Bibbia, self-help e potere maschio
Scrivere di Jordan Peterson nel 2018 sembra quasi obbligatorio: di questi tempi il volto scavato e lo sguardo severo che lo contraddistinguono ti si presentano puntualmente davanti come il Fantasma del Natale Futuro, quello che non festeggeremo perché saremo di turno in un magazzino di Amazon. Dalla BBC al podcast di Joe Rogan, dalle riviste di filosofia a YouTube – dove le sue apparizioni mediatiche si rifrangono in una moltitudine di clip con titoli tipo «Jordan Peterson DISTRUGGE femminista» o «Jordan Peterson DOMINA professoressa sui pronomi di genere» – lo psicologo e teorico canadese ci ricorda costantemente che viviamo in tempi complessi, alla disperata ricerca di semplicità. Ma chi è?
Di lavoro Peterson fa lo psicologo praticante, oltre a insegnare psicologia alla University of Toronto. La sua carriera accademica non è da poco: professore ad Harvard, un centinaio di paper pubblicati, un libro (Maps of Meaning: The Architecture of Belief) incentrato su una teoria del significato che mette mito e neuroscienza in dialogo tra loro. Si tratta di una combinazione inconsueta e contraddittoria, e infatti – nonostante il carattere ambizioso, personale e anche innovativo dell’opera – sembra che il libro non abbia inizialmente portato a Peterson il riconoscimento che si aspettava. Recentemente, però, le cose sono cambiate parecchio. Quest’anno è uscito 12 Rules for Life: An Antidote to Chaos, un adattamento in termini più generalisti di Maps of Meaning. Il nuovo dodecalogo petersoniano (adesso anche disponibile in italiano) è una collezione di motti che mirano a essere il più universali possibile, tra cui: «Paragona te stesso a com’eri ieri, non a qualcun altro oggi», «Di’ la verità – o almeno non mentire» e «Sii preciso nei tuoi discorsi». Il libro in sé è un distillato di esperienze personali (la gioventù nel freddo dell’Alberta canadese, i problemi medici della figlia), letteratura russa (Dostoevskij, ma soprattutto l’Arcipelago gulag di Aleksandr Solzhenitsyn), Nietzsche, studi psicologi di vario tipo e tanta, tanta Bibbia.
Le regole nascono da un post sul sito di domanda/riposta Quora e hanno un tono intenzionalmente tra il pratico e lo spirituale, che è sicuramente uno dei motivi della popolarità del libro e del suo autore. La ricetta di Peterson per la Verità, come vedremo, è infatti un amalgama di dato scientifico e imperativo religioso – una formula che si pone come alternativa al discorso politico-ideologico, a suo dire foriero di conflitti evitabili e polarizzazioni estreme.
In principio fu il verbo, poi venne l’aragosta
La pesantezza di Peterson non nasce dal nulla. Lo psicologo è cresciuto lontano dalle città, nell’Alberta profonda, dove faceva così freddo che i gatti restavano incollati al pavimento. Sua figlia ha avuto un’artrite devastante che l’ha resa praticamente disabile per gran parte della sua vita, e pure sua moglie ha problemi di salute. Lui è sempre stato depresso, anche se pare stia meglio. Mangia solo carne, che sembra abbia curato anche l’artrite della figlia, ma l’effetto collaterale è che una volta ha bevuto del sidro e non è riuscito a dormire per venticinque giorni (dice), paralizzato per otto ore ogni notte in uno stato di terrore. Queste sono cose che tante altre persone terrebbero per sé, ma Peterson sembra davvero un predicatore da vecchio West, e se facessero un film su di lui me lo vedrei bene come uno di quei personaggi superintensi interpretati da Daniel Day Lewis. Quello che voglio dire, insomma, è che c’è un’urgenza missionaria in tutto quello che fa.
Dicevo che in 12 Rules c’è tanta Bibbia. Be’, ce n’è così tanta che lo stile di Peterson, forbito ma appassionato, diventa spesso ridondante, reiterando senza sosta quello che poi è il suo messaggio centrale: l’Essere è caos e sofferenza, l’uomo è fondamentalmente un animale pronto a commettere le peggiori nefandezze alla prima occasione (vedi olocausto e gulag), e l’unica speranza di salvezza sta nell’agire secondo l’ordine e la parola, i quali possono dare un significato all’oscura e collosa perdizione esistenziale che ci circonda. Nel libro la parola è molto spesso quella di Dio, anche se in interviste e talk accademiche mi sembra Peterson tenga molto più a bada il tono religioso.
In termini di ordine e significato, Peterson si riferisce spessissimo a «fatti» e «verità» – che però si guarda bene dal definire, se non in modo astratto. Quando parla di fatti, Peterson ricorre alla scienza e al misurabile, che presenta come prove di continuità evolutiva. All’inizio di 12 Rules fa l’esempio delle aragoste: questi crostacei, dice, esistono da prima dei dinosauri e vivono tuttora secondo gerarchie e dinamiche di dominanza. L’aragosta più forte si accoppia e prospera, potenziata dai relativi ormoni, l’aragosta sconfitta invece si deprime, abbozza e non scopa. Per Peterson questo esempio sarebbe sufficiente a dimostrare la fattualità delle diseguaglianze sociali; siccome fare dei numeri fa sempre bene, però, ricorre anche alla legge di Pareto: in un determinato campo, il 20% degli individui fa sempre l’80% del lavoro. Quest’idea, applicabile anche alla distribuzione del talento, giustifica secondo lo psicologo il fatto che non tutti possiamo essere uguali: alcuni di noi saranno bravi negli sport, altri sapranno eccellere nell’ingegneria, e di conseguenza alcuni saranno ricchi, altri saranno poveri.
La disuguaglianza, insomma, è un fatto biologico che si riflette a livello sociale. I socialisti, con la loro fissa di redistribuire la ricchezza, rischiano secondo Peterson (che cita in proposito Orwell e Solzhenitsyn) di togliere significato all’individuo, dimostrando inoltre di essere mossi più dall’odio per i ricchi che dall’amore per i poveri. Peccato che, proprio a proposito di amore, Peterson si contraddica in modo imbarazzante quando si tocca la tragedia del maschio occidentale. Il nostro, infatti, ha proposto che la monogamia obbligata (culturalmente, eh) potrebbe essere una soluzione alla solitudine degli incel. Insomma, per Peterson la redistribuzione delle risorse è problematica, quella della figa un po’ meno.
Abbracciare la fede come motore motivazionale dà a Peterson una sincerità che altri non hanno, mentre il suo status scientifico-accademico aggiunge gravitas e autorevolezza.
Ci sono anche messaggi incoraggianti in 12 Rules. In generale, cercare di colmare la distanza tra categorie e migliorare personalmente sono le motivazioni che danno significato alla vita, quelle che ci permettono di alzarci la mattina con uno scopo ben preciso. Si tratta di una spinta verso la verità: una progressiva comprensione del mondo che deve essere orientata alla nobilitazione tramite esercizio e sacrificio. Non si capisce bene se il contenuto di questa verità sia universale o personale: tendenzialmente sembrerebbe la prima, vista la menzione costante di Dio, e tante delle regole sembrano riecheggiare alcuni principi chiave della cristianità. Una, per esempio, è: «Prenditi cura di te stesso come se fossi qualcuno per il quale sei responsabile», una specie di «tratta il prossimo tuo come te stesso» ma significativamente girato al contrario. C’è infatti una vena nietzscheana, che tradisce (nel caso non fosse abbastanza chiaro) il marcato accento individualista del tutto: «Lascia in pace i ragazzini che vanno sullo skate», dice Peterson, perchè stanno rischiando la vita per testare i propri limiti. In generale si tratta di massime che suonano ragionevoli, e che catturano quindi perfettamente il disperato bisogno odierno di regole universali e l’ossessione contemporanea per liste, tutorial e how-to.
La cifra di Peterson è però il modo in cui arriva a ogni massima, che come detto si rifà a due sistemi complementari: scienza e religione. La combo è perfetta, soprattutto considerando quanto i «nuovi atei» tipo Sam Harris, tanto popolari online, risultano pedanti e fastidiosi con la loro condiscendenza, mentre gli appelli alla razionalità «reattiva» non sembrano fare molta presa contro Trump e fake news. Abbracciare la fede come motore motivazionale dà insomma a Peterson una sincerità che altri non hanno, mentre il suo status scientifico-accademico aggiunge gravitas e autorevolezza. Ma se questi due elementi lo rendono un interlocutore intellettuale complesso per i propri oppositori, a mio parere è la sua duttilità anti-ideologica che lo ha reso un idolo di YouTube.
Oltre a essere diventato un avatar della resistenza alla tirannia della cultura del politicamente corretto (in Italia diremmo «buonista»), Peterson è anche un punto di riferimento per un’eterogenea costellazione di canali dedicati ad auto-aiuto, motivazione individuale e persino comprensione degli arcani meccanismi del mondo femminile (c’è pure un mix hip-hop low-fi ispirato da lui, ma vabbè). I suoi clip vengono ri-uploadati con titoli tipo «Come vivere una vita che abbia un significato», ma anche «Jordan Peterson spiega come risponderebbe a qualsiasi argomentazione», «Come mai le donne non vogliono i maschi beta», oppure «Cosa fare se la tua ragazza ti tradisce». Per quanto Peterson si tenga sempre sul generale, saltando da aneddoti a principi astratti con poche vie di mezzo, i suoi lunghissimi discorsi vengono impacchettati con titoli clickbait dal tono, per così dire, «procedurale».
Questi sono fenomeni indipendenti dal professore canadese, ma c’è un’affinità di fondo. Se Weber associava l’etica protestante al capitalismo, il credo petersoniano si sposa abbastanza bene con l’etos ultraliberale dei social media. La competizione adrenalinica, la costruzione di un Io spendibile, il riscontro tramite parametri misurabili: ciascuno di questi elementi è un mattone fondamentale nella creatività imprenditoriale che ci è sempre più richiesta online. Insomma, da un lato Peterson e i suoi colleghi offrono metodi per combattere l’ansia, dall’altro insegnano a interiorizzare una responsabilità radicale che non si aspetta niente dalla collettività. Tutti possono farcela, e se non ce la fanno significa che non hanno provato abbastanza. In sostanza: mea culpa, mea grandissima culpa.
Peterson DISTRUGGE, Peterson DOMINA
Per uno che invita alla moderazione, Peterson è stato spesso associato a posizioni controverse, o quantomeno politicamente scorrette – cosa che ha giocato un ruolo importantissimo nella sua martirizzazione e consacrazione mediatiche. La prima volta che ho sentito parlare di lui è stata quando un amico mi ha inviato il link a una registrazione fatta alla Wilfrid Laurier University, in Canada, e poi divenuta virale. La conversazione riportava un meeting disciplinare tra una giovane dottoranda e alcuni membri del suo dipartimento, che la rimproveravano in maniera punitiva e le annunciavano serie ripercussioni sulla sua attività di assistente didattico. Durante una lezione di comunicazione, la dottoranda stava parlando ai suoi studenti del significato generale di grammatica e linguaggio, e aveva fatto l’esempio del dibattito riguardante un emendamento al codice canadese sui diritti umani chiamato Bill C-16. L’emendamento aggiunge ai parametri protetti quelli di «identità ed espressione di genere» e, tra le altre cose, ha implicazioni sull’uso di pronomi non tradizionali per individui trans. I detrattori hanno definito il provvedimento come un pericoloso attacco alla libertà di parola, un’imposizione linguistica sintomo dell’egemonia culturale del politicamente corretto; i difensori hanno invece fatto notare come si tratti di un’aggiunta formale, peraltro già presente in alcune giurisdizioni del paese, che comunque non va oltre la multa anche in caso di volontario rifiuto di utilizzo del pronome. La colpa della dottoranda era semplicemente aver mostrato un video di Peterson, tra i più vocali oppositori del provvedimento, come esempio di un parere contrario.
La direttrice dell’università ha poi chiesto scusa per la sproporzionata reazione disciplinare, ma a danni ormai fatti. Il motivo per cui l’incidente ha fatto scalpore, però, è che si inserisce in un generale clima di tensione tra chi ritiene le istituzioni universitarie un ambiente dove è necessario coltivare idee socialmente progressiste, orientate insomma all’inclusività, e chi le vede come ambienti di ricerca e dibattito intellettuale dove dev’essere lecito esprimere opinioni di qualsiasi tipo, anche fossero politicamente impopolari. La questione riguarda il ruolo stesso dell’educazione nella società, che in tempi politicamente infiammati e finanziariamente non facili per le istituzioni stesse (e per chi ne fa parte) è parecchio sentita.
La polarizzazione è però molto più visibile a livello mediatico: sui social media e YouTube, infatti, il discorso tende a essere amplificato, decontesualizzato e semplificato in un epico contrasto tra giustizia sociale e libertà di parola, incarnate rispettivamente dai cosiddetti «Social Justice Warriors» (o SJW) e da gente come Peterson.
La figura del SJW, diventata familiare a chiunque passi un po’ di tempo su internet e segua certi dibattiti online, è prevalentemente associata allo stereotipo dello studente universitario millennial americano, lagnoso ma privilegiato. Ideologicamente, rappresenta chiunque si faccia convinto portavoce di certi ideali di sinistra «radicale», prevalentemente relativi a problemi di identità. Prima e dopo l’elezione di Trump, con la relativa esplosione di teorie e studi sull’alt-right, critiche a questo tipo di liberal identitari sono arrivate anche da sinistra. Il libretto Kill All Normies di Angela Nagle, per esempio, contrappone l’universo destrorso di 4chan e Reddit a una cultura del vittimismo propagata dalla Tumblr-sfera queer e da pubblicazioni online come BuzzFeed, concretizzatasi poi in controproducenti politiche di «no platforming» (pressioni per la cancellazione di eventi con personaggi controversi, proteste ai relativi eventi, ecc.) che di fatto hanno fatto la fortuna di avversari ideologici come Milo Yiannopoulos e, appunto, Trump.
Di questi tempi è una meccanica abbastanza di routine, e non stupisce quindi che Jordan Peterson sia recentemente diventato una figura mainstream proprio grazie a situazioni come questa, più che per il suo lavoro accademico. La registrazione di cui sopra ha infatti contribuito a cementare la sua fama di bad boy intellettuale e paladino della libertà di espressione, anche se i video ripostati dai suoi fan sono più rappresentativi. In uno di questi si vede Peterson discutere pacatamente con un’attivista trans, che lo incalza riguardo alla presenza di esponenti di estrema destra a una sua manifestazione pubblica contro il Bill C-16. Nello specifico, l’attivista gli chiede cosa pensi dei nazi, suggerendo che possa esserne un simpatizzante. In tempi di Trump e Charlottesville la preoccupazione ha il suo peso, soprattutto considerato che l’attivista sta parlando con una persona che rifiuta di riconoscere la legittimità dei suoi pronomi, ma davanti al pubblico non direttamente interessato di internet la proverbiale «reductio ad Hitler» di un individuo dimostrabilmente non nazista risulta un passo falso dialettico imperdonabile: ed ecco che si moltiplicano i re-post di video in cui Peterson «DISTRUGGE attivista trans», «DOMINA femminista», e così via. Il formato di questi titoli è molto simile a quelli che circondano personaggi come Yiannopoulos, con il quale Peterson però condivide probabilmente solo alcuni fan: il primo è un troll mediatico che ha costruito una carriera scimmiottando le politiche identitarie della «sinistra radicale» e parlando di post-verità mentre infiammava i campus americani al grido di «il femminismo è un cancro»; il secondo, al contrario, alla «verità» ci crede ciecamente.
Peterson si sforza di adottare una posa neutrale e centrista nei confronti di qualsiasi ideologia (principalmente tramite la condanna sia di Hitler che di Mao), ma il suo profilo ideologico è, se mai servisse ribadirlo, chiaramente conservatore: anticomunista, antimarxista, ma soprattutto con un odio particolare per gli umanisti postmoderni. In 12 Rules, Peterson passa da una sommaria menzione di Horkheimer e Derrida agli orrori della Cambogia comunista in meno di una pagina, attribuendo generalmente alla sinistra orientata alla giustizia sociale (sempre «radicale») idee come «tutto è interpretazione» e obiettivi astratti come l’«uguaglianza del risultato» («equality of outcome»). Il passaggio tra la dissoluzione culturale dei poli di genere e la Russia stalinista è insomma, per Peterson, molto breve: a ogni menzione del maschio bianco come oppressore abituale di categorie storicamente svantaggiate, il riflesso cognitivo del professore canadese sembra portarlo subito su immagini di kulaki nei gulag.
È abbastanza ironico che chi critica i SJW come facilmente suscettibili alle critiche (un sinonimo è infatti «snowflake», un fiocco di neve unico e fragile) si scandalizzi così tanto alla vista di rivolte perlopiù pacifiche, in cui degli studenti gridano degli slogan o alzano la voce come succede in qualsiasi protesta. Ma il vero obiettivo di Peterson e di personaggi come Yiannopoulos non sono i giovani americani, quanto piuttosto delegittimare le istituzioni universitarie e quella che percepiscono come un’élite intellettuale che li esclude. L’impetuoso entusiasmo e la frequente ingenuità dei SJW – spesso giovani ventenni – è anzi un perfetto veicolo per avanzare qualsiasi argomentazione, purché presentata sotto banner minoritari (come il conservatore gay di Yiannopoulos) o con la grave posa accademica di Peterson.
In una delle sue numerose conversazioni con Joe Rogan (comico, esperto di MMA e influente podcaster che meriterebbe un articolo a parte) l’autore di 12 Rules ammette candidamente di aver capito come «monetizzare i SJW». La cosa è evidente a qualsiasi osservatore, ma leggendo il libro si capisce come dietro alla persona del Peterson mainstream ci siano non solo più sfumature del semplice paternalismo nei confronti dei suddetti SJW, ma anche idee ben precise riguardo a natura umana e società: se la responsabilità individuale è tutto, infatti, la società e il collettivo sono una scusa e una distrazione. Anche questo aspetto è in sintonia con l’ethos prevalente online: internet non è la società, ma uno strumento che livella le opportunità, annulla la scarsità e resetta la storia di oppressione e persecuzione che l’Occidente si porta dietro, negando razzismo e sessismo in virtù della libertà di espressione.
IDW, Thatcher, Costanza
Non a caso, Peterson è stato accomunato a un nascente gruppo chiamato «Intellectual Dark Web». Il nome è stato coniato da Eric Weinstein, matematico e Managing Director di Thiel Capital, e si riferisce a un eterogeneo network di figure che fanno della libera discussione di problemi sociali scomodi (inclusa la relazione tra razza e quoziente intellettivo) la propria preoccupazione centrale. Tra gli altri, l’IDW comprende il fratello Bret Weinstein (biologo evoluzionista al centro di una discussa protesta all’Evergreen State College riguardo al suo rifiuto di partecipare a un «Day of Absence» di studenti e staff bianchi programmato dall’università, il già citato Sam Harris, il comico e broadcaster Dave Rubin, l’ex islamista diventato anti-islamista Maajid Nawaz, Ayaan Hirsi Ali e anche James Damore, l’ingegnere di Google licenziato per il suo controverso memo sulla diversità.
In un profilo del gruppo per il New York Times, Bari Weiss ne evidenzia l’eterogeneità politica, ammettendo però che le aspettative del pubblico a volte portano alcuni degli esponenti principali a concentrarsi più sui problemi della sinistra che della destra. Weiss fa notare inoltre come sia difficile tracciare un confine intorno a questa costellazione intellettuale: un click da una parte li collega a stimati ambienti accademici, uno dall’altra a figure come Alex Jones e personaggi vicini all’alt-right come Yiannopoulos e Stefan Molyneaux. Insomma, anche se la giornalista parte con toni simpatetici rispetto agli esuli del politicamente corretto, riconosce il nobile scopo del dialogo può dare luogo a risultati problematici quando ci si mette a prendere sul serio un certo tipo di personaggi. Bisogna essere, dice lei, cinici o stupidi.
In ogni caso, l’IDW sta ricevendo sempre più consensi e guadagnando influenza, grazie anche a endorsement via Twitter da parte di Kanye West e influenti podcaster come Joe Rogan, che invita spesso i membri principali a esporre le proprie idee in lunghissime conversazioni su YouTube. In una di queste periodiche conversazioni, Peterson riflette infatti proprio sulla rivoluzione portata dalla piattaforma nella diffusione di materiale altamente complesso, in un formato che non avrebbe potuto esistere in televisione. Dice che si tratta di una rivoluzione ancora più importante di quella di Gutenberg, perché molta più gente può ascoltare parole piuttosto che leggerle.
Peterson è furbo a citare il compatriota McLuhan riguardo al fatto che «il medium è il messaggio», ma la democratizzazione operata da YouTube a livello strutturale ha i suoi limiti. Per una persona che nel proprio libro parla un sacco di come argomentare e discutere, infatti, Peterson ha una concezione abbastanza postmoderna del concetto di «conversazione»: dice infatti che le sue lectures – che lo vedono solo su un palco davanti a migliaia di persone, che al contrario di lui sono al buio – sono appunto «conversazioni», visto che l’oratore può leggere le reazioni di ciascun individuo tramite il loro linguaggio del corpo. Quanto alla qualità, per quanto il rivoluzionario impatto mediatico di YouTube sia innegabile, la quantità e la diversità dei concetti espressi da Peterson in un tipico podcast di due o tre ore con un interlocutore curioso ma non colto come Rogan non è comunque paragonabile a quanto discusso in un formato televisivo ben curato come questo dibattito tra Chomsky e Foucault andato in onda su una rete olandese nel 1971. Inoltre, nonostante McLuhan, l’invisibilità dell’interfaccia dei social media è un canale perfetto per messaggi di merda.
Per Peterson l’alternativa alle istituzioni pubbliche è la grande prateria della rete, questo sandbox di free speech a perdita d’occhio che non ammette conseguenze e conserva la storia solo in forma di archetipi junghiani o meme.
L’elezione di Trump, il fenomeno alt-right, lo scandalo Cambridge Analytica, sono tutti eventi che stanno cambiando la percezione del ruolo di internet nella società: Facebook e altre piattaforme stanno ormai impazzendo dietro alla moderazione dei contenuti, e la definizione di cosa sia legittimo free speech o invece hate speech è sempre più urgente, ma incredibilmente difficile. La libertà di espressione è un valore sociale fondamentale che va tutelato, ma anche la tutela della dignità delle minoranze lo è. Insomma, si tratta di discussioni politiche che una piattaforma privata volta all’accumulazione di proventi tramite pubblicità potrebbe non essere adatta a gestire. Personalmente non so dire se Facebook o YouTube dovrebbero farlo, ma il problema esiste: se da un lato c’è la prescrizione di non dire certe cose, dall’altra c’è quella ugualmente imperativa di non offendersi; alla legittima espressione di certe idee, c’è un’altrettanto legittima e spesso motivata reazione emotiva. Insomma, se i SJW possono essere esagerati o autosabotarsi, la loro preoccupazione per la giustizia sociale risponde a problemi reali.
Qui torno a Peterson. Soprattutto se si pensa che le differenze e le gerarchie siano fatti naturali – e che la vita sia sofferenza perché naturalmente ingiusta – bisogna rendersi conto che la giustizia è anche e soprattutto un affare sociale, e nell’era dei social media più che mai questo riguarda anche internet. Il sopracitato fatto che Peterson si contrapponga a quelli che definisce «collettivisti» e «political types» è come dicevo prima una maschera di un profilo ideologico molto vicino a una morale puritano-capitalista, che potremmo anche definire thatcheriana («la società non esiste», diceva infatti il primo ministro inglese), rivolgendosi proprio alla responsabilità di ognuno dei suoi cittadini. Per Peterson l’alternativa alle istituzioni pubbliche (come le università, ormai in mano ai SJW) è proprio la grande prateria della rete, questo sandbox di free speech a perdita d’occhio che non ammette conseguenze e conserva la storia solo in forma di archetipi junghiani o meme. E se la storia è resettata, si preferiscono invece psicologia, teorie evoluzionistiche e scienze cognitive, in virtù del loro potenziale pratico e persuasivo.
La pratica trascendenza di Peterson è insomma anti-ideologica sulla carta, ed è proprio per questo che è pericolosa. Peterson squalifica la politica: per lui agire politicamente significa manipolare la realtà del mondo con le parole, un espediente praticato da esperti di marketing, pick-up artists e utopisti. Ma dal momento che, come dice George Costanza, «we are living in a society!», mettere l’idea di «giustizia sociale» sullo stesso piano delle ideologie di estrema destra, in quanto ideologie, è uno di quei meccanismi che permette oggi ai giovani neonazi di presentarsi al mainstream con toni pacati e la faccia innocente. Nell’universo comunicativo e antisociale di internet, la retorica è forse l’arma più potente, ed è tanto più pericolosa quanto meno si caratterizza come politica. Troppo spesso la formula «free speech» viene infatti usata come termine ombrello per proteggere ideologie decisamente sinistre: scrivevo anni fa di Cody Wilson, attivista dei gun rights e diffusore del primo modello di pistola stampabile in 3D, per esempio, ma lo stesso si può dire di Alex Jones, recentemente bandito da diverse piattaforme per il suo ruolo fondamentale nella diffusione di fake news come l’idea che il massacro di Sandy Hook sia tutta una montatura.
Non tutte le idee sono uguali – e penso proprio che anche Peterson sarebbe d’accordo su questo. Quanto alle sue, pur non essendo certo naziste, contribuiscono pericolosamente all’idea che libertà di parola e giustizia sociale siano due elementi contrapposti. Di potenzialmente positivo, forse, c’è che la crescente influenza sua e di altri intellettuali dell’IDW rappresenta un’occasione per riflettere sulle strategie comunicative della sinistra, alcune delle quali sono decisamente controproducenti. Questo tipo di figure possono quindi risvegliare una coscienza nei propri oppositori, ricordando loro (noi) che l’eloquenza e gli argomenti, insieme a una percezione di realtà condivisa, sono ancora necessari nell’era di Trump. In tempi di post-truth e fake news, insomma, Peterson ci ricorda che c’è ancora bisogno di punti fermi e vale la pena difenderli. Peccato che, molto spesso, non siano i suoi.