Il terreno sotto i nostri piedi

La città, lo spazio pubblico, le nostre case: una battaglia continua

Il seguente articolo è apparso per la prima volta su Salvage #10: The Disorder of the Future, il numero della primavera/estate 2021. Gli arretrati sono disponibili a questo indirizzo. I materiali riguardanti la poesia, la narrativa e l’arte sono esclusivamente presenti nell’edizione cartacea. I nostri abbonati hanno accesso a diversi contenuti esclusivi online, comprese le versioni PDF di tutti i numeri, e tutti i contenuti audio. Nuovi abbonamenti possono essere sottoscritti qui. Ogni abbonamento ha inizio a partire dal numero in stampa, e dà accesso immediato a tutti i contenuti esclusivi per gli abbonati.  

I

Sto camminando verso il parco. Lavoro a distanza già dal 2017. La pandemia di Covid-19 ha cambiato molto poco della mia vita quotidiana, impedendomi solo di usare l’ufficio che affittavo in uno spazio di coworking. Ho iniziato a fare molte passeggiate. C’è un parco vicino all’appartamento dove vivevo. Vado lì per camminare, poi mi siedo a un tavolino o su una panchina e parlo per un po’ al telefono con qualche amico, o magari leggo un po’, o scrivo e rispondo a qualche e-mail; oppure mi limito a camminare, osservando la gente che gioca a baseball, o ascoltando musica. Facevo tutte queste cose anche prima della pandemia, in realtà ‒ intendo camminare in giro ascoltando musica. Ma, da quando siamo stati rinchiusi, hanno assunto diversa intensità e frequenza, specialmente da quando il tempo si è fatto più caldo. Ci sono certe canzoni, ora, come “It’s Thunder and It’s Lightning” del gruppo scozzese We Were Promised Jetpacks, che non posso ascoltare senza immaginarmi di camminare tra le pozzanghere di Armour Square Park, circondata dai primi accenni della primavera umida di Chicago.

Ci sono tonnellate di parchi identici a questo, a Chicago; gli spazi pubblici abbondano nella metropoli della natura. E anche se molti di essi non sono curati quanto dovrebbero ‒ con i palazzetti dello sport che cadono in rovina, e le altalene arrugginite e cigolanti ‒ hanno comunque svolto un compito essenziale fin dall’inizio della pandemia: permettere alla gente di riunirsi in pubblico, in tutta sicurezza.

Dopo che lo shock iniziale della pandemia è svanito, io e i miei compagni abbiamo iniziato a riunirci all’aperto, nei parchi. Organizzavamo feste di compleanno, assemblee e chiacchierate a tu per tu. Farlo ci dava l’impressione di avere una qualche parvenza di normale interazione, anche se ci trovavamo all’aperto, e anche se sapevamo bene che non avremmo potuto continuare per sempre. È Chicago, dopo tutto; l’inverno sarebbe arrivato presto. Tuttavia, avere a disposizione un simile spazio, ed essere liberi di usarlo, essere in grado di trovarci in presenza l’un* dell’altr*, anche se a due metri di distanza, ha rappresentato un dono immenso.

Questo tipo di presenza fisica è essenziale per costruire rapporti di solidarietà. Non si può prendere da parte qualcuno, dopo una riunione su Zoom, per complimentarsi con lui per un intervento che ha fatto; o chiedergli di approfondire un punto in particolare; o commiserarsi assieme su quanto fossero scomode le sedie. Non puoi scambiarti uno sguardo complice dall’altra parte della stanza. Non si può fare un picchetto, o bloccare Michigan Avenue, su Zoom. Non si può cantare insieme, perché, quando una persona sta parlando, Zoom mette in muto tutti gli altri. La nostra capacità di avvertire la nostra forza collettiva ‒ di sentirla davvero ‒  dipende dalla possibilità di incontrarci di persona.

II

Sto parlando al telefono con una delle mie più vecchie amiche, a proposito del fatto di indossare mascherine protettive. Lei vive in Argentina, il paese da cui entrambe proveniamo. Ha sentito al telegiornale che, negli Stati Uniti, l’impiego delle mascherine sta venendo politicizzato. Non riesce a crederci e vuole che glielo spieghi, in qualche modo. Come mai alcuni conservatori sono contrari al fatto di indossare mascherine? Cosa sta succedendo? Non sono più interessati a vivere?

Faccio fatica a rispondere qualcosa di più di un: «Sì, piuttosto banale, vero?», perché sia io che lei abbiamo solo poche ore a disposizione, ogni mese, al telefono, e vorrei parlare delle nostre vite. So che c’è molto di cui parlare e che, se cominciassimo a pensare ad alta voce, finiremmo col parlare esclusivamente del motivo per cui certe persone si rifiutano di indossare mascherine.

Ma parliamone, invece. Cominciamo con le ovvietà: ci sono persone che vedono le mascherine come una violazione della propria libertà personale. Certo, la necessità di limitare la diffusione del Covid-19 ha ridotto gran parte della libertà che eravamo in grado di esercitare nel corso della nostra vita quotidiana. Molti di noi non possono uscire di casa; e, se lo fanno, non possono spostarsi come e quanto vorrebbero. Per andare al lavoro dobbiamo indossare una mascherina e/o uno schermo facciale, e stare a due metri di distanza gli uni dagli altri. Non possiamo viaggiare, entrare nelle case altrui e frequentare bar. Oppure, potremmo ‒ mettendo a rischio la nostra stessa vita e quella degli altri.

Sotto il regime capitalista, siamo «liberi» di fare ben poco: lavorare e consumare, più che altro. Tutto il resto ‒  amare, produrre opere d’arte, osservare un albero, guardare un film, vivere in comunione con gli altri ‒ siamo obbligati a farlo nei ritagli di tempo.  Le nostre vite sono in buona parte definite dal tempo che trascorriamo lavorando, e preparandoci per andare di nuovo a lavorare il giorno successivo. Dato tale stato di cose, le limitazioni imposte dal Covid-19 si appaiono alla stregua di immense imposizioni, sgradite limitazioni alla nostra libertà personale. Questo perché ne abbiamo davvero così poca, tanto per cominciare.

Dal momento che l’immaginazione politica popolare è stata ridotta all’osso, la classe operaia risulta a malapena organizzata. La maggior parte delle persone non sperimenta mai il potere dell’azione collettiva, e il luogo attraverso il quale la «libertà» si esprime è spesso confinato al singolo individuo. Ma ogni libertà che possediamo in qualità di individui, l’abbiamo ottenuta lottando e vincendo in quanto collettività.

III

Sono sulla South Martin Luther King Drive. Questa non è né la prima né l’ultima protesta contro l’omicidio di George Floyd da parte della polizia. Gli abitanti di Chicago hanno inondato le strade per giorni e giorni di seguito. È un po’ strano e snervante, ma è bello poter di nuovo tornare a gridare, farsi vedere, cantare e scandire slogan tutti assieme.

Siamo stati rinchiusi dentro casa per due mesi, con l’ordine rigoroso di mantenere il distanziamento sociale. Ma la rabbia ci ha spinto, ancora una volta, a riversarci per le strade. Durante il terzo giorno di proteste, alle otto di sera, il sindaco Lori Lightfoot ha annunciato il coprifuoco ‒ stabilito per le nove. Mentre migliaia di persone, ammassate nel Loop, tentavano di trovare un modo per tornare a casa prima che scattasse il coprifuoco ‒ prima che alla polizia venisse concessa ancor più libertà di arrestarci e brutalizzarci ‒ il sindaco ha dato ordine di alzare i ponti che collegano il centro al resto della città. Da alcuni amici, ho sentito dire che gli operatori dei ponti levatoi si erano inizialmente rifiutati di alzarli. Ma, alla fine, i loro capi erano stati costretti a cedere dinanzi alle pressioni del sindaco, e avevano trasmesso l’ordine ai loro sottoposti. Dovevano farlo. I ponti sono stati alzati. La gente è rimasta intrappolata in centro.

Non è la prima volta che il mondo materiale viene usato come arma. L’«architettura ostile» ‒ panchine dotate di divisori, di modo che la gente non possa sdraiarvisi sopra; spuntoni di cemento eretti al di sotto dei ponti, così che non si possa montarvi delle tende ‒ si è tramutata, ormai, in un luogo comune. La gente sa cos’è. La fotografano; scuotono la testa; si arrabbiano online. Ma questa volta era diverso. Si trattava di qualcosa di più sinistro, di una manipolazione dal vivo del terreno sotto i nostri piedi. Uno stratagemma ideato per ferirci e intrappolarci.

Un paio di settimane più tardi, mi sono unita con il mio fidanzato di allora a una carovana diretta verso sud, sulla MLK Drive. Alcuni erano in bicicletta, altri camminavano di fianco a noi, sul marciapiede, anche se la maggior parte di noi era in macchina. È stato davvero fantastico, perché ciascuno, a modo suo, poteva occupare un sacco di spazio; ma anche, per molti versi, per nulla affatto fantastico, per la difficoltà di far partire dei cori. Mi sono sporta col busto fuori dal tettuccio della nostra Volvo 740 del 1988 e ho lanciato una “call-and-reply” al tizio nella macchina davanti a me.  Siamo andati avanti così per un po’, ma si è spento più velocemente di quanto sarebbe accaduto se fossimo stati fianco a fianco. Abbiamo avanzato, fin quando le auto non hanno cominciato a staccarsi dalla colonna, poi siamo tornati a casa. Più tardi, ci è giunta voce che alcune delle persone a piedi avevano continuato a marciare fino a raggiungere la 31esima strada, e lì erano state attaccate.

«La sicurezza sta nel numero», come diciamo sempre, ma il Covid-19 ha reso infinitamente più difficile mettere in pratica tale regola. Eppure, abbiamo continuato a marciare. Siamo montati in bicicletta per incontrarci con i compagni dell’estremo sud, e, assieme, abbiamo marciato verso nord, ancora una volta sulla MLK, questa volta a piedi. A un certo punto, siamo rimasti bloccati sotto un ponte. Io e alcuni compagni che non avevo mai visto prima d’ora abbiamo sfruttato l’eco delle nostre voci per farci udire dalla folla: «No justice, no peace, fuck these racist-ass police» [nessuna giustizia, nessuna pace, fanculo la polizia razzista]. Dalle retrovie, qualcuno si è fatto avanti suonando un tamburo a secchiello. Eravamo il più possibile lontani gli uni dagli altri, ma le nostre voci viaggiavano insieme.

Qualche giorno dopo ‒ o, forse, proprio il giorno dopo; non riesco a ricordare, perché ogni giorno mi è sembrato durare quanto tre giorni in uno ‒ sono andata di nuovo a passeggiare ad Armour Square Park. Il parcheggio accanto, di solito vuoto, era pieno di jeep blindate e autobus pieni di poliziotti, pronti, in qualsiasi momento, a scendere in campo per disperdere i manifestanti. Ormai, ero giunta a comprendere ‒ ben a ragione, direi ‒ che uno spazio pubblico benigno, un rifugio sicuro per me e i miei compagni, poteva tramutarsi, di punto in bianco, in luogo pericoloso.

IV

Nonostante i pericoli, abbiamo continuato a marciare. Ci siamo incontrati all’aperto, finché non ha fatto così freddo da non poterlo più fare. Il Covid-19 ha reso snervante essere lì di persona, ma fare quella cosa che così tante persone, credo, ritenevano una limitazione della propria libertà individuale ‒ sarebbe a dire indossare delle mascherine ‒ ci ha permesso di scendere in strada, e di continuare a combattere per la nostra libertà collettiva. Da quel che ho potuto accertare, non si è assistito a un significativo aumento dei casi di Covid-19, dopo le proteste della scorsa estate. Ciò, probabilmente, perché tutti indossavano mascherine.

Ma il Covid-19, e il responso della polizia alle rivolte del 2020, continueranno ad avere, per molto tempo, ripercussioni sul modo in cui usiamo lo spazio pubblico. Mentre noi imparavamo ad adattarci, a trovare soluzioni creative per riunirci all’aperto, i governi cittadini hanno flesso i muscoli e si solo lanciati nella loro campagna di repressione ‒ spesso con l’aiuto di vigilanti di destra, ben intenzionati a stroncare sul nascere ogni iniziativa da parte della sinistra. Nel mio quartiere, nella zona sud di Chicago, alcuni compagni hanno visto la polizia girarsi a guardare dall’altra parte, mentre un ragazzo appartenente all’alt-right, armato di una mazza di legno ricavata dalla gamba di un tavolo e ricoperta di grossi chiodi di metallo, si scagliava contro la folla di manifestanti. Potremmo anche avere accesso allo spazio pubblico, ma ben di rado abbiamo davvero controllo su di esso. Abbiamo appreso a sfruttarlo per farci sentire, per far udire a tutti le nostre richieste ‒ da ciò consegue, ovviamente, che il pieno controllo su di esso dovrebbe, di diritto, entrare a far parte di tali richieste.

Mentre le aziende erigono i loro parchi privati ‒ come ha fatto la Salesforce, nella Bay Area ‒ o minacciano di appropriarsi di quelli pubblici ‒ come suggerito dal segretario del Dipartimento degli Interni degli Stati Uniti, Ryan Zinke, durante l’amministrazione Trump ‒ corriamo il rischio di essere ulteriormente limitati alle nostre case, o a luoghi nei quali l’accesso è condizionato da un acquisto. Dobbiamo intendere il diritto allo spazio pubblico come un diritto per il quale valga la pena lottare ‒ sia per preservare lo spazio pubblico che già possediamo, sia per conquistarne altro.

Dall’inizio della pandemia, mi sono trasferita in un nuovo appartamento. Vivo ancora nello stesso quartiere (Bridgeport), ma dalla parte opposta. Di conseguenza, non mi capita più così spesso di recarmi all’Armour Square Park. Vado, invece, a passeggiare in un parco dietro la Armour Elementary School (che deve il suo nome esattamente alla stessa persona: il magnate dell’imballaggio della carne, e anatema-dei-sindacati, Philip Danforth Armour). Il parco dietro la Armour Elementary è dotato di un quarto di miglio di sentiero in ghiaia fine, che corre tutto attorno a una grande distesa d’erba, di un po’ d’alberi e di qualche panchina. C’è anche un piccolo parco giochi per bambini. Per quel che ne so, la città non tiene molto alla manutenzione di questo parco. I secchi della spazzatura vengono svuotati regolarmente, ma non poi così di frequente. Quando mi sono trasferita in questa parte del quartiere, c’erano due porte da calcio al centro del parco. Ora, una di esse giace rovesciata su un lato; l’altra, non ho idea di che fine abbia fatto. Ogni volta che passeggio lungo il sentiero, mi soffermo a pensare a come due porte da calcio (funzionanti) siano il minimo che ci si dovrebbe aspettare da un parco, specialmente da uno confinante con una scuola, situata in un quartiere con una significativa parte di popolazione latina.

Prima della pandemia, mi è capitato di andare, qualche volta a settimana, a nuotare nella piscina pubblica di McGuane Park, nella solita Bridgeport. Si tratta di una bella struttura, ma gli spogliatoi sono sempre un po’ sporchi, e non ci sono tende a dividere le docce. Credo vada tutto sommato bene, a parte il fatto che non tutti si sentono a proprio agio a farsi vedere nudi ‒ né mi sembra un gran problema mettere dei divisori, sebbene, con l’austerità, tutto sia diventato un po’ troppo caro. Ho pagato ottanta dollari per tre mesi di nuoto in vasca (tutto le altre attività ‒ il nuoto per famiglie, il nuoto libero, il nuoto per anziani e l’aerobica acquatica ‒ vengono offerte gratuitamente). Di certo non è molto e, forse, non pagherei di più per avere spogliatoi più puliti; o divisori tra le docce; o per far tagliare più spesso l’erba del parco adiacente, così che sia più facile camminare sul prato; o per delle nuove reti per i canestri da basket. Poi, però, penso a come Lori Lightfoot abbia speso più di 281 milioni di dollari, sottraendoli al fondo CARES, per pagare le operazioni di polizia, in un momento in cui la maggior parte delle persone aveva bisogno di investimenti in cose che le invogliassero a uscire di casa, e a fare qualcosa, qualsiasi cosa, in modo più sicuro.

Il denaro è là fuori; è solo che è nelle mani sbagliate. Ma questo già lo sappiamo. Per farne buon uso, ci sarebbe bisogno di leadership politica e di immaginazione ‒ per pensare a che tipo di vita le persone dovrebbero vivere, anche nel bel mezzo di situazioni impensabili. L’anno scorso, la mattina del Giorno del Ringraziamento, mentre portavo a spasso il cane nel parco dietro la Armour Elementary, un ragazzo mi si è avvicinato e mi ha chiesto se poteva accarezzarlo. Di solito, lei è timida con le persone che non conosce, specialmente con gli uomini, ma stavolta si è lasciata accarezzare. Così, alla fine, ci siamo seduti sull’erba e abbiamo iniziato a chiacchierare. Mi ha raccontato di essersi svegliato alle quattro del mattino, così da poter stare alle cinque al magazzino in cui lavorava. Non sapeva di avere un giorno libero. L’ha scoperto solo quando è arrivato lì, e il magazzino era chiuso. La maggior parte delle persone che lavorano lì non possiedono documenti e, «ovviamente, non abbiamo un sindacato, quindi succedono sempre cose del genere». Abbiamo parlato per un po’. Il parco ci ha fornito lo spazio che ci ha concesso di avvicinarci, facendo sì che questa conversazione avesse luogo. Mentre tornavo a casa, mi sono chiesta se lui e i suoi colleghi si fossero mai incontrati fuori dal lavoro, e se avessero a disposizione uno spazio per organizzarsi ‒ se mai lo avessero voluto. Ho pensato a come le sfere all’interno della quali siamo in grado di praticare la nostra libertà si siano fatte sempre più piccole (da ben prima della pandemia), e a come non siamo più così tanto liberi neppure nelle nostre case. Dobbiamo osare immaginare un mondo che sia davvero nostro. Un mondo dotato di spazi pubblici che possiamo controllare a pieno, e che possiamo sfruttare per mettere in pratica le nostre libertà individuali, ma anche per organizzarci e conquistare un numero sempre più ampio di libertà collettive. Sappiamo bene che la classe dominante non ci concederà mai tutto ciò, e che dovremo lottare per ottenerlo ‒ nuove porte da calcio, divisori per docce, sale pubbliche e qualsiasi altra cosa oseremo desiderare ‒ con le nostre sole forze.