La condanna del nomadismo digitale
Non ricordo con precisione la prima volta che ho sentito parlare del concetto di «digital nomad», ma l’ho sempre ricevuto con un certo scetticismo. C’è uno stridìo implicito nell’accoppiata di queste due parole, che poi è ovviamente la ragione della sua popolarità: «digital» ha ancora quell’aura da brochure anni Novanta, abbastanza populista da raggiungere anche chi con internet non ci è nato; «nomad» invece evoca uno stile di vita molto «carpe diem», la frenesia di una gioventù perenne. Per quanto l’idea stessa di internet fosse inizialmente legata a metafore di viaggio – navigare, per esempio – il nomadismo digitale ha una dimensione più fisica, pur mantenendo l’ottimistica visione di una sfera «oltre», dove le scarsità umane ed economiche sono perlomeno più lontane.
In realtà, essere un nomade digitale oggi non richiede zainoni e scarpe da trekking, ma è piuttosto una strategia di desistenza proattiva in uno scenario globale dove la prigione dell’impiego fantozziano è comunque poco realistico. Un nomade digitale è semplicemente chi lavora in remoto grazie a internet, mettendo l’indipendenza dai ritmi e dall’alienazione del lavoro salariato come priorità e prendendo il controllo del proprio tempo.
A livello individuale tutto ciò sembra ottimo: ci si emancipa tramite la tecnologia, si rifiuta di aspettare la pensione e si inizia a godersi la vita subito. È però come modello aspirazionale collettivo che il nomadismo digitale ha dei problemi. Specifico: non ci tengo a fare un processo a chi si sbatte per vivere e lavorare viaggiando – anzi, chi scrive prova parecchia invidia a vedere le foto di amici e conoscenti raminghi sui social media – ma piuttosto al nomade digitale come orizzonte sociale in un contesto dove la sfera pubblica sta venendo erosa su vari fronti, non ultimo quello culturale. È quindi come incarnazione di un’ideologia che non è più solo «californiana» che lo stereotipo del digital nomad va messo sotto la lente d’ingrandimento. Ma andiamo con ordine.
Richard Florida contribuisce a solidificare l’hype dei quartieri urbani, insistendo molto sulla qualità della location come condizione fondamentale per l’innovazione creativa.
È dai tempi del cottage elettronico di Alvin Toffler (inizio anni Settanta) che la globalizzazione informatica promette l’emancipazione dal cubicolo, ma i primi a scrivere esplicitamente di «digital nomad» sono Tsugio Makimoto e David Manners, in un libro omonimo del 1997. Gli autori spiegano come il rimpicciolimento dei transistor utilizzati nella tecnologia di consumo e il bisogno di flessibilità a livello corporativo, in combinazione con l’umana sete di esplorazione, finiranno per rendere il nomadismo una scelta mainstream piuttosto che minoritaria.
In questo senso anche altri studiosi della globalizzazione come Manuel Castells e Zygmunt Bauman sono d’accordo, pur adottando un punto di vista più critico. Più o meno nello stesso periodo, infatti, il teorico dello «spazio dei flussi» scrive di una piccola elite di «globapolitani» (metà essere, metà flusso), mentre il sociologo e filosofo polacco parla di come le comunità sedentarie siano ormai spesso messe in scacco dai giochi di potere nomadici. Il millennio scorso, insomma, si chiude con la diffusa sensazione che un cambiamento nello stile di vita sia imminente.
Bisogna aspettare però la convergenza di industrie creative, imprendicariato (per usare l’efficace termine coniato da Silvio Lorusso) e social media perché la figura del digital nomad di cui sto scrivendo prenda forma a livello sociale, culturale ed estetico. Il primo fattore è forse quello più di sfondo, ma comunque importante. In generale, il XXI secolo inizia nel nome della creatività come priorità assoluta: città e industrie si brandizzano sotto la grande C per attirare risorse economiche, incoraggiate da forze politiche liberiste ma nominalmente inclusive come il New Labour nel Regno Unito e da intellettuali di spicco come Richard Florida. Nel suo piccolo, con libri come The Rise of the Creative Class e Who’s Your City? quest’ultimo contribuisce a solidificare l’hype dei quartieri urbani, insistendo molto sulla qualità della location come condizione fondamentale per l’innovazione creativa. Florida diventa lo chef di una ricetta che mischia le idee di Jane Jacobs (paladina per eccellenza del Village newyorkese e dei quartierini densi, diversi e creativi) con una retorica ottimista sul piano socioeconomico.
Intuitivamente l’idea di location-location-location è decisamente in contrasto con quella di nomadismo, ma ci sono delle intersezioni importanti. Possiamo dire infatti che un concetto chiave nella costruzione della «classe creativa» che ha reso famoso l’autore canadese sia questa idea di serendipità, o meglio la creazione artificiale delle condizioni per essa: se in una città ci sono un sacco di compagnie cosiddette «creative», un giovane in cerca di lavoro in quel settore avrà molte più chance di crearvi connessioni professionali significative. È utile notare che il credo di Florida e soci, oltre a iniettare ancora più ottimismo tech, mette sulla mappa tutta una serie di città che non sono le solite New York e Londra: la lezione è che la location è importante, ma è replicabile.
La globalizzazione del co-working ne è un esempio. Nonostante nasca con ambizioni politiche anche radicali – principalmente la protezione dei freelancer in condizioni precarie – questo formato è diventato un fenomeno commerciale pienamente in linea sia con la retorica dello sviluppo «creativo» che con la flessibilità richiesta da start-up e freelancer.
È qui che il desiderio di nomadismo digitale incontra la sfera, molto tangibile questa, di real estate e sviluppo urbano. Non solo le comunità di digital nomads su Facebook discutono spesso di quali siano i co-working più convenienti in giro per il mondo, ma sono le stesse compagnie stile WeWork a promuovere attivamente lo stile di vita nomade. Come illustrato da siti come Nomad List, la combinazione di connettività, clima e costo della vita trasformano località come Canggu a Bali o Chiang Mai in Tailandia in hub turistico-lavorativi. Una volta erano hippy e backpackers a colonizzare Ibiza e Goa; oggi l’afflusso di digital nomad, con i loro co-working e co-living, cerca altre mete. Le logiche sono per certi versi simili, ma tecnicamente accentuate da piattaforme globali come AirBnb e Amazon, le cui infrastrutture giocano un ruolo centrale nelle dinamiche di gentrificazione e outsourcing.
A questo punto bisogna introdurre un altro fattore strutturale nella definizione dell’ethos del digital nomad. Se la figura si distanzia dal semplice turista per le aspirazioni produttive, infatti, sono i tempi e i modi di questa produttività a renderla così rappresentativa dello status quo contemporaneo. In questo senso, The 4-Hour Work Week di Tim Ferriss rappresenta una sorta di manifesto ispiratore dell’entusiasmo odierno per il nomadismo digitale. Il libro non ne parla direttamente, ma è citatissimo tra i testi principali da leggere prima di approcciare una vita nomade.
Ferriss, che ha una laurea in East Asian Studies a Princeton, ha venduto per anni pillole per l’attenzione tramite la sua compagnia BrainQuicken – secondo diverse review online le basi scientifiche della formula sono poco chiare, così come la policy soddisfatti o rimborsati – per poi venderla e focalizzarsi sulla diffusione del proprio verbo. Pubblicato originariamente nel 2007, The 4-Hour Work Week è anch’esso concepito nel segno dell’ottimizzazione: si rivolge infatti a chi vuole far parte dei cosiddetti «new rich», una nuova generazione di imprenditori che mette tempo e mobilità al primo posto e quantifica così i propri introiti. In parte guida pratica di business, in parte self-help, in parte memoria personale, il libro parla comunque di come fare soldi, ma il suo «unique selling point» è rivelare come ottenere questa «nuova ricchezza» tramite l’automatizzazione del profitto e la creazione di più tempo libero.
Ferriss insiste molto sul «lifestyle design», una sorta di approccio hacker allo stile di vita che contrappone il nuovo ricco al «deferrer». Mentre questo si rompe la schiena lavorando costantemente nella speranza di poter un giorno spendere i propri soldi nella pensione, il nuovo ricco si conquista la mobilità, trova il modo di avere uno o più stream di reddito «automatizzati» e si concede varie «mini pensioni» a seconda dei propri desideri.
Il digital nomad che non ha la fortuna di riuscire a negozionare un lavoro in remoto, si ritrova a essere niente più che la faccia gaudente dell’imprendicariato di Lorusso: una partita IVA avvolta da una texture di paesaggi esotici filtrati da Instagram.
La vita del nuovo ricco è, come potete immaginare, intrinsecamente modellata su un’impronta di individualismo neoliberale: sfruttando le possibilità di internet e della globalizzazione si può diventare imprenditori «smart» e lasciare che siano gli altri (algoritmi o assistenti virtuali in India o Filippine) a lavorare per noi. Ferriss dà consigli anche sul branding, che forse dicono qualcosa sul suo personaggio: per diventare esperti riconosciuti basta infatti iscriversi a qualche associazione dal nome ufficiale, leggere i tre best-seller più famosi su un argomento e costruirci su una lezione da dare in qualche università (roba da tutti i giorni, insomma).
L’approccio «can do» e lo stile punteggiato da aneddoti un po’ pazzerelli (per esempio: l’autore è riuscito a diventare campione di kick boxing in Cina, imbrogliando al momento della pesatura) hanno reso l’opera di Ferriss un’ispirazione per un sacco di persone, molte delle quali sono riuscite davvero a diventare effettivamente new rich. Il fatto è, comunque, che il successo resta dipendente dall’attitudine imprenditoriale di ognuno. Il nuovo ricco o digital nomad che non ha la fortuna di riuscire a negozionare un lavoro in remoto, infatti, si ritrova a essere niente più che la faccia gaudente dell’imprendicariato di Lorusso: una partita IVA avvolta da una texture di paesaggi esotici filtrati da Instagram.
A proposito di Instagram: il popolare social network offre un ritratto sicuramente parziale del vasto spettro umano e lavorativo dei nomadi digitali, ma è a mio parere fondamentale per comprendere la dimensione estetica di un movimento culturale che è comunque incentrato su una certa idea di stile di vita. Sui feed della piattaforma travel bloggers e aspiranti influencers trovano il motore di branding ideale: i filtri rendono foto di qualità varia perlomeno decenti, mentre le hashtag linkano materialmente e immediatamente contenuti diversi. Questa combinazione favorisce sia l’arrembante attitudine «fake it ‘till you make it» che i classici schemi piramidali e un po’ loschi a base di affiliate marketing e convintissimi how-to’s (appena ho iniziato a seguire Tim Ferriss, per esempio, ho immediatamente guadagnato una decina di follower i cui «link in bio» promettevano ebook gratis come antipasto ad altre offerte).
Volendo fare un sopralluogo strettamente visivo, seguendo tag come #digitalnomad o #solotraveller si viene investiti da una carrellata di immagini apparentemente banali, ma con qualche motivo comune interessante. Uno di questi è la classica foto del nomade di turno ritratto/a da dietro, in un paesaggio preferibilmente svuotato da anima viva, da una terza persona anch’essa invisibile che (se va bene) è taggata nella didascalia. Networking e branding sono quindi separati per mantenere l’immagine del singolo/a alla conquista di un paesaggio che può essere naturale o urbano, esotico o meno, ma che proprio in virtù di questa varietà diventa parte integrante dell’immagine personale che viene trasmessa. Si è tanto parlato del selfie come piaga sociale e sintomo di narcisismo, ma è proprio in questo contesto di #solotravel, dove l’odiato stick peraltro avrebbe senso, che l’occhio per estetica e branding ha il sopravvento e ne cancella la spontaneità.
Come anticipato prima, queste critiche sono generali. Senza contare che riuscire a diventare digital nomad è ancora una conquista per pochi e richiede anche diversi sacrifici, ci sono davvero mille modi e mille tipi diversi di persone che intraprendono questa strada. Cosa c’è di male, quindi, nel digital nomad come sogno collettivo? Piuttosto che rispondere direttamente, penso sia più utile chiedersi quello che non è, e che non può essere.
Ci sono per esempio, forse insospettabilmente, diversi punti in comune tra il radicale comunismo high-tech di Nick Srnicek e Alex Williams e l’opportunistico neoliberismo di Tim Ferriss. In Inventare il futuro, i due autori inglesi si prefiggono di immaginare una società post-lavoro: uno dei punti principali è l’istituzione di un reddito di base universale, ma come tappa intermedia c’è la riduzione della settimana lavorativa come obiettivo politico populista. Secondo loro si tratta di obiettivi realizzabili: il weekend del resto è stato una conquista politica, mentre persino il reddito universale di base era quasi diventato realtà persino nell’America degli anni Settanta. Ma se la settimana lavorativa di 4 ore può quindi funzionare come orizzonte comune (Larargue e Keynes la auspicavano da 15, spiegano Srnichek e Williams), le tecnologie per liberarsi della morsa attuale divergono: gli autori di Inventare il futuro vorrebbero un’economica totalmente automatizzata, a Ferriss basta delegare il lavoro a chi lavora in Paesi con salari più bassi.
Quanto agli ambienti di ritrovo dei digital nomad, Sebastian Olma (pur non parlando della categoria nello specifico) ha scritto un bel saggio che parla proprio della serendipità che li caratterizza. Nonostante si intitoli In Defense of Serendipity, il taglio dell’olandese è molto critico, almeno per quanto riguarda il concetto promosso nella falsa equazione industrie/città creative = innovazione = ritorno economico. Per Olma, il «taylorismo digitale» combina la richiesta urgente di comportamenti creativi, innovativi e serendipici con un’infrastruttura manageriale che li rende impossibili. È quindi fondamentale riconoscere che la serendipità richiede non solo le condizioni accidentali per l’innovazione creativa, ma anche un substrato di preparazione con delle basi di un certo tipo: niente disruption, ma cambiamenti passo dopo passo; niente tecno-misticismo, ma evoluzione parallela di uomo e macchina. E anche basta con la retorica del «cambiare il mondo» a mezzo imprenditoriale, venduta dagli ideologi neoliberali a noi millennial, ma piuttosto un recupero della pur imperfetta sfera pubblica. Insomma, rivalutare la società rispetto alla buzzword della «comunità», che nel contesto del lavoro 2.0 dove bazzica il digital nomad è spesso semplicemente un altro modo di venderti un cubicolo che devi scegliere (e pagare) tu.
L’appello finale di Olma è non a caso molto simile a quello di Srnicek e Williams: una politica radicale dell’innovazione richiede la capacità di immaginare un futuro che sia collettivo, non individuale.
Se c’è un merito nella figura del digital nomad, è che rappresenta una risposta, per quanto parziale, a una domanda che non ci facciamo abbastanza: come vogliamo vivere davvero?
Certo, le istituzioni politiche tradizionali e gli stati nazione non sono in ottima forma al momento: la condizione attuale del nomadismo digitale viaggia sui binari collaudati del neoliberismo globalizzato, mentre programmi come l’e-residency istituita dell’Estonia e ispirata proprio dai digital nomad di fatto sono orientati al business. Ad ogni modo, ci sono anche progetti progressisti e visionari che ipotizzano utilizzi più promettenti di quelle stesse tecnologie che ci fanno sognare una vita senza confini.
Steven Johnson, per esempio, immagina un sistema di identità digitale a base blockchain che permetta agli utenti di possedere finalmente non solo la propria id, ma anche informazioni come data di nascita, network di amicizie e cronologia degli acquisti. Essere sovrani di noi stessi, di questi tempi, è per Johnson tecnicamente a portata di mano. Anche Natalie Smolenski ha una visione simile, ma mette collettività e privacy come condizioni principali. Sempre in tema di residenze distribuite c’è New Eelam, uno strano ibrido tra progetto artistico e start-up il cui scopo è immaginare nuovi modelli liquidi di cittadinanza e proprietà distribuita: nazioni registrate in cloud di cui far parte per affinità piuttosto che discendenza ereditaria, o ancora network internazionali di abitazioni in affitto accessibili tramite abbonamento.
Non siamo decisamente ai livelli del comunismo automatizzato universale, ma si tratta di incrementi perlomeno interessanti. Se c’è un merito nella figura del digital nomad, infatti, è che rappresenta una risposta, per quanto parziale, a una domanda che non ci facciamo abbastanza, come società: come vogliamo vivere davvero? Se la risposta ha i suoi limiti, lo sforzo da fare è immaginarne una migliore.