La gente sono gli altri
Nel suo La gente – viaggio nell’Italia del risentimento, Leonardo Bianchi mette in fila dieci anni di aberrazioni politiche che sono sfociate in movimenti di piazza: dai Forconi alle manifestazioni contro «il gender», a sfilare è quella galassia vasta e contraddittoria che va sotto il nome di «gentismo», una specie di degenerazione del populismo in formato immagine macro. Ho parlato con Leonardo non solo dei contenuti del suo libro (e più in generale del suo lavoro come news editor di VICE), ma anche del difficile rapporto tra le pulsioni gentiste e una sinistra che con un certo sdegno aristocratico sembra nascondere la nostalgia per un’egemonia ormai perduta.
La prima considerazione che mi è venuta in mente leggendolo è che, parafrasando, «la gente sono gli altri»: le manifestazioni che racconti sono state tra le più vistose di questi dieci anni in cui la «sinistra» si è quasi del tutto astenuta dal manifestare, abdicando a quell’egemonia popolare che le ha da sempre riempite, quelle piazze. Nel tuo libro usi il «risentimento» come categoria che di fatto squalifica questi movimenti, però è anche vero che il il retroterra culturale della sinistra è fatto anche di piazze che intonavano canzoni come «a violenza la rivolta, chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani», che sarebbero potute tranquillamente essere inserite nella stessa categoria «risentita». Non temi che questo possa tradire un sentimento in qualche modo aristocratico, dispregiativo, lo stesso che ha portato la sinistra a perdere la sua credibilità su quegli strati sociali?
Non ho usato la parola «risentimento» come una categoria squalificante, ma come un termine in grado di tenere insieme tutte gli episodi che racconto nel libro. Mi spiego: alla base di ogni rivendicazione c’è un sentimento di rancore per un torto o un danno subito – che a volte esiste, è reale, e va ascoltato. In molti altri casi che tratto, però, non esiste e si verifica l’esatto contrario: c’è la costruzione ideologica di una «Gente» risentita, che una minoranza cavalca in cerca di fortuna e speculazione politica.
Ed è proprio questa speculazione a instillare veleno in una società confusa; perché, alla fine, il rancore e la rabbia non sono il motore della costruzione di un’alternativa o di messa in discussione del sistema. Piuttosto, sono sentimenti utilizzati da imprenditori politici – piccoli o grandi, raffinati o improvvisati – che si muovono nelle pieghe della crisi della rappresentanza.
La parola «risentimento», inoltre, è abbastanza sfumata e permette secondo me un’ulteriore lettura che si ricollega a quello che mi chiedi alla fine. Ed è la seguente: la politica stessa cova un risentimento nei confronti del popolo, della «Gente», perché non è più in grado di gestirlo e coinvolgerlo fino in fondo – e nella «politica» includo anche i partiti che si dipingono come paladini della volontà popolare, gli autoproclamati «sindacati del popolo», e così via.
Questo poi è un discorso che drammaticamente vale ancora di più a sinistra, e maggior ragione per quella «sinistra» (o centrosinistra) che da tempo ha adottato concrete politiche dispregiative nei confronti di certi strati sociali. Un esempio su tutti: quella che Piero Brunello chiamava «l’urbanistica del disprezzo» nei confronti dei rom, e che a Roma è stata portata avanti in primis da amministrazioni di sinistra. Per restare a Roma, c’è un altro esempio di stretta attualità: il caso di Ostia, che ha visto il candidato locale di una formazione neofascista come CasaPound arrivare al 9% dei voti (seppure abbia votato solo il 36% dell’elettorato).
Per il resto, non è un caso se la «sinistra» non fa quasi mai capolino nel libro: per un verso non era quello l’oggetto del mio lavoro; e per un altro, effettivamente non c’è quasi mai stata nelle storie che affronto – nemmeno quando ha goffamente cercato di cavalcarle, come nel caso di un «minisindaco» di un municipio di Roma Est ai tempi della rivolta delle periferie del 2014.
Proprio parlando del caso di Ostia, una nota testata militante ha parlato di «eccezionalizzazione dei fascisti». Nel momento in cui «il sistema dei partiti è visto, in maniera traversale, come un cancro da estirpare, chi vorrebbe essere “normalizzato” dentro quella cornice?», si chiede l’articolista, e a me sorge un po’ lo stesso dubbio: rappresentando questi movimenti secondo la categoria del «gentismo», non è che si finisce per rafforzarli, rinfocolando quell’eroismo brancaleonesco sul quale costruiscono la loro epica?
Il rischio di «eccezionalizzare» i fascisti è assolutamente concreto, soprattutto quando il sistema mediatico rinuncia all’approfondimento giornalistico per appiattirsi sulla propaganda di certi partiti – su tutti CasaPound, che a differenza di Forza Nuova padroneggia meglio (ma giusto un attimo meglio, non è che facciano chissà cosa) le logiche della comunicazione e punta sempre e comunque al massimo dell’esposizione mediatica con il minimo sforzo.
A questo proposito, la copertura dell’estrema destra sta diventando molto più complicata e delicata di quello che era fino a non troppo tempo fa. In questo senso, ogni volta che scrivo di neofascismo mi faccio sempre un sacco di domande: sto guardando la storia dal lato giusto? Sto lasciando fuori dati importanti? Sto cadendo nei loro tranelli comunicativi? E ancora: mi sto facendo manipolare in qualche modo? Per questo, come ho fatto per i reportage più lunghi che poi ho traslato nel libro (la rivolta delle periferie romane, le proteste contro «l’ideologia gender», e altro), una buona parte del lavoro è dedicata proprio al disvelamento di certi meccanismi: penso alla ricostruzione degli organigrammi di certi comitati di quartiere, a come quest’ultimi vengono rappresentati nei media, alla mappatura dei protagonisti e dei contatti che hanno con altre realtà, alle tattiche importate dall’estero, e così via.
Penso però di aver fatto lo stesso con i movimenti più «gentisti», che non necessariamente ricadono nell’estrema destra. Nei capitoli sui Forconi e sul movimento #9dicembre, ad esempio, ricostruisco in maniera molto dettagliata come sono nati, chi c’è dentro, come si sono sviluppati, come si muovono, come hanno preso piede e come all’improvviso i media si sono accorti della loro esistenza. Il tutto senza trattarli, appunto, come una cosa «eccezionale» che all’improvviso è piovuta dal cielo e dunque diventa un’«emergenza». Questo a mio avviso non vuol dire «rafforzarli», ma raccontare e analizzare un fenomeno che indubbiamente esiste (o è esistito, anche nei suoi aspetti più ridicoli e brancaleoneschi) e ha un lascito concreto.
Come hai detto, uno dei focus del libro è su quegli «imprenditori politici – piccoli o grandi, raffinati o improvvisati – che si muovono nelle pieghe della crisi della rappresentanza»: ecco, leggendoti ho avuto l’impressione che questi capopopolo improvvisati riescano nei loro intenti proprio grazie alla sovra-rappresentazione che se ne dà. Alcuni iniziano la loro parabola proprio a margine di questi movimenti, e poi diventano figure centrali grazie a dichiarazioni sopra le righe, utilissime alla stampa per raccontare quanto sta accadendo, attivando così un meccanismo che finisce per definire le leadership e quindi le direzioni politiche complessive…
Quel meccanismo che descrivi sicuramente esiste, ma secondo me funziona a dovere – ha cioè effetti concreti – con chi non è improvvisato. Danilo Calvani, leader del movimento #9dicembre, ha avuto una fiammata a livello nazionale e poi è sostanzialmente ritornato nel sottobosco a cui appartiene. Discorso diverso, invece, va fatto per altre figure di cui parlo nel libro – come Nicola «Naomo» Lodi, un politico locale della Lega Nord in forte ascesa.
Lodi ha inventato un suo metodo, in cui da un lato si rappresenta da solo attraverso i social – soprattutto con dirette Facebook dai posti «degradati» di Ferrara – e dall’altro ottiene ulteriore visibilità giocando di sponda con trasmissioni come Dalla vostra parte e Quinta Colonna, che proiettano le solite questioni locali (degrado, immigrazione, e così via) su scala nazionale. È grazie a questo modus operandi che ha avuto un ruolo determinante nelle barricate di Gorino, venendo chiamato dagli abitanti e portando in dote con sé tutto questo bagaglio mediatico. Tuttavia, un anno dopo l’episodio, alcuni abitanti sono ritornati sui loro passi e hanno detto: «La verità è che ci siamo fatti fregare. Siamo stati usati dai soliti politici capopopolo per la loro guerra».
Si tratta chiaramente di un racconto autoassolutorio, perché alla fine le barricate le hanno fatte sul serio – strumentalizzazioni o meno. Però, come dicevo poco su, in determinati casi quel meccanismo arriva a definire la realtà. E tra l’altro, anche grazie a Gorino, la Lega Nord ha premiato «Naomo» nominandolo segretario provinciale di Ferrara.
Nelle analisi del gentismo noto spesso un certo fastidio che rischia di sfociare in derive prescrittive. Anche perché si potrebbe obiettare che, storicamente, di rado le masse sono andate per il sottile: avrei voluto sentire, insomma, la vox populi delle taverne durante gli anni della rivoluzione francese – mi tornano in mente gli Offlaga Disco Pax: «La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre/Le risposi che i Giacobini avevano ragione e che Terrore o no/La Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta». Non credi che sarebbe più utile tentare di ricostruire un rapporto dialettico con alcune di queste istanze, anche se spesso irrazionali?
«Massa» è di per sé un termine problematico, perché la massa non è mai «massa» in quanto tale. Non è cioè un corpo unico e granitico, ma è un qualcosa che si scompone e ricompone a seconda dei momenti e delle fasi storiche. A tal proposito, se c’è una cosa che mi pare di aver fatto nel libro è stata proprio quella di aver ricostruito i vari gruppi che hanno animato certe vicende, e fatto sentire le voci dei protagonisti (piccoli e grandi), sia intervistandoli che riportando quello che hanno detto alla stampa e sui social network.
Sulla ricostruzione di un rapporto dialettico, sono in linea di massimo d’accordo. Ma non è l’obiettivo con cui ho scritto il libro, che è appunto quello di andare alla radici di certi fenomeni – senza però manifestare un fastidio generalizzato; poi, certo, è umano essere infastiditi di fronte a certe esternazioni… Un esempio su tutti: ho preso sul serio persino la teoria delle scie chimiche – all’apparenza è l’istanza più irrazionale di tutte – definendola il sintomo di un più ampio clima culturale di paura legato a temi come il cambiamento climatico e la restrizione delle libertà civili.
Ma in generale, questa considerazione differente delle piazze, questo valutarne il peso sociopolitico più che la portata popolare, non pensi nasconda dei rischi? Quali pensi che sia il metro con cui misurare «l’impatto della piazza» oggi?
Secondo me, in questa fase bisogna valutare le piazze in maniera diversa da come si faceva una volta. Se ci pensiamo, l’ultima grande piazza post-G8 è stato il 15 ottobre 2011, quando 200.000 persone arrivarono a Roma per Occupy the World: sappiamo tutti com’è andata, e l’impatto non decisivo che ha avuto. A memoria, dopo di questa, l’ultima piazza davvero stipata fino all’ultimo metro è stata San Giovanni, alla chiusura della campagna elettorale del M5S nel febbraio del 2013. Quella, però, non era una vera «piazza»; era più che altro una sorta di spettacolo con un pubblico, più che con manifestanti. Più recentemente si è imposto anche un altro tipo di «piazza», quella degli «italiani incazzati» blanditi dalle trasmissioni che ho citato prima.
Detto ciò, secondo me è molto utile andare a vedere anche le manifestazioni più piccole e improbabili, quelle che di solito la stampa non copre (o copre di sfuggita). In un capitolo del libro tratto un evento del tutto marginale, che si chiamava «Circondiamo il parlamento» e si tenuto di fronte a Montecitorio il 22 marzo 2017. Non c’erano più di trecento persone, ma in realtà osservando la piazza – e il rapporto con Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio – si potevano trarre degli ottimi spunti di riflessione sul funzionamento del M5S, oltre a individuare alcune chiavi del loro successo.
Oggi nel senso comune collettivo coesistono due affermazioni in assoluto contrasto tra loro: la prima è «grazie a Internet è stata data voce a chi finora non ne aveva», la seconda è che «Internet dà spazio alle peggiori vigliaccherie e violenze verbali a persone che nella vita quotidiana mai si permetterebbero di esprimere tali nefandezze». Che Internet immagini? Quali sarebbero per te gli spazi di dibattito e informazione ideali? Come credi dovrebbero essere gestiti?
Mi sembra che le due affermazioni iniziali siano rispettivamente troppo utopica e troppo distopica, e fondamentalmente non vere. Soprattutto la seconda, che è cavalcata da media incapaci di rapportarsi a Internet e da alcuni politici italiani a corto di idee, o con idee che hanno addirittura un sapore censorio (il ddl Gambaro, ad esempio, era una porcheria fortunatamente finita nel dimenticatoio).
La verità è che il dibattito pubblico è sempre stato contraddittorio – cioè un gran casino – segnato al tempo stesso da irrazionalità e razionalità, conflitti e unità, odio e solidarietà, e così via. Internet non fa altro che riflettere queste caratteristiche in maniera molto ambivalente, e che vanno decodificata con attenzione, senza cedere a facili scorciatoie tipo quella dei «webeti» o del «blastare», per restare in Italia.
In questo senso sono d’accordo con la tesi di un recente libro di Whitney Phillips e Ryan Milner, The Ambivalent Internet, che parlano appunto dell’ambivalenza insita nello strumento Internet e della necessità di ricostruire i processi culturali che stanno a monte. E ovviamente – aggiungo io – un approccio del genere ti porta per forza di cose a instaurare se non un rapporto dialettico, quantomeno un atteggiamento non denigratorio.
Insomma: non saprei davvero che Internet immaginarmi, ma di sicuro non mi convincono certe letture catastrofiste che stanno prendendo piede. Una di queste è che l’Internet di una volta – uno spazio aperto, progressista e illuminato – sia stato conquistato da frange radicali che spargono odio e sovvertono l’utopia iniziale della rete. Come ha ricostruito un recente articolo apparso sul Guardian, l’estrema destra in tutto il mondo ha sempre usato Internet – e anzi: a livello politico è stata tra i primi in assoluto a farlo – come un modo di aggirare i media mainstream e come forma di autorganizzazione. Però, e qui si ritorna al concetto di ambivalenza, l’autore sostiene che Internet è «un amico della destra radicale tanto quanto di chi si definisce progressista». E infatti, scrive Jamie Bartlett, «abbracciare il nuovo è una cosa naturale per un movimento che spera di rovesciare l’ordine costituito».
Poco fa hai detto che il termine gentismo è connaturato alla crisi della rappresentanza di cui soffre il sistema democratico italiano. Nello spettacolo di Grillo uscito qualche tempo fa su Netflix mi ha molto colpito il passaggio in cui dice che, anche qualora il M5S dovesse sciogliersi, il suo compito storico sarà stato quello di aver stravolto le modalità gestionali e la democrazia interna ai partiti. Credi che sia un’affermazione sensata?
A me di quello spettacolo (che avevo visto al teatro Brancaccio di Roma) ha colpito la capacità di Grillo di tenere perfettamente insieme la contraddizione tra l’essere un comico e un politico a capo di un partito; e come da questa contraddizione apparentemente insanabile riesca a trarre la sua forza, il suo impatto, e la sua sostanziale impermeabilità alle critiche.
Alla fine penso che il lascito più importante del M5S (e di Grillo e Casaleggio) sarà proprio questo: l’aver creato un approccio per certi versi inedito alla politica italiana, che ha cambiato le regole non scritte della comunicazione politica, attraverso un linguaggio e una narrazione accessibili a un elettorato che aveva perso ogni punto di riferimento. Non credo che il M5S avrà qualche effetto sulle modalità gestionali concrete, oppure sulla democrazia interna ai partiti. E questo per un semplice motivo: il M5S è proprio l’esito della crisi della gestione e della democrazia interna ai partiti. Erano già stravolte prima che arrivasse Grillo, insomma.
In Inventare il futuro, Nick Srniceck e Alex Williams sostengono che per «riuscire a instaurare un nuovo ordine egemonico» sarà necessario «un movimento populista di massa», e continuano specificando che i movimenti populisti «hanno mobilitato sezioni ampie e trasversali della società, anziché rivolgersi soltanto a particolari identità di classe. Sono movimenti che prendono le mosse dalla frustrazione provocata da richieste rimaste inascoltate: in circostanze democratiche normali, le rivendicazioni che arrivano dalla società – si tratti di incrementi salariali, sussidi di disoccupazione o servizi di assistenza sanitaria – vengono prese in carico nella loro specificità e affrontate dalle istituzioni preposte […] I movimenti populisti invece hanno cominciato a prendere piede quando richieste come salari adeguati, alloggi a prezzi popolari, servizi per l’infanzia e così via, hanno preso a essere regolarmente ostacolate». Non credi che l’egemonia fascistoide su questi movimenti sia determinata, in ultimo, da una sinistra che ha smesso di immaginare e proporre futuri alternativi e ripensare le proprie pratiche politiche?
Anzitutto, non credo che ci sia un egemonia fascistoide tout court nel populismo, così come non credo – ma questo lo dicono tutti gli studiosi dell’argomento – che il populismo sia necessariamente il male assoluto. Al contrario è uno dei concetti che, seppur non nuovo, è molto utile per capire come funziona la politica contemporanea. Ed è stato questo l’intento con cui l’ho usato (tra l’altro, in una sua variante specifica) nel mio libro; senza però la pretesta di fare il politologo o di indicare strade da percorrere, perché non è il mio ruolo. In alcuni fenomeni di cui parlo c’è sicuramente una componente fascistoide, che a volte si limita a un «cappello» istituzionale e poco più, ma tenderei a essere il più preciso possibile nell’individuare le responsabilità politiche, i protagonisti e soprattutto la storia che c’è dietro a certi movimenti. Ma più in generale, direi la Storia (con la S maiuscola).
Torniamo a qualche anno fa. Tra il 2008 e il 2012, per fare due esempi secondo me calzanti, in Grecia e in Spagna ci sono state enormi mobilitazioni di massa che poi sono state (in parte) assorbite da partiti come Syriza e Podemos. In Italia, all’incirca nello stesso periodo, si era aperta una «finestra» in cui era possibile far entrare certi discorsi e certe rivendicazioni di sinistra. Poi, però, quella finestra si è subito chiusa. Perché? Per vari motivi, su tutti l’ascesa del Movimento 5 Stelle. Che è, a tutti gli effetti, un partito populista di massa; se mi si perdona l’eresia, si potrebbe persino dire che il M5S ha applicato quasi alla lettera la lezione di Ernesto Laclau.
Ricreare in laboratorio certe condizioni per tentare di instaurare un «ordine egemonico» di segno diverso da quello che c’è già, qui e ora, non vedo come possa funzionare: nei migliori dei casi è un’illusione paternalista, nella peggiore un’inutile rincorsa che non porta a nulla. Non si può prescindere da un’analisi rigorosa della realtà. Tra l’altro, non è necessariamente vero che il populismo sia la formula vincente. Come mi ha detto il politologo olandese Cas Mudde tempo fa, «nessun fenomeno politico è inarrestabile: molti paesi non hanno partiti populisti forti, e in molti altri i populisti sono una minoranza. Sono pochi i governi populisti».
Per finire: se adesso in Italia siamo di fronte a questa situazione, è perché – molto banalmente – il corso della storia in questo paese è andato in una certa direzione. Quando si aprirà un altro ciclo, perché prima o poi si aprirà, la sinistra non dovrà trovarsi impreparata. O meglio: dovrà essersi già immaginata quel futuro alternativo.