Inverno artificiale
Pubblichiamo un estratto dal romanzo Il Velo di Flavio Pintarelli pubblicato per Edizioni Alphabeta Verlag, ringraziando l’editore per la disponibilità.
Tornati da Merano, Manfred e io ci eravamo fermati nel coworking dove lavorava. Voleva sapere cosa ne pensassi dei primi scatti che aveva fatto per il reportage. Sulla scrivania accanto c’era una copia ripiegata dell’“Alto Adige”. Come ogni anno, alla fine dell’estate i giornali pubblicavano i dati relativi alla passata stagione invernale. Il titolo in prima pagina sottolineava che la mancanza di neve non aveva avuto conseguenze disastrose sul turismo come ci si sarebbe potuti aspettare. Le presenze erano calate leggermente, ma il fatturato complessivo non ne aveva risentito.
«Però piangono miseria» commentai picchiettando la pagina con le nocche.
«Chi?» chiese Manfred appoggiando due tazze di tè sulla scrivania, proprio accanto a un portamatite ricavato da una vecchia lattina lucidata su cui era scritta, con la calligrafia incerta di un bambino, la frase Al nostro super papi.
«Gli albergatori. E i giornalisti a cui regalano un paio di notti per diffondere le loro querimonie. Leggi un po’ qua» dissi indicandogli un virgolettato in taglio basso che dava a intendere che se fosse mancata la neve anche quest’anno il settore avrebbe subito un duro colpo.
«Hanno le loro ragioni. In fin dei conti siamo una provincia che si regge sul turismo.»
«Già, qui tutti pensano che il turismo sia così importante, ma solo perché è una componente del brand Alto Adige. La verità è che vale più o meno un terzo della nostra economia.»
Manfred non mi sembrava convinto, così presi a digitare sulla tastiera del mio portatile, recuperai da Google un documento della Camera di Commercio che avevo letto tempo prima e gli mostrai i dati.
«Vedi? È come ti dicevo. Il valore aggiunto del turismo è più basso di quello della manifattura o dei servizi.»
«Non avrei mai pensato.»
La circostanza lo aveva evidentemente colpito. Sfogliai il giornale e andai alla pagina dell’intervista annunciata in prima.
«Gli albergatori sono così potenti solo perché sono pochi e ben organizzati. Guarda cosa chiedono infatti» dissi, facendo scorrere l’indice sotto un passaggio dell’articolo. «Il potenziamento dell’innevamento artificiale. Hai idea di cosa significhi?»
Boschi divelti, pendii sbancati, rocce sgretolate. Cavi, tubi e piloni giacevano a terra in attesa di essere tirati, interrati e innalzati. Quelle immagini restituivano la desolazione di un gigantesco cantiere edile, dove tutto strideva con l’iconografia idilliaca che ispirava lo storytelling turistico.
Manfred scosse la testa. Digitai ancora sulla barra delle ricerche e gli piazzai lo schermo del laptop davanti agli occhi.
«Che roba è?»
«Un reportage di Lois Hechenblaikner. Lo conosci?»
«Sì, certo, ma questa serie non l’avevo ancora vista.»
«Strano. L’impatto dell’uomo sulla montagna è una delle cose che fotografa più spesso.»
L’album che avevo selezionato s’intitolava Berg.Werk. Le foto mostravano i segni che il turismo invernale di massa imprimeva sul paesaggio. Boschi divelti, pendii sbancati, rocce sgretolate. Cavi, tubi e piloni giacevano a terra in attesa di essere tirati, interrati e innalzati. Quelle immagini restituivano la desolazione di un gigantesco cantiere edile, dove tutto strideva con l’iconografia idilliaca che ispirava lo storytelling turistico.
«Madonna, è terribile» esclamò Manfred, attirando su di noi sguardi severi dalle altre postazioni del coworking. «E nessuno dice nulla?»
«Per gli ambientalisti è accanimento terapeutico. Dicono che non ha senso devastare le montagne per tenere in vita un settore che col riscaldamento globale andrà esaurendosi.»
«Lo trovo sensato.»
«Anch’io. Peccato siano voci nel deserto. Vedi, questo dibattito mi affascina, perché ho avuto modo io stesso di vedere le impronte dello scempio che si sta consumando.»
foto di Lois Hechenblaikner
Così gli raccontai che quando mi ero trovato a scriverne per la mia newsletter, alcuni albergatori da me contattati avevano insistito affinché visitassi i loro hotel e ne respirassi l’atmosfera, dandomi così involontariamente l’occasione di cogliere tutti i dettagli del nuovo scenario. Gli dissi che proprio durante uno di quei sopralluoghi mi accorsi di come l’assenza di neve avesse modificato radicalmente il paesaggio. Le piste assomigliavano a lunghi serpenti bianchi di neve artificiale, che snodavano le loro spire scivolando dalle cime alle pendici delle montagne. Erano incorniciate dal verde di pini e abeti o dal bruno terragno degli alpeggi. Il candore della neve era come sparito dalla tavolozza invernale, o almeno ne era fortemente ridimensionato. Anche la luce era diversa, più opaca, caliginosa, perché l’assenza di precipitazioni favoriva l’accumulo di sabbia e polveri. Era facile percepirlo nelle giornate più umide, a mattino inoltrato, quando il sole scioglieva la patina di brina che si formava sulle auto. Sul tettuccio restavano decine di semicerchi di residui incrostati e sul fondo del parabrezza era facile notare piccoli depositi di sabbia.
«Ecco perché tra qualche giorno vedrò Sara Casagrande» conclusi.
Sara era una biologa dell’università di Bolzano che stava studiando gli effetti prodotti dalle piste da sci sulla flora alpina. L’avevo conosciuta anni prima a una festa di Capodanno in casa di amici e dato che eravamo amici su Facebook, era stato semplice contattarla. A ricordarmi l’incontro, qualche mattina più tardi, fu la notifica del cellulare, mezz’ora prima. Erano le undici, e io me ne ero completamente dimenticato. Non avevo il numero di Sara, né idea se avrebbe letto in tempo il messaggio che le stavo per inviare su Messenger. Mi sentii in colpa, così cancellai quanto avevo appena scritto e uscii di corsa dall’ufficio, accampando un’emergenza e sperando di riu scire a trovare parcheggio.
Ci eravamo dati appuntamento da Picchio, un locale poco distante da piazza della Vittoria, a metà tra una Stube tirolese e una Kneipe berlinese. Nel tempo aveva avuto modo di conservare un suo marcato tratto decadente. Pur avendo la sua bella dose di spostati, era meno squallido dei bar da alcolizzati che punteggiavano tutti i quartieri di Bolzano. Lo frequentavano soprattutto personaggi vagamente bohemien: ragazzi avviati verso l’età adulta che iniziavano a non riconoscersi più nella clientela molto più giovane che affollava i bar del centro, ma anche adulti veri e propri, che di solito cenavano nelle salette sul retro, dove Sara mi stava aspettando seduta a un tavolo. Si alzò e ci salutammo con due baci sulle guance. Una cascata di boccoli vaporosi le cadeva sulle spalle, incorniciando i tratti affilati del suo viso. Mi sembrò molto più attraente e sicura di sé rispetto alla volta precedente. Eppure a quella festa avevamo parlato a lungo, e in disparte, ma io avevo bevuto parecchio e probabilmente ne serbavo un’immagine distorta dall’alcol.
foto di Lois Hechenblaikner
«Spero tu non sia qui da molto.»
«Sono appena arrivata.»
«Ah, meno male. Come te la passi?»
«Abbastanza bene, e tu?»
«Di corsa. Vengo dall’ufficio.»
«Dove lavori?»
«In un’agenzia di comunicazione a Laives.»
«Interessante.»
Prima che potessi spiegarle che no, non lo era affatto, arrivò il cameriere chiedendoci cosa desiderassimo. Io ordinai un’acqua tonica, lei una birra. Sbirciai l’orologio. Non era ancora mezzogiorno e pensai che se avessi fatto lo stesso, il mio stomaco non me lo avrebbe perdonato.
«Non mi sarei mai aspettata un tuo messaggio» disse Sara. «Sono contenta di vederti.»
«Fa piacere anche a me.»
«Sono curiosa di capire come posso esserti utile.»
«Sto scrivendo un reportage» le dissi, accennando alla guida e ai vari temi che stavo approfondendo. Presi poi a raccontarle di come il paesaggio invernale senza neve mi avesse impressionato e di quanto il fenomeno mi sembrasse rilevante per i destini della nostra terra, non solo economici. Lei annuì pensierosa e iniziò a parlarmi della sua ricerca. Aveva cominciato studiando tecniche e infrastrutture dell’innevamento tecnico o “programmato” – il nome corretto, scoprii, per quella che di solito viene chiamata “neve artificiale” – e il suo impatto sulle piante di montagna. Poi, visto che era impossibile circoscrivere le conseguenze riscontrate sul campo a un unico fattore, aveva allargato il suo raggio d’azione fino comprendere quello che lei definiva “effetto pista”, ovvero l’analisi di tutti gli elementi funzionali di una pista da sci che influiscono sulla vegetazione circostante.
I motivi per cui si ricorre all’innevamento programmato sono profondamente mutati col passare del tempo. Quando è stato introdotto, non era altro che un coadiuvante all’innevamento naturale. Oggi invece sono le esigenze del mercato a spingere verso un uso massiccio della neve artificiale.
«Ma forse questo non ti interessa» disse arrivata a quel punto, lanciandomi uno sguardo che tradiva la speranza che io volessi seguirla ancora e la paura di avermi trascinato troppo al di fuori della mia zona di comfort, nel cuore del territorio dei nerd, dove interesse e ossessione sconfinano l’uno nell’altra. Le feci segno di proseguire. Avevo voglia di ascoltarla, anche se non sempre capivo quello che andava spiegando.
«Oggi non esistono né possono più esistere piste da sci con sola neve naturale» mi disse a un certo punto, mentre intorno a me non c’erano altro che la sua voce e il fruscio della penna sul taccuino. «I motivi per cui si ricorre all’innevamento programmato sono profondamente mutati col passare del tempo. Quando è stato introdotto, non era altro che un coadiuvante all’innevamento naturale. Oggi invece sono le esigenze del mercato a spingere verso un uso massiccio della neve artificiale, con lo scopo di creare condizioni perfette e di prolungare le stagioni turistiche invernali.»
«Condizioni perfette per cosa? Spiegami meglio.»
Sara estrasse dalla borsa un plico di fogli fotocopiati che iniziò a mostrarmi. Riportavano una serie di dati e tabelle.
«Ti faccio un esempio. Esistono le cosiddette snow guarantee, ovvero policy che impianti e comprensori offrono ai propri clienti. Se un turista non giudica accettabili le condizioni della neve o se risulta impossibile sciare, può ricevere un rimborso oppure un voucher per poter riutilizzare gli impianti in presenza di condizioni più favorevoli. È la certezza di poter garantire, appunto, condizioni perfette che giustifica tali sistemi di fidelizzazione. E queste sono possibili grazie alla neve programmata. Le persone hanno poi imparato a distinguerne i diversi tipi e pensano comunque che la neve sparata dai cannoni sia preferibile a quella naturale, che le piste risultino più compatte. È così che la qualità della neve diventa un fattore competitivo.»
Restai ad ascoltare Sara mentre mi trasportava in quel territorio inesplorato, dove ricerca scientifica, capitalismo e natura si connettevano per diventare una sola, terrificante entità. Mi tornò in mente un articolo che avevo letto pochi giorni prima. L’antropocene, suggeriva l’autore, altro non era che «una specie di fantasma, un’entità non direttamente osservabile, ma di cui è possibile avvertire la presenza e l’imminenza». Un orrore speculativo dunque, di cui quelle lingue di neve tecnologicamente prodotta che avevo visto insinuarsi tra declivi erbosi e fasce boschive erano una delle manifestazioni più tangibili. Al mio sguardo esse rappresentavano la cieca e ostinata indifferenza con cui il genere umano trattava i segni che ne annunciavano la scomparsa imminente.
Sara mi sfiorò inavvertitamente una mano. Alzai gli occhi dalle piastrelle di maiolica bianca e blu, incastonate al centro del tavolo. Le domandai che tracce avrebbe lasciato sull’ambiente quell’ibrido di natura, marketing e tecnologia. Mi rispose che l’elevato consumo idrico ed energetico ne erano gli effetti più evidenti. «Inoltre,» proseguì «nei bacini artificiali in cui si raccolgono, le acque piovane modificano la loro composizione chimica. Dato che la flora alpina ha un equilibrio ben definito, questi mutamenti potrebbero alterarne la biodiversità. Ma non si tratta di un processo a senso unico» puntualizzò. «Il cambiamento porta sempre con sé una certa dose di ambiguità. È vero che l’innevamento tecnico può alterare l’equilibrio della flora, ma potrebbe essere utile a proteggerla dagli effetti del riscaldamento globale. Anche una prolungata assenza di neve potrebbe avere conseguenze deleterie.»
foto di Lois Hechenblaikner
Da quando avevo iniziato il reportage, avevo sempre creduto che il solo cambiamento possibile sarebbe stato netto, come nette e inscalfibili erano le cesure che, attraverso il linguaggio, definivano le identità e le appartenenze nella terra in cui abitavo. Quella fu la prima volta in cui pensai alla carica di “ambiguità” che ogni cambiamento comporta. Salutai Sara sulle scalette del locale. Lei fece per andarsene, ma mentre cercavo in tasca le chiavi della macchina si voltò e tornò indietro. «La prima cosa che hai detto» mi disse «è che il paesaggio è cambiato. Hai ragione. Ma hai fatto caso a quanto velocemente ci stiamo abituando a questo cambiamento?»