La maschera di Escrava Anastácia
Pubblichiamo un estratto da Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, il libro di Grada Kilomba pubblicato da Capovolte, ringraziando la casa editrice e le traduttrici Mackda Ghebremariam Tesfaù e Marie Moïseper per la disponibilità. Giovedì 4 novembre, il libro verrà presentato da Grada Kilomba al Cicolo dei Lettori di Torino, in un appuntamento curato da SPAZIO GRIOT in collaborazione con Capovolte e Castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea.
Chi può parlare? Di cosa possiamo parlare? Cosa succede quando parliamo? Sono alcune delle domande ricorrenti che caratterizzano il lavoro di Grada Kilomba, in cui la memoria, il trauma, la razza e il genere si intersecano in nuovi linguaggi e danno vita a pratiche decoloniali. Il suo lavoro interroga le soggettività contemporanee, e l’iniziale coinvolgimento con un ricco corpo di letteratura psicoanalitica l’ha portata a un impegno coerente con i modi con cui gli spazi vengono occupati, costruiti e riprodotti nel tempo, attraverso una pratica artistica ancorata alla performance, alle installazioni e alla narrazione.
A Torino Grada Kilomba dialogherà con Johanne Affricot, fondatrice e direttrice artistica di SPAZIO GRIOT, Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, rispettivamente direttrice e capo curatrice di Castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea, per il quale l’artista sta concependo un nuovo lavoro legato alla sua ultima opera, O Barco | The Boat, presentata alla recente Biennale Di Arte Contemporanea di Lisbona e MAAT.
SPAZIO GRIOT è uno spazio nomade multidisciplinare che promuove la sperimentazione, l’esplorazione e la discussione attraverso le arti e la cultura. Johanne Affricot fonda GRIOTmag nel 2015, mossa dall’esigenza personale di creare uno spazio di rappresentazione che amplifichi le voci marginalizzate nel panorama artistico e culturale italiano e internazionale. GRIOTmag è animato dall’omonimo collettivo, formato da Johanne Affricot (curatrice e operatrice culturale), Celine Angbeletchy, conosciuta con il nome d’arte EHUA (autrice, artista, produttrice musicale) ed Eric Otieno Sumba (autore, teorico sociale e critico). Negli anni SPAZIO GRIOT ha curato appuntamenti artistici e culturali con, tra i vari, l’American Academy in Rome, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Spellbound Contemporary Ballet, Der Greif.
Maggiori info evento qui.
Tutte le immagini: Grada Kilomba, O Barco
La maschera
C’è una maschera di cui ho sentito parlare tante volte durante la mia infanzia. È la maschera che doveva indossare Escrava Anastácia. Tutti quei racconti e descrizioni dettagliate sembravano volermi mettere in guardia che quelli non erano solamente fatti del passato, ma memorie vive, seppellite nella nostra psiche, pronte per essere raccontate. Oggi voglio tornare a raccontarle. Voglio parlare della brutale maschera dell’impossibilità di parola.
Questa maschera era un oggetto concreto, un vero e proprio strumento che divenne parte del progetto coloniale europeo per più di trecento anni. Era composta da un pezzo posto dentro la bocca dellǝ soggettǝ Nerǝ, bloccato tra la lingua e la mascella e fissato dietro la testa con due lacci, uno a circondare il mento e l’altro il naso e la fronte.
Ufficialmente la maschera veniva utilizzata dai padroni bianchi per impedire allǝ africanǝ schiavizzatǝ di mangiare la canna da zucchero o le fave di cacao mentre lavoravano nelle piantagioni, ma la sua funzione primaria era indurre un senso di impossibilità di parola e paura, facendo della bocca sia un luogo muto che di tortura.
In questo senso, la maschera rappresenta il colonialismo nella sua interezza. Simbolizza la sadica politica di conquista e il suo crudele regime di silenziamento dellǝ cosiddettǝ Altrǝ: Chi può parlare? Cosa accade quando parliamo? E di cosa possiamo parlare?
La bocca
La bocca è un organo molto speciale, simbolizza il discorso e l’enunciazione. Attraverso il razzismo diventa l’organo di oppressione per eccellenza, rappresenta l’organo che lǝ bianchə vogliono e hanno bisogno di controllare.
In questo contesto la bocca è anche una metafora di possesso. Ci si immagina che lǝ soggettǝ Nerǝ voglia possedere qualcosa che appartiene al padrone bianco, i suoi frutti, ovvero lo zucchero di canna e le fave di cacao. Lui o lei vuole mangiarli, divorarli, espropriare il padrone dei suoi beni. Sebbene la piantagione e i suoi frutti appartengano “moralmente” al colonizzato, il colonizzatore perverte la lettura del gesto, come segno di furto. “Ci stiamo prendendo ciò che è Loro” diventa “Si stanno prendendo ciò che è Nostro”.
Abbiamo a che fare qui con un processo di negazione, poiché il padrone nega il suo progetto di colonizzazione e lo proietta sullǝ colonizzatǝ. Questo movimento di affermazione sull’Altrǝ di ciò che lǝ soggettǝ rifiuta di riconoscere in se stessǝ caratterizza il meccanismo di difesa dell’Io.
Nel razzismo, la negazione è utilizzata per mantenere e legittimare le strutture violente dell’esclusione razziale: “Vogliono prendersi ciò che è Nostro, dunque devono essere controllati”. La prima e originale informazione – “Ci stiamo prendendo ciò che è Loro” – è negata e proiettata sull’Altrǝ – “Si stanno prendendo ciò che è Nostro” – che diventa ciò che lǝ soggettǝ biancə non vuole conoscere. Mentre lǝ soggettǝ Nerǝ si trasforma in nemico invadente da mettere sotto controllo, lǝ soggettǝ biancə diviene la povera vittima costretta al comando. In altre parole, l’oppressore diviene l’oppressǝ e l’oppressǝ il tiranno.
Questo si basa su processi in cui delle parti scisse della psiche sono proiettate all’esterno, andando a creare lǝ cosiddettǝ Altrǝ come antagonista del “sé”. Questa scissione evoca il fatto che lǝ soggettǝ biancə è in un certo senso divisǝ in se stessǝ, poiché sviluppa due atteggiamenti verso la realtà esterna: soltanto una parte dell’Io – quella “buona”, accogliente e benevola – è esperita come “sé”. L’altra parte – quella “cattiva”, respingente e malevola – è proiettata sull’Altrǝ ed esperita come esterna. Lǝ soggettǝ Nerǝ diviene allora uno schermo di proiezione per ciò che lǝ sogget tǝ biancə teme di riconoscere di se stessǝ: in questo caso, il ladro violento, il rapinatore indolente e malizioso. Di un’intensità tale da generare ansia e un senso di colpa o vergogna insopportabile, questi aspetti disonorevoli sono proiettati all’esterno come via per sottrarvisi. In termini psicoanalitici questo permette ai sentimenti positivi verso se stessǝ di rimanere intatti – la bianchezza come sé “positivo” – mentre le manifestazioni del sé “negativo” sono proiettate all’esterno e viste come oggettǝ “negativǝ” esternǝ. Nel mondo concettuale bianco, lǝ soggettǝ Nerǝ è identificatǝ come l’oggettǝ “cattivə” che incarna quegli aspetti che la società bianca ha represso e trasformato in tabù, ovvero l’aggressività e la sessualità.
Noi finiamo così per coincidere con ciò che è minaccioso, pericoloso, violento, elettrizzante e sporco, ma desiderabile, permettendo alla bianchezza di guardare a se stessa come moralmente perfetta, rispettabile, civilizzata, oltremodo generosa, capace di controllo totale e libera dalle ansie provocate dalla sua stessa storicità.
La ferita
In questa triste dinamica, lǝ soggettǝ Nerǝ diviene non solo l’Altrǝ – la differenza con cui si misura il “sé” bianco – ma anche l’“Alterità” – la personificazione degli aspetti repressi del “sé” bianco. In altre parole, diventiamo la rappresentazione mentale di ciò che lǝ soggettǝ biancə non vuole sembrare. Toni Morrison (1994) utilizza l’espressione “dissomiglianza” (unlikeness) per descrivere la bianchezza come un’identità dipendente che esiste attraverso lo sfruttamento dell’Altrǝ, un’identità relazionale costruita dalle persone bianche definendo se stesse come dissimili dallǝ Altrǝ razziali. La Nerezza quindi funge da forma primaria dell’Alterità attraverso cui la bianchezza si costruisce. L’Altrǝ non è altrǝ per sé, diviene tale attraverso un processo di negazione assoluta. In questo senso Frantz Fanon scrive:
«Ciò che viene chiamata “anima Nera” è una costruzione del bianco» (Fanon 2015, p. 31).
Questa affermazione ci ricorda che ciò di cui ci stiamo occupando non è lǝ soggettǝ Nerǝ, ma le fantasie bianche su quello che la Nerezza dovrebbe essere. Fantasie che non rappresentano noi stessǝ ma l’immaginario bianco. Questi sono gli aspetti negati del sé bianco che vengono ri-proiettati su di noi, come se fossero raffigurazioni autorevoli e obiettive di noi stessǝ. Non sono tuttavia un nostro problema.
«Impossibile andare al cinema senza incontrarmi. Mi aspetto», scrive Fanon (2015, pp. 133-134). Aspetta i selvaggi Neri, i barbari Neri, i servi Neri, prostitute, puttane e cortigiane Nere, criminali Neri, assassini e spacciatori. Aspetta quello che lui non è. Potremmo dire in realtà che nel mondo concettuale bianco, è come se l’inconscio collettivo delle persone Nere sia pre-programmato per l’alienazione, l’amarezza e il trauma psichico dal momento che le immagini della Nerezza con cui ci confrontiamo non sono né realistiche né gratificanti. Che alienazione è essere forzatǝ ad identificarci con eroi bianchi che respingono nemici che appaiono come Neri. Che amarezza essere forzatǝ a guardare a noi stessǝ come se fossimo al loro posto. Che dolore essere intrappolatǝ in questo ordine coloniale.
Questa dovrebbe essere la nostra preoccupazione. Non dovremmo preoccuparci dellǝ soggettǝ biancə nel colonialismo, ma piuttosto del fatto che lǝ soggettǝ Nerǝ è sempre costrettǝ a sviluppare una relazione a se stessǝ attraverso la presenza alienante dell’Altrǝ biancə (Hall 1996). Sempre messǝ nel posto dell’Altrǝ mai quello del sé.
«Che cos’era per me – domanda Fanon – se non uno scollamento, una lacerazione, un’emorragia che coagulava sangue Nero su tutto il mio corpo?» (2015, p. 112). Fanon utilizza il linguaggio del trauma, come molte persone Nere quando parlano delle loro esperienze quotidiane di razzismo, indicando il doloroso impatto corporeo e la perdita caratteristica di un crollo traumatico, poiché nel razzismo si viene rimossǝ chirurgicamente, separatǝ con violenza da qualsiasi identità una persona possa realmente avere. Tale separazione è definita come trauma classico, poiché depriva una persona della propria connessione con una società inconsciamente pensata come bianca.
«Sentivo nascere in me delle lame di coltello» (p. 116), sottolinea: «Non potevo più [divertirmi]» (p. 111). Non c’è proprio niente di cui divertirsi poiché ci si trova sovradeterminatǝ dall’esterno da fantasie violente che si vedono ma che non si riconoscono come proprie.
Questo è il trauma dellǝ soggettǝ Nerǝ. Risiede esattamente in questo stato di assoluta Alterità in relazione allǝ soggettǝ biancə. Un circolo infernale: «Quando mi si ama mi si dice che è nonostante il mio colore. Quando mi si detesta si aggiunge che non è a causa del mio colore». Fanon scrive: «Da una parte o dall’altra, sono prigioniero». Prigioniero senza ragione. Sembra allora che il trauma delle persone Nere derivi non solo da eventi connessi all’ambito familiare, come sostiene la psicoanalisi classica, ma piuttosto dal contatto traumatico con la violenta irrazionalità del mondo bianco, cioè con l’irrazionalità del razzismo che ci posiziona sempre come Altrǝ, come differente, incompatibile, conflittuale, stranǝ e insolitǝ. Questa irragionevole realtà del razzismo è descritta da Fanon come traumatica:
«[E]ro odiato, detestato, disprezzato, non dal vicino di casa o dal cugino di parte materna, ma da una razza intera. Ero esposto a qualcosa di irragionevole. Gli psicoanalisti dicono che per il bambino non c’è niente di più traumatizzante che il contatto con il razionale. Personalmente direi che per un uomo che non ha altra arma che la ragione, non c’è niente di più nevrotico che il contatto con l’irrazionale». (Fanon 2015, p. 116).
Più avanti prosegue: «Avevo razionalizzato il mondo e il mondo mi aveva respinto in nome del pregiudizio di colore (…). Toccava al bianco essere più irrazionale di me» (2015, p. 120). Sembrerebbe che l’irrazionalità del razzismo sia il trauma.
Mi piace molto la frase “quiet as it’s kept”. È un’espressione delle persone afro-diasporiche che annuncia come qualcuno stia per rivelare ciò che si presume essere un segreto. Segreto come la schiavitù. Segreto come il colonialismo. Segreto come il razzismo.
Dare voce al silenzio
La maschera dunque solleva molti interrogativi: perché si deve serrare la bocca allǝ soggettǝ Nerǝ? Perché deve essere silenziatǝ? Cosa potrebbe dire se la sua bocca non fosse sigillata? E cosa si troverebbe ad ascoltare lǝ soggettǝ biancə? C’è un timore ansioso per il fatto che se lǝ soggettǝ coloniale parla, il colonizzatore debba ascoltare. Lui o lei sarebbe costrettǝ a uno spiacevole confronto con le verità dell’Altrǝ. Verità che sono state negate, represse e tenute in silenzio, come i segreti. Mi piace molto la frase “quiet as it’s kept”. È un’espressione delle persone afro-diasporiche che annuncia come qualcuno stia per rivelare ciò che si presume essere un segreto. Segreto come la schiavitù. Segreto come il colonialismo. Segreto come il razzismo.
La paura bianca di ascoltare ciò che potrebbe essere rivelato dallǝ soggettǝ Nerǝ può essere articolata con la nozione di rimozione secondo Sigmund Freud, dal momento che «l’essenza di repressione – scrive – consiste semplicemente nell’allontanare qualcosa dal conscio, e tenervelo a una certa distanza». (Freud 1992, p. 830). È quel processo attraverso il quale le idee spiacevoli – e le verità spiacevoli – sono rese inconsce, fuori dalla consapevolezza, a causa dell’estrema angoscia, senso di colpa o vergogna che causano. Tuttavia, mentre vengono sepolte nell’inconscio come segreti, rimangono latenti e capaci di essere rivelate in ogni momento. La maschera che sigilla la bocca dellǝ soggettǝ Nerǝ impedisce che il padrone bianco ascolti quelle verità latenti che non vuole “allontanare”, “tenere a distanza”, ai margini, inosservate e “silenziose”. Per così dire, protegge lǝ soggettǝ biancə dal dover riconoscere la conoscenza dell’Altrǝ. Una volta che si è confrontatǝ con i segreti collettivi e le spiacevoli verità di quella storia sporca, lǝ soggettǝ biancə di solito afferma di “non sapere”, “non ricordare”, “non credere” o di “non essere convintǝ”. Sono espressioni di questo processo di rimozione attraverso cui lǝ soggettǝ resiste al rendere consce delle informazioni inconsce. In altre parole si vuole rendere ignoto ciò che è noto.
La rimozione in questo senso è la difesa attraverso cui l’Io controlla ed esercita censura di ciò che viene istigato come una verità “spiacevole”. Parlare diventa allora virtualmente impossibile perché quando parliamo il nostro discorso è spesso letto come una dubbia interpretazione della realtà, non abbastanza imperativa per essere espressa o ascoltata. Questa impossibilità dimostra che parlare e tacere emergono come un progetto analogo. L’atto di parlare è come una negoziazione tra coloro che parlano e coloro che ascoltano, tra ǝ soggettǝ parlanti e lǝ loro uditorǝ (Castro Varela e Dhawan 2003). Ascoltare in questo senso corrisponde all’atto di autorizzazione verso chi parla. Si può parlare (soltanto) quando la propria voce viene ascoltata. In questa dialettica coloro che sono ascoltatǝ sono coloro che “appartengono”. E coloro che non sono ascoltatǝ diventano coloro che “non appartengono”. La maschera ri-crea questo progetto di silenziamento, controllando la possibilità che lǝ soggettǝ Nerǝ possa un giorno essere ascoltatǝ e di conseguenza appartenere.
Questo è un ritratto di Escrava Anastácia (Schiava Anastácia). L’immagine penetrante porta lo spettatore a imbattersi negli orrori della schiavitù sopportati da generazioni di africanǝ schiavizzatǝ. In assenza di una storia ufficiale, alcune versioni sostengono che Anastácia fosse la figlia di una famiglia reale Kimbundo, nata in Angola, portata a Bahia (Brasile) e ridotta in schiavitù da una famiglia portoghese. In seguito al rientro della famiglia in Portogallo fu venduta al proprietario di una piantagione di zucchero. Altre versioni ritengono che fosse una principessa Nagô/Yoruba prima di essere catturata da schiavisti europei e portata in Brasile, mentre altre ancora indicano Bahia come suo luogo di nascita.
Il suo nome africano è ignoto; Anastácia era il nome datole nel corso della sua schiavitù. Secondo tutte le fonti fu costretta a indossare un pesante collare di ferro e una maschera facciale che le impediva di parlare. Le ragioni attribuite a questa punizione sono diverse: c’è chi fa riferimento al suo attivismo politico nell’aiutare altrǝ schiavizzatǝ a fuggire; chi dichiara che oppose resistenza alle avances amorose del suo padrone bianco; eppure una versione attribuisce la colpa a una padrona gelosa della sua bellezza. Si dice spesso che possedesse enormi poteri di guarigione e che compisse miracoli ed era vista come una santa tra lǝ africana schiavizzatǝ. In seguito a un lungo periodo di sofferenza, Anastácia morì di tetano a causa del collare attorno al suo collo. Il disegno di Anastácia fu realizzato dal francese Jacques Arago, ventisette anni, che si unì a una spedizione scientifica in Brasile come disegnatore tra dicembre 1817 e gennaio 1818. Ci sono altri disegni di maschere che coprono l’intero volto con due fori per gli occhi. Queste erano utilizzate per impedire di mangiare sporcizia, una pratica in uso tra lǝ africanǝ schiavizzatǝ per suicidarsi. Nella seconda metà del Ventesimo secolo la figura di Anastácia iniziò a essere il simbolo della brutalità della schiavitù e del razzismo come sua eredità permanente. Anastácia divenne un’importante figura politica e religiosa in tutto il mondo africano e afro-diasporico, a rappresentazione di un’eroica resistenza. La prima venerazione su larga scala ebbe inizio nel 1967 quando i curatori del Museu do Negro (Museo Nero) di Rio allestirono una mostra per celebrare l’ottantesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù in Brasile. È comunemente vista come una santa dei Pretos Velhos [NdT, così vengono definiti gli antichi schiavizzati Neri arrivati dall’Africa in Brasile], direttamente collegata all’Orixá Oxalá o Obatalá – il dio della pace, della serenità, della creazione e della saggezza – ed è oggetto di devozione nelle religioni Candomblé e Umbanda (Handler e Hayes 2009).