Kuedo è tornato per spalancare la sua finestra sul futuro

Un’intervista al producer britannico in occasione dell’ultimo album «Infinite Window»

Il dubstep è stato uno dei fenomeni musicali più eccitanti degli anni Duemila. Probabilmente l’ultimo vero tassello diretto di quello che Simon Reynolds chiamò hardcore continuum, per fare riferimento a quelle sonorità che avevano come centro propulsore i cari vecchi bassi delle notti inglesi a suon di jungle e UK garage (chiunque voglia approfondire può andare qui). All’inizio, i primi manufatti dubstep si concretizzarono sotto forma di EP e qualche sporadica compilation. Solo dal 2004/2005 iniziarono a uscire i primi LP, attraverso nomi ormai mitologici come El-B, The Bug, Kryptic Minds… E poi Skream, Digital Mystikz, Kode9, Burial, Skull Disco… Per infine arrivare ai Vex’d, autori di una delle pietre miliari del movimento, Degenerate (2005), uno dei dischi più sporchi e cattivi mai prodotti.

I Vex’d erano un duo composto da Roly Porter e Jamie Teasdale: dopo la consueta serie di EP e live set incendiari, nel 2010 bissarono l’esordio con un altro album abbastanza clamoroso quale Cloud Seed (un pezzo del genere vale da solo il prezzo del biglietto), ma intanto l’esaltazione per il dubstep iniziava a scemare. Piuttosto: un’ondata confusionaria caratterizzata dai suoni al contempo futuristici e provenienti da un passato a sua volta reso accessibile da internet, spostò l’attenzione verso musiche più lontane dalla pista da ballo e fruibili essenzialmente in modalità casalinga. Chissà quanto indirettamente influenzati da questo passaggio, Roly Porter e Jamie Teasdale decisero a quel punto di separarsi. Il primo intraprese una carriera di tutto rispetto nell’ambito del sound design, impegnandosi in un composizioni rarefatte come quelle di dischi bellissimi quali Aftertime e Third Law. Jamie Teasdale invece non abbandonò totalmente la dimensione del dancefloor, ma anche lui si allontanò notevolmente dai trascorsi dubstep per pubblicare un esordio ormai classico della musica elettronica tutta: Severant del 2011. All’interno di quell’album, tanti suoni pieni di aria e colore, e ritmiche cervellotiche anche se meno paranoiche rispetto al periodo Vex’d. La grandezza di un disco come Severant stava nella sua capacità di dischiudere potenti percorsi immaginativi, senza per questo guidare l’ascoltatore su traiettorie già prestabilite: il tutto si giocava mediante un’ambiguità che oscillava tra l’imminente arrivo del futuro e la radiosità immaginifica del passato.

Dire che Severant è un disco che ha fatto scuola sarebbe però impreciso. In effetti, è un’opera talmente ricca di contenuti e suggestioni da risultare piuttosto singolare. Se non altro ha creato il suono di Kuedo, tutto incentrato su trame circolari e un uso dei synth dal sapore bladerunneriano. Cosa che sarà accentuata ancor di più nel cinematico, Slow Knife del 2016, che però seguiva una delle sue cose più riuscite e misteriose, ma al tempo stesso anche tra le sue più intricate e oscure: l’EP Assertion of a Surrounding Presence, uscito per Knives nel 2015. 

L’ultimo album di Kuedo è invece faccenda recentissima: uscito questa estate per Brainfeeder, si intitola Infinite Window e sembra essere il giusto compromesso tra queste due polarità, tornando in un certo modo all’equilibrio perfetto che aveva caratterizzato Severant. Infinite Window è un disco pieno di melodie ariose che ricordano i fasti della prima IDM, qui però dotata di un’anima soul prepotentemente contemporanea.

Eri la metà dei Vex’d. Posso chiederti quali erano i tuoi ascolti in quel periodo?
Direi che stiamo parlando del periodo compreso tra la fine del 2003 e il 2007. In linea di massima ascoltavo cose simili a quelle che ascolto ora, solo più rudimentali e meno profonde… La differenza principale era che mi concentravo sulle radio pirata londinesi, soprattutto nel 2003-2004, quando il suono garage era cambiato in qualcosa di più simile al grime, ma non aveva ancora trovato una formula ben specifica. 

Mi ero stancato delle scene musicali sorte nel Regno Unito, soprattutto perché jungle e drum & bass erano diventate molto commerciali, a tratti addirittura grottesche. Quella musica era stata il mio grande amore, significava tutto per me, e avevo il cuore spezzato per quello che invece era diventata. Questo ha stimolato l’approccio anti-genere e anti-scena che abbiamo avuto coi Vex’d.

Al di fuori della musica da club britannica, ascoltavo perlopiù hip hop, proggy cosmic music, pop romantico, library music elettronica, un po’ di r&b, un po’ di indie shoegaze, un po’ di jazz… Credo che il fatto di far parte dei Vex’d e di suonare così “abrasivi” ci abbia portato in qualche modo a esplorare il metal più pesante e roba drone sperimentale. Volevamo introdurre nel progetto un suono di synth spaziale più melodico, ma non avevamo ancora capito come incorporarlo. Era più facile mantenere un sound scuro e aggressivo. Quando abbiamo iniziato a uscire dalle influenze della musica dance, la visione si è frantumata, come spesso accade. Ero davvero stanco del buco industrial e oscuro in cui eravamo caduti: entrambi non eravamo entusiasti del dubstep e la nostra musica era davvero troppo scollegata da quella che amavo di più. Non sentivo molto di me nella musica che facevamo, quindi non potevo giustificare il fatto di continuare.

Sono curioso di sapere cosa pensi della scena rave del periodo pre-dubstep…
Ci siamo persi il rave vero e proprio, ma abbiamo visto parte della scena drum & bass quando era ancora una musica da club abbastanza nuova. Per esempio, abbiamo visto alcune delle prime serate Metalheadz e Full Cycle. Sicuramente il momento d’oro era già passato: il periodo della jungle a metà e alla fine degli anni Novanta sembra ancora oggi ineguagliabile, dal punto di vista sociale. Il fatto che una musica sperimentale così radicale fosse la colonna sonora delle strade di ogni città e periferia, che fosse così onnipresente, così integrata nella vita normale, genuinamente inclusiva, col senno di poi è stato davvero sorprendente e sembra quasi impossibile ora. La musica dance che si spinge oltre i confini è molto meno accessibile oggi, molto chiusa, piccola, snob. Ha sicuramente plasmato il mio modo di intendere la musica da club, che per me è nata e cresciuta con la jungle, non con house o techno.

Sei nostalgico di quegli anni?
No, a meno che non mi imbatta in un video su YouTube o in una registrazione di un rave, ma credo che molti ragazzi della generazione Z provino una nostalgia simile quando si imbattono in filmati simili. In quei momenti mi sento grato di averne visti alcuni in prima persona.

Ti andrebbe invece parlarmi un po’ delle tue impressioni sulla scena dubstep dei primi anni Duemila?
Ci siamo sentiti un po’ a disagio al suo interno, se devo essere sincero. Volevamo stare in un progetto non legato a un genere e a una scena, ma siamo stati anche molto ispirati da quella fugace fase post-garage e pre-grime del periodo 2002-2004. Quando gran parte di questa è diventata “dubstep”, ci siamo sentiti intrappolati in essa. Ma apprezzavamo molto il fatto che quegli artisti e quei DJ si interessassero alle nostre produzioni, ci invitassero alle loro serate, ai loro programmi radiofonici e così via, e in generale ci incoraggiassero. Ci siamo anche resi conto che avremmo portato fuori strada questa comunità embrionale se ci fossimo identificati troppo con essa, perché stavamo usando influenze che altri stavano accuratamente evitando e non volevamo assolutamente rovinare i loro attenti sforzi di costruzione della scena. Quindi c’era un po’ di tensione, era imbarazzante, ma nonostante tutto il rispetto reciproco e i buoni auspici che avevamo, non eravamo molto contenti di trovarci all’interno di quel “genere”. È uno dei motivi per cui ci siamo separati.

Non ci siamo mai identificati con la musica lenta e rigida influenzata dal dubstep, nessuno di noi due ha mai ascoltato dubstep per divertimento o ispirazione all’epoca, quindi le mie impressioni sono un po’ spinose, difficili.  Ho iniziato a interessarmi a quei suoni quando artisti Hyperdub come Ikonika hanno iniziato a fare musica più libera e melodica, ed è stato allora che ho lanciato il progetto Kuedo. 

Infatti hai realizzato Severant, che è uno dei dischi più importanti e soprattutto più belli degli ultimi dieci anni. Il disco è molto riflessivo e meno dance. È successo qualcosa di particolare o erano semplicemente pezzi che ti portavi dentro da un po’?
Grazie. Allora, sì, avevo completamente rotto con tutto ciò che aveva a che fare con il dubstep già da qualche anno. Poi ci sono stati degli eventi personali, mia figlia è nata molto malata, sua madre ed io ci siamo lasciati… Severant è stato in gran parte la mia elaborazione di quei fatti, da cui il tono riflessivo dell’album. In questo senso era tutto molto “domestico”.

In Severant c’è un punto di riferimento che sembra essere costante: Blade Runner. Ti andrebbe di dirmi perché quel film è così importante per te?
Non ne sono sicuro, è una cosa costante? Per me compare solo un paio di volte nel disco, e sicuramente non pensavo a un omaggio. Con “Flight Path” per esempio stavo cercando di scrivere un brano slow, dalle vibe lente…. Ma ci sono anche molte influenze pop, quasi estive: il plastic soul degli anni Ottanta, il pop ipnagogico, l’indie della 4AD, i mixtape rap… Dato che ho visto Blade Runner una sola volta negli ultimi 11 anni, credo che ci sia il rischio di sopravvalutare l’importanza del film per me. Il sequel non mi è piaciuto per niente. Quello che penso sia vero è che sono attratto dalle storie del futuro prossimo molto incentrate sull’uomo, in cui la fantascienza è solo un’ambientazione lontana, mentre l’esperienza umana è davvero vicina alla telecamera. Alien e Blade Runner sono due tra gli unici film che mostrano questo in maniera perfetta: sono intimi, ambientati in piccoli spazi. Credo che sia questo che ha reso la sua musica tematicamente rilevante per me. Si tratta di un noir vecchio stile, che mi dà la stessa sensazione di film come Chinatown o Manhunter. Bluesy.

Infatti mi sembra proprio che nei tuoi album ci sia questo elemento qui, anche in Infinite Window sembra evidente questo tuo tentativo di rendere la tecnologia qualcosa di umano e sensibile. Ti va di approfondire un po’?
Sì, musicalmente credo di essere interessato alla tecnologia solo per il modo in cui influisce sulla nostra esperienza umana. Personalmente trovo interessanti alcuni campi dell’informatica, come l’interazione uomo-computer, le tecnologie empatiche. Ma musicalmente scrivo solo di esperienze umane, se c’è un aspetto tecnologico nella mia musica voglio che sia un sottofondo. Filosoficamente non sono un tecnologo in nessun senso.

In un’intervista uscita sul mensile italiano Blow Up parlasti del futuro in modo molto interessante. Dicevi che pensiamo al futuro come a qualcosa di astratto e lontano, ma in certi momenti accadono cose che ti fanno capire che ci sei già dentro, immerso in esso. Posso chiederti quali sono stati gli eventi o le scoperte che ti hanno dato questa sensazione nell’ultimo decennio?
Penso che ora siamo tutti molto consapevoli che il futuro non è qualcosa di così separato e distante da noi. Quello strano momento di “fine della storia” post-millennio, all’inizio degli anni 2000, in cui un futuro sconosciuto sembrava qualcosa che non sarebbe mai potuto accadere in modo plausibile, credo sia passato. Ci sono aspetti tecnologici evidenti, come l’intelligenza artificiale, ma credo che sia più importante la minaccia di collasso del sistema con la crisi climatica o la pandemia. Ormai tutti si sentono come in Black Mirror. Ma il futurismo, come impressione, non è qualcosa che inseguo. L’ho fatto qualche volta, come nell’EP Assertion of a Surrounding Presence, ma non è una parte integrante o coerente della mia musica.

Per i tuoi dischi si è parlato piuttosto di retrofuturismo: cosa pensi di questo concetto?
Non è una bella parola, vero? Mi sembra un cosplay di cui non voglio far parte. Ma credo che sia molto interessante il modo in cui l’idea di futuro cambia continuamente, così come le visioni che le persone creano intorno a essa. Sia che si tratti di come il tema viene affrontato dalle generazioni precedenti, da quelle attuali e da quelle future, dice molto del loro tempo e del loro luogo: c’è qualcosa in quello sforzo di immaginazione che riporta al tema del desiderio nelle opere d’arte. Penso che l’arte religiosa sia spesso portatrice di un sentimento simile. Credo che questo senso di struggimento sia legato alla nostra idea di orizzonte.

Quindi, se la gente pensasse che sto facendo musica retrò, non ne capirebbe il senso. Ma credo che sia onesto portare con sé il passato. Non mi relaziono affatto con i futuristi che pensano che tutto debba essere nuovo e inascoltabile. Trovo che la posizione retrò e quella futuristica siano altrettanto vuote: fondamentalmente, sono troppo orientate verso il presente. 

Ti interessa la filosofia? In generale, cosa leggi di solito e cosa ti ha influenzato di più dal punto di vista letterario?
Ho cercato molte volte di trovare un libro di filosofia che mi catturasse, ma non ci sono mai riuscito. Uno che ha lasciato davvero il segno è stato Godel, Escher, Bach, anche se sicuramente ho capito molto poco di quello che diceva. Ha plasmato il mio modo di pensare ai sistemi e all’emergere del significato. C’è un libro del 1937 intitolato Star Maker, che è piuttosto noioso e impostato, ma che ho trovato inquietante nella sua descrizione dell’universo.

Grazie a un disco come Severant e al lavoro di musicisti come James Ferraro, Daniel Lopatin, Arca e altri, è nato questo filone che il giornalista Adam Harpaer ha chiamato “Elettronica Hi-Tech”: è un “genere” che ti ha appassionato e di cui ti sei sentito parte, oppure è qualcosa che non ti ha coinvolto troppo direttamente? Voglio dire: pensi che negli ultimi anni sia successo qualcosa di nuovo dal punto di vista della musica elettronica, o pensi che tutto si riduca semplicemente a un revival degli anni passati e che forse l’ultima grande rivoluzione sia stata alla fine proprio… il dubstep?
Non ho mai sentito questo termine prima d’ora. Credo che molta della mia musica possa essere genericamente descritta come elettronica contemporanea… È un termine abbastanza funzionale per descrivere quella musica free-form che si colloca accanto alla musica da club. Non seguo più da vicino l’elettronica in quel modo da neofita del tipo “what’s next?“, e credo che parte della funzione di Kuedo sia proprio quella di allontanarsi da questo. Arriva un momento nella tua linea temporale come artista in cui devi concentrarti su ciò che hai già acquisito e sulla tua direzione, piuttosto che inseguire le forme emergenti.

La UK drill non rientra nella tipica accezione di musica elettronica o dance, ma in termini di storia della musica britannica sembra che abbia sintetizzato e fatto progredire molto di ciò che dubstep, grime e jungle stavano cercando di fare separatamente. I diversi paesi hanno ancora i loro sviluppi locali della musica da club. La “musica elettronica” in senso ampio non sono sicuro che sia mai stata capace di progressi propri: forse ha sempre attinto dalla musica da club, dal pop o dall’hip hop per progredire. Credo anche che molti degli sviluppi musicali percepiti nella musica elettronica derivino dall’esplorazione di prodotti tecnologici di nuova concezione e dalla corsa verso i territori inesplorati che questi hanno consentito.

Adesso lo streaming ha fatto collassare tutto in un unico punto in cui è difficile identificare le dinamiche sociali che hanno creato le evoluzioni musicali, mentre il capitalismo delle piattaforme e il costo della vita hanno eliminato tutte le reti culturali che facevano progredire la cultura musicale: i club, i negozi di dischi, le riviste, la radio… Senz’altro stare seduti a casa ad ascoltare l’intero archivio curato da Spotify sta avendo degli effetti sulla produzione culturale.

Posso chiederti cosa ti piace musicalmente degli ultimi anni?
In termini di nuova musica, il revival della jungle è stato divertente, soprattutto per i ragazzi più giovani che le hanno applicato un’atmosfera impressionistica shoegaze ed emo, facendola diventare musica fluttuante per le cuffie piuttosto che musica funzionale per dj. La UK drill e quella di Brooklyn sono state spettacolari nella loro evoluzione. Ci sono alcuni nuovi artisti ambient molto bravi, con un approccio da collage, quel tipo di stile ambient a là Burial. Mi è piaciuto molto l’album di Sky H1.

Nonostante questo, sembra che il lato artistico della musica elettronica si sia un po’ arenato, non trovi? Per quanto riguarda i miei ascolti, quest’anno ho ascoltato soprattutto musica più tradizionale, come band indie, musica per cantautori, pianomusic. Al momento sono più interessato all’armonia e alla melodia che alla produzione. Posso immaginare che la pandemia abbia avuto un effetto piuttosto considerevole. Come tutti nell’era della musica in streaming, ho delle tane di coniglio casuali in cui mi immergo per un breve periodo, come ad esempio una rapida immersione nello stoner rock, nella sound art accademica o altro. Ryuichi Sakamoto, HTRK e Frank Ocean sono artisti che ho riscoperto più volte negli ultimi due anni.

A proposito di Frank Ocean, so che ti piace molto l’R&B di The Weeknd e Solange. Come ti poni nei confronti della musica mainstream? Ti piacerebbe fare qualcosa di più pop? Per esempio, un paio di anni fa mi è piaciuto molto il disco di Jam City, Pillowland, che in fin dei conti è un disco pop a tutti gli effetti, anche se ha un background per certi versi simile al tuo.
Credo di non scrivere musica partendo da un’idea consapevole di dove posizionarmi sulla mappa musicale. Forse se lo facessi potrei tentare sforzi più decisi per spostarmi in un posto particolare? Non so, ci ho pensato di recente, dato che sono rimasto piuttosto sorpreso dai generi che sono stati usati per descrivere l’ultimo album…  Penso che in parte il mio risultato non corrisponda strettamente agli input, e forse non dovrebbe farlo. Se dovessi deliberatamente colmare il divario tra ciò che mi ispira di più dal punto di vista musicale e la mia produzione effettiva, allora sì, probabilmente ci sarebbero più canzoni, parti cantate e strumenti registrati. Ma anche le aspettative delle persone guidano il modo in cui elaborano qualcosa, e così gli input pop che sono già presenti vengono invece fraintesi come riferimenti IDM o altro. Questo può essere un po’ frustrante. Dopo Infinite Window comincio a pensare che forse dovrei comunicare gli input in modo più deliberato.

A proposito di input: so che, oltre a fare musica, collabori anche con marchi come Huawei. Lo fai solo per “lavoro” o è qualcosa che ti dà anche un input artistico? Voglio dire, vedere certe pubblicità di Huawei con prodotti supertecnologici e la tua musica mi dà quella sensazione di futuro di cui parlavamo prima.
Sì, è un lavoro quotidiano. Il design commerciale ha ovviamente aspetti creativamente gratificanti, e mi piacciono le sfide tecniche che spesso si presentano con il lavoro di sound design, come quando sono coinvolte la realtà virtuale o la tecnologia dei giochi. Dal punto di vista estetico ci possono essere momenti davvero piacevoli, soprattutto quando si lavora con visual designer di talento che spingono al massimo i loro mezzi. Ma nessuno si aspetta ragionevolmente che un lavoro guidato da un marchio crei la stessa profondità di esperienza di una musica o di un’opera d’arte a sé stante. Tutti accettano che si tratti di pubblicità.

Per concludere, cosa pensi dell’attuale situazione politica e sociale? Vorrei un tuo parere generale sulla contemporaneità. So che è una domanda sciocca: dove pensi che stia andando il mondo?
C’è qualcuno che ha una risposta ottimistica a questa domanda? Credo di averci pensato mentre lavoravo con gli artisti per la copertina di Infinite Window. Anche nello scenario più post-umano possibile, molto probabilmente ci sarà ancora qualcosa che cresce e va avanti, una continuazione della Storia.