Il nuovo nichilismo
Pubblichiamo un estratto da La vendetta di Zarathustra. Il nuovo nichilismo e altri saggi, il nuovo libro di Hakim Bey appena pubblicato per Ampère Books e Agenzia X, ringraziando gli editori per la disponibilità.
È sempre più difficile capire la differenza tra essere vecchi, malati e sconfitti, da un lato e, dall’altro, vivere in un tempo e luogo che è esso stesso senile, stanco e sconfitto. A volte penso di essere io il problema, ma poi scopro che anche persone più giovani e sane di me sembrano attraversare simili sensazioni di ennui, disperazione e rabbia impotente. Forse non sono solo io, in fondo. Un amico ha attribuito questa disillusione nei confronti di tutto, incluse le posizioni radicali e gli attivismi di vecchio stampo, alla delusione provocata dal governo Obama, dal quale ci si aspettava un allontanamento dai decenni reazionari che hanno seguito gli anni ottanta o addirittura un “progresso” verso qualche sorta di socialismo democratico.
Anche se personalmente non ho mai condiviso il suo ottimismo (parto sempre dal presupposto che chiunque anche solo voglia diventare presidente degli Stati Uniti debba essere per forza un assassino psicopatico) capisco perché la “gioventù” abbia sofferto di una grave delusione nel constatare il fallimento totale del liberalismo e del suo tentativo di ribaltare la marea del capitalismo trionfalista. La disillusione ha dato vita a Occupy Wall Street e il fallimento del movimento ha portato all’assoluto rifiuto di ogni coinvolgimento politico.
Tuttavia, ritengo che questa analisi puramente politica del “nuovo niente” sia troppo bidimensionale per dare l’idea di quanto ogni speranza di cambiamento sia morta nel kapitalismo kognitivo e nella tecnopatocrazia. Nonostante ciò che rimane dei miei sentimenti da figlio dei fiori, io stesso percepisco questa condizione «terminale», come l’ha chiamata Nietzsche, della quale mi piace dire, tra il serio e il faceto, che alla fine abbiamo raggiunto il futuro e l’unica certezza realmente terribile della fine del mondo è che non finisce davvero.
Un grande centro commerciale online alla J.G. Ballard o alla Philip K. Dick da qui all’eternità, praticamente. Questo è il futuro, che te ne pare? La vita tra le macerie: non così terribile per i borghesi, i servi leali dell’uno percento. Rovine con l’aria condizionata! Niente Ragnarök, niente rapimento, nessuna chiusura drammatica: solo una replica infinita di reality show polizieschi. Il 2012 profetizzato dai Maya è arrivato, se n’è andato, e noi siamo ancora indebitati con qualche banca senza volto, incatenati tuttora ai nostri schermi.
Oggi esiste denaro a sufficienza per comprare il mondo intero almeno dieci volte, eppure le specie si estinguono, lo spazio incontaminato svanisce, le calotte polari si sciolgono, l’aria e l’acqua diventano tossiche, la cultura stessa diventa tossica.
Per sopravvivere, la maggioranza delle persone sembra aver bisogno intorno a sé di una «coltre di illusione», per citare ancora Nietzsche: di convincersi che il mondo vada avanti come sempre, con i suoi giorni buoni e meno buoni, ma sostanzialmente non diverso da com’era nel 10.000 a.C., nel 1492 o come sarà l’anno prossimo. Qualcuno ha persino bisogno di credere nel progresso, che il futuro risolverà tutti i nostri problemi, e addirittura che la vita sia meglio oggi di quanto fosse, per esempio,per le persone nel V secolo dopo Cristo. Viviamo più a lungo grazie alla scienza moderna, anche se ovviamente i nostri anni extra li trascorriamo in gran parte come “oggetti medici”, malati ed esausti ma mantenuti in funzione da macchine e pillole che generano enormi profitti per poche mega corporazioni e compagnie di assicurazioni. Una nazione di struldbrugg.
È vero, stiamo soffocando nel pantano generato dalla dittatura di macchine impazzite sotto la numisfera del denaro. Oggi esiste denaro a sufficienza per comprare il mondo intero almeno dieci volte, eppure le specie si estinguono, lo spazio incontaminato svanisce, le calotte polari si sciolgono, l’aria e l’acqua diventano tossiche, la cultura stessa diventa tossica, il paesaggio è sacrificato all’industria agricola e ai centri commerciali, al fascismo del rumore e via dicendo. Ma la scienza curerà tutti i mali che la scienza ha creato, nel futuro («sul lungo periodo», quando saremo tutti morti, come diceva Lord Keynes). Così, nel frattempo, possiamo continuare a consumare il mondo e cacarlo sotto forma di rifiuto, perché è comodo, efficiente e redditizio farlo, e perché ci piace.
Va bene, sono un mucchio di cliché da piagnucolone liberale di sinistra. L’ho già sentito un milione di volte, mi sto addormentando. Che noioso, che infantile, che inutile! Anche se fosse tutto vero… che possiamo farci? Se i nostri leader designati non possono o non vogliono fermare tutto questo, chi può farlo? Dio? Satana? Il “popolo”?
Quale forza è in grado, anche solo in teoria, di provocare una tale rivoluzione? La religione? In 6000 anni di religione organizzata le cose sono soltanto peggiorate. Le droghe psichedeliche negli acquedotti? Il calendario Maya? La nostalgia? Il terrore?
Tutte le soluzioni alla moda per uscire dalla “crisi”, dalla democrazia elettronica alla violenza rivoluzionaria, dal locavorismo alle abitazioni a energia solare, dalle regolamentazioni dei mercati finanziari allo sciopero generale, tutte queste cose, per quanto ridicole o sublimi possano sembrare, dipendono da un cambiamento radicale a priori, un cambiamento epocale nella coscienza umana. Senza una trasformazione del genere ogni speranza di riforma è futile. E se una trasformazione del genere dovesse per qualche ragione accadere, nessuna riforma sarebbe necessaria. Il mondo semplicemente cambierebbe. Le balene sarebbero salve. Niente più guerra. E così via.
Quale forza è in grado, anche solo in teoria, di provocare una tale rivoluzione? La religione? In 6000 anni di religione organizzata le cose sono soltanto peggiorate. Le droghe psichedeliche negli acquedotti? Il calendario Maya? La nostalgia? Il terrore? Se la catastrofe è ormai inevitabile, forse si realizzerà lo scenario immaginato dai survivalisti e i pochi milioni di coraggiosi rimasti creeranno un’utopia verde tra le macerie fumanti. Ma il capitalismo non troverà un modo di trarre profitto anche dalla fine del mondo? Qualcuno potrebbe dire che lo stia già facendo. La catastrofe potrebbe essere l’apoteosi finale del feticismo per le merci.
Ipotizziamo, per amore della discussione, che questo paradiso di gadget elettrici e allarmi di emergenza sia tutto ciò che abbiamo e che avremo da qui in poi. Il capitalismo può gestire il riscaldamento globale – può vendere braccioli e assicurazioni contro le catastrofi naturali. Quindi diciamo che è tutto finito, solo che abbiamo ancora la televisione e Twitter. La fine della giovinezza, i bambini come consumatori perfetti, che smaniano per il marchio. Terrorismo o televendite, scegliete voi. In fondo democrazia significa scelta.
È dalla fine del movimento sociale nel 1989, l’ultimo sussulto dell’odioso secolo breve iniziato nel 1914, che l’unica “alternativa” al totalitarismo capitalista neoliberale sembra essere il neofascismo religioso. Capisco perché qualcuno possa voler diventare un fondamentalista violento e bigotto – davvero, lo comprendo – ma solo perché provo pena per i lebbrosi non significa che voglia diventare uno di loro.
Quando cerco di conservare qualche brandello del mio antipessimismo di una volta, fantastico sul fatto che la storia possa non essere finita, che possa sorgere qualche sorta di socialdemocrazia populista ecologista per sfidare l’osceno compiacimento degli interessi economici – qualcosa sulla falsariga del monarco-socialismo scandinavo degli anni settanta, che con il senno di poi sembra la forma di stato più umana mai emersa dal gorgo putrido della civiltà.
Pensiamo ad Amsterdam nei suoi giorni d’oro. Ovviamente in quanto anarchico dovrei comunque oppormi a uno stato di quel tipo, ma almeno avrei il lusso di credere che, in una situazione del genere, l’anarchia potrebbe avere qualche possibilità di successo. Anche se una simile realtà dovesse effettivamente concretizzarsi, però, possiamo essere dannatamente certi che non capiterà negli Stati Uniti, né da nessuna parte nel regno spettrale del marxismo morto. Magari in Scozia?
Sembrerebbe piuttosto insensato sperare in una tale rinascita del sociale. Anni fa, molti radicali hanno rinunciato a ogni speranza nella rivoluzione, e i pochi che ancora ci credono mi ricordano i fanatici religiosi. Può essere rassicurante scivolare in un simile rivoluzionarismo dottrinario, proprio come può essere rassicurante sprofondare nel misticismo religioso ma, almeno per me, entrambe le opzioni hanno perso interesse. Di nuovo, sono solidale con i credenti convinti anche se non simpatizzo più tanto quando scadono nella sinistra autoritaria o nel fascismo, però sono francamente troppo depresso per abbracciare la loro illusione. Se lo scenario da fine dei tempi abbozzato sopra è la realtà, che alternative rimangono oltre alla disperazione suicida? Dopo averci pensato a lungo sono arrivato a tre strategie di base.
1) Escapismo passivo. Tieni la testa bassa, non farti notare. Il capitalismo permette ogni tipo di “stile di vita” (quanto odio questa espressione), scegline uno e cerca di godertelo. Ti è persino permesso vivere come un contadino povero senza elettricità, tipo Amish dissidente ma secolarizzato. Be’, magari non proprio, ma potresti almeno flirtare con una simile vita. «Fuma erba, mangia pollo, bevi tè», come dicevamo negli anni sessanta alla Moorish Orthodox Church of America, il nostro luogo di culto psichedelico. Spero che non ti becchino. Trovati una nicchia in una categoria permessa come neohippie o persino come anabattista.
2) Escapismo attivo. In questo scenario cerchi di creare le condizioni ottimali per l’emergenza di zone autonome, siano esse temporanee, periodiche o persino (semi)permanenti. Nel 1984, quando ho coniato l’espressione Temporary Autonomous Zone (TAZ), l’ho concepita come un complemento alla rivoluzione, anche se già allora, a dire il vero, ero già stanco di aspettare qualcosa che non era capitato nemmeno nel 1968. La TAZ avrebbe dato un’idea o una premonizione di cosa significhi la vera libertà: nei fatti, si sarebbe cercato di vivere come se la rivoluzione fosse già avvenuta, per non morire senza aver mai sperimentato la «libertà libera», come la chiamava Rimbaud, «liberté libre». Creati la tua utopia piratesca.
Dimentica la morale rivoluzionaria – la domanda è: puoi permetterti il tuo gusto per la libertà?
Ovviamente la TAZ può essere breve e semplice come un’ottima cena, ma il vero autonomista vorrà massimizzare il potenziale e fare esperienze più lunghe e profonde di vita autenticamente vissuta. Quasi inevitabilmente questo coinvolgerà qualche forma di crimine, dunque è necessario pensare come un criminale, non come una vittima. Un «Johnson», come diceva Burroughs, non un «bersaglio». In che altra maniera si può vivere, e vivere bene, senza lavoro? Lavoro, la maledizione della classe pensante. Schiavitù del salario.
Se sei abbastanza fortunato da essere un artista di successo, puoi forse raggiungere una relativa autonomia senza infrangere nessuna legge in maniera plateale, a parte forse le leggi del buon gusto. O potresti ereditare un milione di dollari. Più di un milione sarebbe una maledizione. Dimentica la morale rivoluzionaria – la domanda è: puoi permetterti il tuo gusto per la libertà? Per molti di noi il crimine sarebbe non solo un piacere ma anche una necessità. I vecchi anarco-illegalisti hanno mostrato la via: l’espropriazione individuale. Essere beccato ovviamente rovina tutto, ma il rischio è anch’esso un aspetto dell’autenticità del Sé.
Uno scenario che ho immaginato per l’escapismo attivo è quello di trasferirsi in un’area rurale remota insieme a diverse centinaia di altri socialisti libertari, abbastanza da rovesciare il governo locale, il municipio o addirittura la contea, ed eleggere o controllare gli sceriffi e i giudici, l’associazione genitoriinsegnanti, i vigili del fuoco e persino l’azienda dell’acqua. Si potrebbe finanziare l’impresa con la coltivazione illegale di allucinogeni e portare avanti gli affari senza dare nell’occhio. Organizzarsi come “unione di egoisti” per il mutuo beneficio e i piaceri estatici, magari sotto forma di “comuni” o anche monasteri, non importa. Meglio godersela finché dura. So per certo che questo piano viene attuato in diversi luoghi in America, ma ovviamente non dirò dove.
In passato ho sostenuto che il Terrorismo Poetico fosse meglio della violenza reale, perché l’arte può essere brandita come un’arma. Ora sono arrivato a dubitarne.
Un altro modello possibile per gli escapisti individuali potrebbe essere quello dell’avventuriero nomade. Visto che tutto il mondo sembra essersi trasformato in un parcheggio gigante o un unico social network, non so se questa opzione sia ancora possibile. Il trucco è quello di viaggiare in posti senza turisti – se esistono ancora – e buttarsi in situazioni affascinanti e pericolose. Per esempio, se fossi giovane e in buona salute, andrei in Francia a prendere parte alla TAZ che è cresciuta intorno alla resistenza al nuovo aeroporto, oppure in Grecia o in Messico, o in qualsiasi altro luogo in cui spunti lo spirito perverso della ribellione. Il problema qui sono ovviamente i finanziamenti. Spedire indietro statue imbottite di hashish non è più una buona idea. Come paghi la tua vita di avventure? L’amore troverà una strada. Non è poi così importante se si è d’accordo con gli ideali di piazza Tahrir o Zuccotti Park – il punto è esserci.
3) Vendetta. La chiamo la Vendetta di Zarathustra perché, come ha detto Nietzsche, «una piccola vendetta è più umana di nessuna vendetta». Ci si può godere la soddisfazione di terrorizzare i bastardi almeno per qualche momento. In passato ho sostenuto che il Terrorismo Poetico fosse meglio della violenza reale, perché l’arte può essere brandita come un’arma. Ora sono arrivato a dubitarne. Ma forse le armi possono essere una forma d’arte. Dal martello dei luddisti alle bombe degli attentati, la distruzione può servire come una forma di creatività, in se stessa o per ragioni puramente estetiche, senza farsi nessuna illusione sulla rivoluzione. Oscar Wilde incontra l’acte gratuit: un dandismo della disperazione.
Ciò che mi disturba di questa idea è che sembra impossibile distinguere tra le azioni di un anarconichilista di post-sinistra e quelle di un reazionario neotradizionalista di post-destra. Per quel che vale, una bomba può essere fatta scoppiare anche da fanatici fondamentalisti – che differenza fa per la vittima o per il “passante innocente”? Un laboratorio di nanotecnologie fatto saltare per aria potrebbe essere l’atto di un monarchico disperato tanto quanto di un anarchico nietzschiano. Leggendo un recente libro di Tiqqun, Teoria del Bloom, mi ha incuriosito imbattermi improvvisamente in una costellazione comprendente Nietzsche, René Guénon, Julius Evola e altri, portati come esempio di giusta critica della sindrome di Bloom, cioè del progresso-come-illusione.
Ovviamente la posizione dell’“oltre la destra e la sinistra” ha due facce, una che la approccia da destra e l’altra da sinistra. I rappresentanti della nuova destra europea, Alain de Benoist e i suoi amici, sono grandi ammiratori di Guy Debord per una ragione simile (la sua critica, non le sue proposte). La post-sinistra oggi può apprezzare il tradizionalismo come reazione contro la modernità proprio come i neotradizionalisti possono apprezzare il situazionismo. Ma questo non significa che gli anarchici post-anarchici siano uguali ai fascisti post-fascisti.
Mi ricorda la situazione della Francia alla fine del XIX secolo, dove si creò una strana alleanza tra anarchici e monarchici, per esempio il Cercle Proudhon. Questa congiunzione surreale si realizzò per due ragioni: a) entrambe le fazioni odiavano la democrazia liberale; b) i monarchici avevano i soldi. Il matrimonio diede vita a una strana progenie, nella fattispecie a Georges Sorel. E si sa che Mussolini iniziò la sua carriera come anarchico individualista. Un altro collegamento tra la destra e la sinistra può essere ricercato in una specie di esistenzialismo; ancora una volta Nietzsche è il padre fondatore, mi sembra.
A sinistra c’erano pensatori come Gide e Camus. A destra, un malvagio illuminato come il barone Julius Evola era solito dire ai suoi gruppuscoli di estrema destra a Roma di attaccare il mondo moderno – sebbene la restaurazione della tradizione fosse un sogno senza speranza – anche solo come atto di autocreazione magica. L’essere surclassa l’essenza. Non bisogna attaccarsi ai meri risultati. Sicuramente la teoria di Tiqqun del «perfetto atto surrealista» (sparare a caso con un revolver su una folla di “passanti innocenti”) fa parte di questa forma di azione-come-disperazione. Incidentalmente devo confessare che questo genere di cose mi ha sempre – e mi spiace dirlo – impedito di abbracciare il surrealismo: è troppo crudele. Non sono neppure un ammiratore di de Sade.
Ovviamente, come sappiamo, il problema con i tradizionalisti è che non sono mai stati abbastanza tradizionali. Guardano indietro alla civiltà perduta come loro “obiettivo” (religione, misticismo, monarchismo, arts & crafts ecc.) mentre dovrebbero rendersi conto che la vera tradizione è l’“anarchia primordiale” dell’età della pietra, il tribalismo, le società di cacciatori/raccoglitori, l’animismo – quello che chiamo il Fronte di liberazione neanderthaliano. Paul Goodman ha usato il termine «conservatorismo neolitico» per descrivere questa forma di anarchismo, ma parlare di “reazione paleolitica” mi sembra più appropriato.
L’altro grande problema con la destra tradizionalista è che l’intero spettro emozionale del movimento è radicato nell’autorepressione. Qui una rozza analisi reichiana è sufficiente per dimostrare che il corpo autoritario riflette un’anima danneggiata, e che solo l’anarchia è compatibile con l’autorealizzazione. O almeno credo. La nuova destra Europea emersa negli anni novanta continua con la sua propaganda – e questi bellimbusti non sono solo una teppa di volgari nazionalisti sciovinisti antisemiti e omofobi, sono intellettuali e artisti. Io penso siano malvagi, ma questo non significa che li trovi noiosi, o persino che abbiano torto su tutto. Anche loro odiano le nanotecnologie!
Anche se ho cercato di far esplodere qualche bomba negli anni sessanta, manifestando contro la guerra del Vietnam, tutto sommato sono contento che le mie detonazioni non siano andate a buon fine. La tecnologia non è mai stata il mio métier, e questo mi permette di non domandarmi se avrei avuto “scrupoli morali”.
Invece ho scelto la strada del propagandista e sono rimasto un attivista nei media anarchici dal 1984 fino all’incirca al 2004. Ho collaborato con il collettivo editoriale Autonomedia, l’IWW, la John Henry Mackay Society (stirneriani di sinistra) e il vecchio Libertarian Book Club di New York fondato dai compagni di Emma Goldman, alcuni dei quali ho conosciuto e che oggi sono tutti morti. Ho tenuto una trasmissione radiofonica su WBAI per diciotto anni. Ho insegnato in Europa dell’ovest e dell’est negli anni novanta. Mi sono divertito molto, grazie. Ma l’anarchia sembra ancora più lontana di quanto non fosse nel 1984, o anche nel 1958, quando sono diventato anarchico per la prima volta leggendo Krazy Kat di George Harriman. Quantomeno essere esistenzialista significa che non devi mai chiedere scusa.
Negli ultimi anni, nei circoli anarchici c’è stata una tendenza a tornare “indietro” verso un individualismo alla Stirner/Nietzsche – perché, dopotutto, chi prende ancora sul serio l’anarco-comunismo rivoluzionario o il sindacalismo? Siccome ho aderito a questa posizione individualista da decenni, anche se smorzata dall’ammirazione per Charles Fourier e certi “anarchici spirituali” come Gustav Landauer, naturalmente sono ben disposto verso questo ritorno. Gli “anarchici verdi” e i neoprimitivisti contrari alla civiltà, o almeno alcuni di loro, sembrano muoversi verso un nuovo polo di attrazione, il nichilismo. Forse “neonichilismo” è un’etichetta migliore, visto che questa tendenza non replica semplicemente il nichilismo dei narodniki russi o degli attentati francesi del periodo 1890-1912, per quanto i nuovi nichilisti guardino ai vecchi come loro precursori. Condivido la loro critique, per dirla tutta credo di averla rispecchiata in gran parte in questo saggio, ma ciò che non capisco è la loro proposta, se ce n’è una.
«Che fare?» era originariamente uno slogan nichilista, dopo tutto, prima che Lenin se ne appropriasse. Presumo che la mia prima opzione, l’escapismo passivo, non vada bene. Per quel che riguarda l’escapismo attivo, usare il suffisso -ismo implica qualche forma non solo di ideologia ma anche d’azione. Qual è la conseguenza logica di questo ragionamento?
Da animista esperisco il mondo, la civiltà esterna, in modo essenzialmente senziente. La morte di Dio significa la rinascita degli dèi, come faceva intendere Nietzsche nelle sue ultime lettere da Torino – la risurrezione del grande dio Pan, di Caos, Eros, Gaia e l’Antica Notte, per dirla con Esiodo. L’anarchia ontologica, il desiderio, la vita stessa e l’oscurità della rivolta e della negazione – tutto mi sembra ugualmente reale. Aderisco ancora a un certo tipo di anarchismo spirituale, ma solo in quanto eresia e paganesimo, non come ortodossia e monoteismo. Ho un gran rispetto per Dorothy Day – la sua scrittura mi ha influenzato negli anni sessanta – e per Ivan Illich, che ho conosciuto personalmente, ma alla fine non sono in grado di gestire la dissonanza cognitiva tra l’anarchismo e il Papa. Ciò nonostante posso credere nella ripaganizzazione del monoteismo. Mi aggrappo a questa tradizione pagana perché sento che l’universo è vivo, non “materia inerte”. In quanto psiconauta da tutta la vita, ho sempre creduto che la materia e lo spirito siano la stessa cosa, e che questo fatto da solo basti a legittimare ciò che la teoria chiama “desiderio”.
Non si può andare avanti ma bisogna andare avanti. Coltivare boccioli di rosa, persino piaceri egoisti, finché rimane qualche uccello e qualche fiore. Anche l’amore forse potrebbe non essere impossibile.
Da questo punto di vista l’espressione «rivoluzione della vita quotidiana» mi sembra ancora avere qualche validità, anche solo nei termini della seconda opzione, l’escapismo attivo della TAZ. Per quel che riguarda la terza possibilità, la vendetta di Zarathustra, questa mi pare una strada possibile per il nuovo nichilismo, almeno da una prospettiva filosofica, ma siccome non sono in grado di sostenerla personalmente, lascio la domanda aperta.
Qui penso si trovi il punto nel quale la mia prospettiva incontra e allo stesso tempo diverge dal nuovo nichilismo. Anch’io credo che il capitalismo predatorio abbia vinto e nessuna rivoluzione sia più possibile nel senso classico del termine. Ma per qualche ragione non riesco a essere “contro tutto”. Nella TAZ sembra ancora persistere la possibilità di una “vita autentica”, foss’anche solo per un momento, e se questa posizione si rivelasse puro escapismo, allora lasciateci essere Houdini. Il rinnovato interesse per l’individualismo è ovviamente una risposta alla morte del sociale. Ma il nuovo nichilismo implica anche la morte dell’individuo e dell’“unione degli egoisti” o degli spiriti liberi nietzschiani? Nei giorni in cui mi sveglio bene, voglio pensare di no.
Non importa quale dei tre percorsi si intraprenda, quelli o altri che non sono in grado di immaginare. Mi sembra che l’essenziale sia non collassare nella mera apatia. Forse dobbiamo accettare la depressione, e forse anche la rabbia impotente e il pessimismo sulla possibilità della rivoluzione. Ma come ha detto il poeta anarchico e.e. cummings, «c’è della merda che non mangeremo» a meno di non diventare noi stessi il nemico.
Non si può andare avanti ma bisogna andare avanti. Coltivare boccioli di rosa, persino piaceri egoisti, finché rimane qualche uccello e qualche fiore. Anche l’amore forse potrebbe non essere impossibile.