E man mano che accumuliamo ricette e tentativi regrediamo sempre di più: in trent’anni siamo tornati indietro di un secolo e tra tra micro-partiti residuali e un fiorire di iniziative confuse che non riescono a collegarsi a nessuna lotta reale, sembra di essere tornati indietro al «periodo dei circoli» della Russia zarista.
Anche quei pochi modelli più avanzati che sembrano avere una possibilità di funzionare – Corbyn, Alexandria Ocasio-Cortez che spaventa Trump – sono la socialdemocrazia tedesca di un secolo fa e presto o tardi, quando la lotta di classe globale farà scoppiare la contraddizione nascosta su cui poggiano, si ritroveranno anche loro su posizioni socialscioviniste, a votare i crediti di guerra.
Come socialsciovinista è la parola d’ordine della piena automazione che in questo contesto – e sono proprio gli autori di Inventare il futuro a riconoscerlo a bassa voce al termine del saggio – non può che applicarsi solo al centro imperialista e tradursi in un rinnovato sfruttamento coloniale del resto del mondo. La pretesa della piena automazione senza la rottura del monopolio tecnologico occidentale e dello sviluppo ineguale è una posizione perfettamente conciliabile – se non addirittura funzionale ad esso – con l’esito che la borghesia mondiale si augura per la lotta di classe globale in corso.
Quindi, se nessuno di questi modelli funziona, cosa dobbiamo fare? Per prima cosa – è scontato – ci sarebbe da unirci ricompattare anche i nostri di ranghi. Per il resto, la risposta non ci viene dalle teorie politiche del Novecento ma, dopo una valutazione dei rapporti di forza in campo, dalla lezione di antichi rivoluzionari: le prime comunità cristiane clandestine. La sinistra riparta da loro, la sinistra riparta dal nascondersi nelle catacombe.
La chiave con cui leggere il presente è quella di un titanico processo in atto il cui obiettivo è raggiungere una Grande Convergenza: ovvero, abolire la secolare disuguaglianza tra Occidente e resto del mondo sorta con la scoperta dell’America e l’epoca coloniale. In questo processo noi agiamo dalla parte sbagliata del fronte. Per le forze storiche in moto – in un mondo in cui, ad esempio, Mattarella e Salvini sono uniti nel revisionismo storico sulle foibe – agire apertamente vuol dire essere perseguitati.
Possiamo solo nasconderci nelle catacombe, tenere vivi i nostri riti, fare proseliti tra coloro che saranno esclusi dai processi di compattamento del fronte interno come i cristiani li facevano tra gli esclusi dell’impero romano… E prepararci a riemergere in tempi migliori.