La croce della pandemia
Sono tempi in cui ad aleggiare è lo spettro dell’epidemia, anzi della pandemia capace di spazzare via la razza umana. Tempi – anzi, giorni – in cui, tra legittime paure e psicosi mediaticamente indotte, il tema del contagio si riaffaccia nell’immaginario collettivo producendo letture che vanno dalla sdrammatizzazione ironica all’apocalittico, con tutto quello che c’è in mezzo. Di quali narrazioni siamo capaci quando all’orizzonte si profila l’incubo della pandemia? Cosa è capace di evocare in noi la parola «virus»?
In tempi recenti, il caso più estremo ci arriva da uno dei più disturbanti e meno chiacchierati concept horror prodotti nello scorso decennio: il crocevirus al centro di Crossed, serie a fumetti ideata dallo scrittore Garth Ennis e dal disegnatore Jacen Burrows nel 2008. Nel corso dei successivi dieci anni, diversi autori si sono misurati con l’universo finzionale inaugurato dai due, tra i quali Alan Moore. Dieci anni di storie parzialmente autoconclusive, collegate solo da una manciata di personaggi ricorrenti – e soprattutto da un’agghiacciante idea di fondo.
Di cosa parla Crossed? In un giorno x alla fine degli Anni Zero, una pandemia scoppia in varie parti del mondo annientando la civiltà nell’arco di poche settimane. Ma non è un virus mortale: è un’infezione altamente contagiosa che altera irreversibilmente il comportamento del soggetto. Esteriormente, si manifesta come uno sfogo cutaneo, un rash a forma di croce sul volto. L’infetto diventa oltremodo aggressivo e violento, un sadomasochista che pone il dolore al centro della propria vita: il suo unico scopo è stuprare, torturare e uccidere gli altri esseri umani, preferibilmente non infetti visto che questi ultimi ci godono. Il contagio si trasmette tramite qualsiasi fluido corporeo, saliva compresa, e ha tempi di incubazione brevissimi, pochi minuti. Nel giro di giorni, gli infetti si moltiplicano, riproducendosi tanto tra i civili, quanto tra i militari che erano stati nel frattempo mobilitati in varie zone del mondo. La loro sete di violenza fa scoppiare un rapido e insensato conflitto che porta all’immediato collasso della civiltà. Il mondo è in mano a orde di infetti seminudi che violentano tutto ciò che si muove e a pochi gruppi di sopravvissuti che cercano di sfuggirgli.
La maggior parte delle storie di Crossed si svolge in un lasso di tempo compreso tra il giorno x e qualche anno più avanti, seguendo le vicissitudini di superstiti sparsi in ogni parte del globo. Dal punto di vista editoriale, il macrocosmo di Crossed è diviso tra un corpus di storie maggiori come «Wish You Were Here», «Psychopath», «Family Values», «Crossed +100» e la serie Crossed Badlands, composta da una serie di racconti brevi con alcuni personaggi ricorrenti. In generale, ogni capitolo è indipendente ed è l’occasione per un autore di indagare e ampliare l’intuizione di Garth Ennis.
Gli infetti di Crossed sono infatti figure complesse e affascinanti che si inseriscono obliquamente nella tradizione novecentesca dei mostri dell’horror, dando vita a una reinterpretazione originale e inquietante del «contagiato» come categoria del non-umano.
Tre archetipi hanno esplorato la condizione del non-umano, anzi, non-più-umano, in cento e rotti anni di cultura pop: lo zombie, il vampiro e il fantasma. Tutti e tre hanno varcato la soglia tra la vita e la morte ma sono rimasti qui, perdendo qualcosa nel trapasso e guadagnando nuovi desideri, ossessioni, abilità.
Il vampiro, nella maggior parte delle rappresentazioni, è colui che perde di meno nel passaggio. Mantiene la sua intelligenza, acquista poteri sovraumani ed è maledetto dalla necessità di uccidere per sopravvivere. L’aristocratico dei non-morti è spesso felice nella sua condizione che viene talvolta consapevolmente ricercata come una via per l’immortalità. Il fantasma non ha il corpo, è più lì che qui, ma il suo legame con la vita precedente è solitamente il più forte di tutti. Il fantasma è ancora-qui perché non ha risolto qualcosa prima di diventare fantasma, è un passato che non passa, un’ossessione che parla. Lo zombie è l’esatto il contrario: mantiene il corpo, ma perde del tutto l’identità. Gli zombie hanno il difetto di essere tremendamente stupidi, poco più che marionette che deambulano scoordinatamente. In effetti, non sollevano riflessioni sulla vita e la morte, sulla metafisica dell’altromondo, come fantasmi e vampiri. Piuttosto, rimandano alle prime riflessioni psicanalitiche sull’horror, fatte dal padre della psicanalisi in persona intorno all’opera di E.T.A. Hoffmann: il sentimento del perturbante, per Sigmund Freud, viene evocato da qualcosa che è al contempo familiare e non familiare, qualcosa che sembra vita ma che non è vita, proprio come una marionetta animata. Più che parlarci del mondo dopo la vita, lo zombie sembra rispondere ai quesiti posti dall’istinto di morte, alle domande dei bambini che distruggono i giocattoli quasi completamente: fino a che punto possiamo chiamare «viva» questa cosa qui?
Riprenderemo l’alta filosofia più avanti ma, tornando con i piedi per terra, la stupidità intrinseca degli zombie ha costituito un problema molto concreto per gli scrittori di libri, fumetti e film, accompagnato immediatamente da un’altra caratteristica inalienabile: la loro lentezza. Che minaccia possono costituire questi paraplegici affetti da rigor mortis per degli umani pensanti, fisicamente idonei e magari pure armati? Il loro esordio cinematografico, La notte dei morti viventi di George Romero, ha più di una scena ridicola agli occhi contemporanei, mostrando gli zombie più realistici e inoffensivi di tutti: cadaveri impacciati che non dovrebbero impensierire l’incolumità di nessuno. L’inverosimile raggiunge il colmo quando una bambina zombie di circa cinque anni riesce a uccidere la madre che non oppone nessuna resistenza a questa cosina di venti chili che si avvicina lemme lemme con un coltello. Eppure niente riesce a fermare neppure il successo degli zombie nei decenni a seguire, perché lo zombie è spaventoso di per sé: un corpo putrefatto che ringhia e sputa, animato da pura ferocia e insensibile al dolore. C’è solo questo piccolo problema del rigor mortis e delle sue conseguenze sull’agilità.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, due fortunate saghe (una cinematografia e una videoludica) trovano la soluzione al problema: gli infetti. Resident Evil e 28 giorni dopo scoprono che la morte non è essenziale alla figura dello zombie, anzi. Dal punto di vista pratico, gli infetti non hanno la limitazione del rigor mortis, possono muoversi normalmente e persino correre, tanto da essere anche noti come «fast zombies». Dal punto di vista teorico, lo zombie non ha un rapporto così stringente con il ritorno dalla morte come, per esempio, il fantasma che ha spesso una volontà precisa (per quanto ossessiva) e si manifesta per risolvere qualcosa di lasciato in sospeso. Lo zombie ha sicuramente passato una soglia, ma non è tanto quella che separa i vivi dai morti quando quella degli umani dagli inumani. L’alterità dello zombie ha a che vedere con cosa resta di umano nell’inumano – e qua entrano in gioco i crossed.
Geneticamente appartengono alla famiglia degli infetti, ma sono molto di più delle bestie feroci che vediamo in Resident Evil e 28 giorni dopo: i crossed mantengono qualcosa di umano, spesso troppo umano.
Per prima cosa, è sbagliato definirli semplicemente feroci, cosa che comunque sono; è più corretto definirli crudeli. Zombie e infetti attaccano gli umani in virtù di un’aggressività assoluta e vuota, solitamente motivata dalla fame, almeno nel caso degli zombie. È invece il piacere a muovere i crossed. Sono dei crudeli sadomasochisti che infliggono dolore per il dolore e possono essere molto sofisticati in proposito. E questo ci conduce alla seconda caratteristica che separa i crossed dagli altri zombie/infetti della cultura pop: i crossed non sono stupidi. Anche se ad un’osservazione superficiale impiegano tutto il loro tempo a vaneggiare insalate di parole volgari, mentre scopano e uccidono, i crossed ricordano tutta la loro vita precedente e non perdono le competenze acquisite. Per questo sono stati in grado di scatenare conflitti nucleari e costituiscono una minaccia assoluta per i sopravvissuti: sanno usare armi da fuoco, guidare e persino raggiungere isole disabitate, ultimo rifugio dei sopravvissuti, se l’infetto in questione ha la patente nautica e una barca. Ciò che manca ai crossed non è la conoscenza, ma la motivazione. In assenza di esseri umani normali, vagano in branco in stato semicatatonico, non mostrando alcun istinto di preservazione contro gli agenti atmosferici e le malattie che sesso e mutilazioni reciproche ovviamente comportano. Ma messi di fronte a gente che è ancora in grado di soffrire senza godere, mettono in campo tutto quello che hanno per farli soffrire il più possibile, anche dal punto di vista emotivo. Se l’infetto conosce la sua vittima – il classico caso dell’amico/dell’amante/del fratello che diventa zombie –, la torturerà anche dal punto di vista psicologico, rievocando rancori passati e verità mai dette: ogni cosa pure di causare dolore. Insomma, i crossed rinunciano all’umano, ma vi hanno accesso.
La natura peculiare dei crossed, così sfaccettata e differente dagli altri mostri della cultura pop, diventa il centro di un horror il cui nemico non è mai svelato una volta per tutte. La speculazione filosofica sull’antropologia degli infetti è interessante tanto per il lettore quanto per i protagonisti stessi, che sono costretti a indagare, supporre, ipotizzare, prevedere i comportamenti di questo inumano troppo umano se vogliono sopravvivere. Lettori e protagonisti scoprono insieme l’universo post-apocalittico in modo frammentario e situato. Non ci sono narratori onniscienti, ogni episodio è raccontato in prima persona da uno che lo sta, suo malgrado, vivendo. Gli scrittori fanno tutti molta attenzione a ridurre al minimo le informazioni certe, per esempio lasciando sullo sfondo i narratori onniscienti del mondo reale, i mass-media, che sono collassati in pochi giorni, insieme al resto della civiltà, riuscendo a fornire ben poco supporto ai sopravvissuti. Il world-building è collettivo, in Crossed, e l’universo emerge a pezzi, dipanandosi da situazioni molto diverse, lontane nello spazio e nel tempo.
Si va dal tipico malassortito gruppo di superstiti che vaga tra boschi e campagne alla ricerca di rifugi sicuri, allo scrittore megalomane che organizza un ritiro boccaccesco con dieci aspiranti da manipolare mentre fuori la peste scoppia davvero; dall’inferno che si scatena in un villaggio di monaci buddhisti giapponesi, allo sguardo privilegiato delle quattro guardie del corpo di Gordon Brown, rinchiuse in ospedale militare con il (supposto) paziente zero della penisola britannica. Fino al capolavoro di Alan Moore: «Crossed +100», ambientato a cento anni esatti dallo scoppio dell’epidemia, in un Tennesse composto da piccole città fortificate che sognano di tornare una nazione. Moore riesce a raccontare il futuro di un universo alternativo a partire dal linguaggio. L’inglese parlato dalla terza generazioni di sopravvissuti rivela le vicissitudini della post-umanità a partire dalla grammatica e dalla lingua: a fronte di una generica semplificazione, con forme irregolari decadute, si assiste a un regresso del lessico con verbi di percezione che emergono dagli organi stessi – «to skull» al posto di «to think», «to opsy» al posto di «to see», ma anche «to food» al posto di «to eat»; l’intercalare «brown» sostituisce «fuck», perché marrone è la merda ma anche la terra sconfinata e piena di pericoli che separa una città fortificata dall’altra; «to rash» o «to go churchface» vuol dire «arrabbiarsi» in relazione allo sfogo cutaneo dei crossed; neologismi fonetici si sviluppano al posto di parole dimenticate: «horror-ball» al posto di «horrible», «air play-in» al posto di «airplane» e così via.
Ma neppure il balzo di un secolo di Moore risolve l’enigma dei crossed che resiste a ogni tentativo di spiegazione. Lungo le centinaia di pagine che li riguardano, scritte e disegnate da decine di mani, le ipotesi abbondano, così come le previsioni più o meno ottimistiche. Se non hanno cura di se stessi, non dovrebbero estinguersi nell’arco di un paio di inverni? Possono forse organizzarsi come rudimentali tribù e superare la loro natura? Qual è la loro natura? Sono una calamità divina? La croce rimanda alla religione cristiana? Sono ancora umani ma privi di inibizioni, crossed to the other side? Esiste una cura? Implicite o esplicite, queste domande risuonano in ogni storia, promettendo delle risposte essenziali alla vita dei protagonisti, risposte sempre incerte.
Crossed è ferma da quasi due anni, con l’ultima serie conclusasi nell’ottobre del 2018: «Crossed +100: Mimic», scritta da Christos N. Gage e disegnata da Emiliano Urdinola, ambientata nel futuro di Alan Moore. Nel 2014 ha rischiato di diventare una serie tv che però non ha mai raccolto abbastanza fondi. Il progetto era un’idea dello stesso Ennis che proprio in questi mesi ha visto un’altra sua opera trasposta sul piccolo schermo da Amazon Prime: The Boys. Mi auguro che il successo di The Boys possa riaccendere l’interesse verso una delle apocalissi più intelligenti mai scritte. Un’apocalisse che presenta sia l’ineluttabilità aliena del virus, ma anche la in-familiarità di un essere umano degenerato che è sempre troppo meno alieno di quanto vorremmo. Come si dice in una delle tante storie, a metà tra riflessione filosofica e survival-game: «I crossed non fanno niente che gli esseri umani non abbiano già fatto».