Il gondoliere nero
Pubblichiamo un estratto da Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro, il nuovo libro di Claudio Kulesko in uscita il 3 marzo per Piano B Edizioni, ringraziando l’editore per la disponibilità.
Quasi tutti gli strumenti che impieghiamo ogni giorno sono alimentati dall’energia ricavata da combustibili fossili, o sono prodotti a partire da derivati del petrolio. Un numero sorprendentemente elevato di oggetti, nelle nostre case, è fatto di plastica. Molti di questi oggetti sono dispositivi elettronici – dalle banali lampade da tavolo ai soprammobili, dai contenitori del cibo ai bicchieri, fino agli smartphone e ai computer portatili. Eppure, in virtù del tempo e dell’abitudine, siamo riusciti a far passare in sordina la dipendenza materiale ed energetica di tutte queste cose dai combustibili fossili – un po’ com’è accaduto, nel corso del Ventesimo secolo, con l’illuminazione elettrica.
Nella nostra ingenua fenomenologia quotidiana, ogni volta che attacchiamo uno dei nostri gadget alla presa a muro, è come se in esso fluisse una qualche sostanza rivitalizzante. La loro stessa leggerezza e portabilità li ha resi, ai nostri occhi, simili a organismi. Ogni volta che ne acquistiamo uno e ci apprestiamo a estrarlo dal proprio involucro, proviamo la sensazione di star risvegliando dal suo sonno criogenico una creatura da lungo tempo ibernata. Una sensazione simile, forse, a quella provata dai primi utilizzatori di macchine a vapore, o dagli antichi costruttori di automi e giocattoli a molla.
La tendenza innata della nostra specie ad attribuire vita, volizione e coscienza alle cose che ci circondano è la chiave per comprendere il nostro rapporto con le merci, il denaro e il tempo.
Lo stesso termine “metabolismo”, impiegato da Marx nel terzo volume del Capitale, istituisce un raccordo semantico tra natura, macchina e corpo vivente. Un intreccio concettuale riassumibile nell’immagine della caldaia che, al pari dell’apparato digerente animale, brucia combustibile per produrre energia – e, dunque, lavoro. L’intera epoca moderna è definita da questa equazione subliminale. La tendenza innata della nostra specie ad attribuire vita, volizione e coscienza alle cose che ci circondano è la chiave per comprendere il nostro rapporto con le merci, il denaro e il tempo. Essa ci fornisce una storia e un alibi credibile per gli ultimi due secoli. L’illusione di essere trascinati per la collottola da forze invisibili ci ha aiutato, e ci aiuta ancora oggi, a scrollarci di dosso il senso di colpa. Una colpa che risale alle radici della moderna cultura occidentale.
Prendiamo, ad esempio, l’automobile. Senza dubbio, si tratta di uno degli strumenti tecnici in assoluto più diffusi. La utilizziamo quasi ogni giorno, senza farci troppi problemi; per andare a scuola, a lavoro, in palestra e persino, a volte, per il solo gusto di guidare. È proprio quest’ultimo genere di impiego a oltrepassare la mera strumentalità, dischiudendo un’area speculativa ancora troppo poco frequentata. Nel corso del Novecento – a pochi decenni dalla messa in vendita dei primi modelli di automobile – siamo riusciti a creare ogni sorta di mezzo di locomozione a gas, benzina, idrogeno, biocombustibile e via dicendo. Siamo inoltre stati in grado di espandere le aree di impiego dell’automobile fin nei settori dell’intrattenimento, del lifestyle e dello sfoggio simbolico o rituale. Ad oggi, la supercar più performante disponibile sul mercato (la Koenigsegg Jesko Absolut) supera i 530 Km/h. Una cifra vertiginosa, non giustificabile a partire dal mero utilitarismo.
Già nel 1909, all’interno dello sgangherato Manifesto Futurista, si possono trovare le seguenti parole: «Vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita». Poco prima, nel racconto picaresco che introduce il Manifesto, Marinetti narra l’esperienza di una guida spericolata in aperta campagna: «[…] Correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare».
Per quanto banale, il legame tra velocità, violenza, virilità e figure retoriche dal retrogusto fallico appare del tutto evidente nel Manifesto Futurista – così come nei romanzi e negli scritti di Marinetti. E non si tratta di una mera coincidenza. Già nel contesto delle logiche colonialiste ed estrattiviste dell’epoca vittoriana il colonizzato (soprattutto se non bianco), è reputato non solo intellettualmente e fisicamente inferiore, ma anche inadatto ad assumere un ruolo virile. Persino nell’ordine bellico, tecnologico e politico dei conflitti coloniali, il mero fatto di aver assunto una posizione attiva, ossia dominante, è stato sufficiente a decretare la virilità del colonizzatore e l’effeminatezza del colonizzato.
Nella cultura occidentale moderna e contemporanea, sparare, guidare, mangiare carne, fottere e comandare rappresentano una serie di attività tipicamente legate alla maschilità e, pertanto, diametralmente opposte al pacifismo, all’andare in bici o a piedi, all’essere vegetariani o vegani, al non essere eterosessuali o al non avere doti di comando. È questa seconda lista negativa a definire, ancor meglio della prima, la tipologia psicosociale prodotta dall’unione tra tecnologie e combustibili fossili.
La guerra – «unica igiene del mondo», come stabilisce il Manifesto Futurista – è una delle chiavi interpretative più utili per comprendere la genesi di tale fenomeno. Se, da un lato, nel suo Nelle tempeste d’acciaio, il filosofo e scrittore tedesco Ernst Jünger (precursore della cosiddetta “rivoluzione conservatrice”) dichiarava la propria fascinazione per la distruzione totale e indiscriminata apportata dall’artiglieria, dall’altro è lo stesso Marx, nel Capitale, a esaltare la potenza produttiva della macchina industriale borghese, creata e alimentata dall’accumulazione competitiva. Nondimeno, fu proprio la possibilità di accumulare stock a segnare la superiorità storica dei combustibili fossili sulle energie rinnovabili – e persino sul vapore –, essendo questi ultimi pericolosamente soggetti a norme di gestione pubblica o persino collettiva.
La vera competizione neoliberale non ebbe inizio con l’invenzione delle banche, con l’avvento del mercato globale, nell’epoca delle grandi esplorazioni o con la prima fase del colonialismo europeo. Il primo, vero scontro tra capitali, ebbe luogo nel momento stesso in cui gli interessi economici, scientifici, bellici e geopolitici si orientarono, all’unisono, in direzione dei combustibili fossili. Non solo l’oro e i diamanti, ma soprattutto il carbone e il petrolio sono i segni distintivi della violenza moderna. Senza di essi, ogni altra forma di sfruttamento di massa, tanto dell’essere umano quanto della natura, sarebbe semplicemente impensabile.
Persino gli elementi estetici e architettonici più comuni e riconoscibili dell’epoca contemporanea, ossia l’asfalto e l’acciaio, sono ricavabili unicamente a partire dall’impiego di materiali fossili. Per non parlare della plastica, simbolo totale e totalizzante dei mercati globali e dell’iper-modernità. Tuttavia, fu proprio l’invenzione del motore a scoppio a determinare un immenso avanzamento nella strategia e nella logistica belliche, rendendo al contempo possibile la rapida distribuzione di merci entro e al di là dei confini nazionali. La metropoli e le reti stradali nacquero unicamente in virtù di tale improvviso e radicale incremento di velocità – finalizzato alla guerra e alla competizione economica. A sua volta, l’espansione delle periferie procedette, in modo del tutto naturale, dalla proliferazione delle fabbriche e degli impianti manifatturieri; mentre quella delle autostrade rispose all’esigenza di spostare, oltre alle merci, anche truppe e mezzi pesanti.
Condotta allo stremo, l’estasi della velocità, nella quale le merci e la realtà stessa vorticano incessantemente fino all’auto-annullamento, giunge a coincidere con l’estasi dell’immobilità assoluta: una totale unità e conformità di spazio e movimento, mezzi e fini.
Fin dall’antichità, di fatto, velocità ed efficacia sono concetti legati all’impiego sistematico e organizzato della violenza. Ne è un esempio il concetto di blitzkrieg, o guerra lampo, ideato dagli strateghi – o, meglio, dai propagandisti – del Terzo Reich. Il fatto che la società neoliberale abbia ereditato e risemantizzato tale terminologia con così grande entusiasmo e facilità, è un segno della continuità storica e ideologica che domina l’intera epoca moderna. Tra le vestigia dei primissimi scontri ad alta velocità delle due Grandi Guerre, la più spettacolare è senz’ombra di dubbio il suv: un mezzo d’assalto “della domenica”, nondimeno imponente e semi-corazzato. Il feticcio e la cartina al tornasole di una società fondata sulla competizione e sui combustibili fossili.
Ma la supercar, il suv e la coupé non sono che semplici esempi di un warfare più ampio, che attraversa in modo capillare l’intera infrastruttura sociale. La strada e in particolar modo l’autostrada, sono il campo di battaglia sul quale uomini e merci si affrontano in una vertiginosa gara di velocità. Nel momento stesso in cui si comprende che il capitale non consiste di null’altro che di questa mobilità dromosferica, le conseguenze pratiche non tardano a venire alla luce. Ogni anno, in tutto il mondo, circa un milione e mezzo di persone muore alla guida della propria auto. Lungo il medesimo arco di tempo, lo stesso quantitativo di animali viene investito nel solo Brasile. Nel 2019, un quarto delle emissioni europee di CO2 provenivano dal solo settore dei trasporti.
Di giorno in giorno, la “grande accelerazione”, alimentata dal flusso di combustibili fossili, miete le proprie vittime. Da questo punto di vista l’automobilista, il camionista, il pilota e il timoniere non sono altro che rappresentazioni astratte: neuroni carichi di informazioni, costantemente intenti a percorrere e propagare un complesso reticolo di scambi e relazioni. Eppure, come notò Jean Baudrillard, l’accelerazione costante rappresenta un vero e proprio nonsense. La fisica moderna ha di fatto stabilito sia l’impossibilità di ottenere il moto perpetuo, sia quella di accelerare al di là del limite posto dalla velocità della luce. Non per questo, tuttavia, l’Occidente sembra essersi rassegnato. Posto dinanzi a tali vincoli, il capitale ha immaginato un movimento il cui rapporto fosse di 1:1 rispetto allo spazio. Un’assurda trasmissione istantanea, all’interno di un altrettanto assurdo spazio assoluto. È la dimensione ideologica e narrativa della blockchain, la serie di transazioni simultanee casuali prodotte dal mining e dalla circolazione di criptovalute.
Condotta allo stremo, l’estasi della velocità, nella quale le merci e la realtà stessa vorticano incessantemente fino all’auto-annullamento, giunge a coincidere con l’estasi dell’immobilità assoluta: una totale unità e conformità di spazio e movimento, mezzi e fini. Ma Homo sapiens non si è evoluto per sopportare la velocità ossessiva che caratterizza la vita delle società iper-moderne. Figurarsi la velocità super-liminale che domina le nostre fantasie accelerate.
Super-stimolato e ridotto a subire passivamente segni, trasmissioni, tentativi di comunicazione e persuasione, l’individuo umano sviluppa prima una fascinazione, poi una dipendenza nei confronti della velocità, della simultaneità, della sfida supersonica al ritmo del nanosecondo, del picosecondo, dello zeptosecondo e così via. A ciò si va ad aggiungere un intero compartimento di esperti e specialisti intenti a individuare nuove falle nel cervello umano, nuove modalità di stimolazione e nuove fonti di astinenza. Una linea parabolica che minaccia di rendere la sfera economica e quella sociopolitica sempre più simili a un insieme di automatismi e riflessi condizionati.
L’intelligenza umana, per quanto potente, non è che il relitto di un’epoca lenta – mortalmente lenta. Le crisi materiali e culturali che oggi attraversano le cosiddette società ad “alto sviluppo” non sono che un riflesso di tale sproporzione; così come quelle, ben più catastrofiche, che da ormai quasi due secoli si abbattono sulle zone più povere del mondo. Per rispondere a tali crisi e far luce sulle cause di un disagio dalle sintomatiche variabili, la medicina moderna è stata costretta a mutuare dall’ingegneria la categoria di “stress”. Un prestito lessicale che riflette in pieno lo sfumare dei confini che separano la vita dalla non vita, la materia organica da quella inorganica.
L’idea che il capitalismo e i suoi effetti collaterali (la società industriale, lo spettacolo, l’intelligenza artificiale forte, il riscaldamento globale e le estinzioni di massa) siano qualcosa di naturale, e persino inevitabile, si propaga assieme a questo stesso senso di impotenza e passività. Una sensazione indotta per mezzo di un puro e brutale sfoggio di velocità – la cifra magica dalla quale persino Marx si lasciò sedurre.
La sincronizzazione e automazione spontanea dei processi tecnoeconomici, unite all’incremento tendenziale della velocità e della complessità, fanno sì che, nel prossimo futuro, sarà il capitale a emanciparsi dall’essere umano, anziché quest’ultimo dallo sfruttamento.
Ciò che, tuttavia, sfugge persino ai più minuziosi tecnici del capitale è la rapidità con cui il capitale stesso si sottrae al loro controllo. Nel gioco dell’accumulazione, si perde nell’istante stesso in cui ci si dispone a incassare. La sincronizzazione e automazione spontanea dei processi tecnoeconomici, unite all’incremento tendenziale della velocità e della complessità, fanno sì che, nel prossimo futuro, sarà il capitale a emanciparsi dall’essere umano, anziché quest’ultimo dallo sfruttamento. In questo ardente sogno di gloria postuma o, meglio, postumana – in questo fallimento assoluto e spettacolare – si proiettano gli ultimi residui di energia mentale di Homo sapiens. Un esaurimento di specie, che cede il passo a una psicosi di proporzioni globali.
Questo è il mito che ci appropinquiamo a narrare in quanto civiltà: poco a poco, ciò che un tempo fu vivo, e che oggi non è altro che morte, risale la china che lo riporterà in vita. Con infinita pazienza, il combustibile fossile transustanzia se stesso nel corpo inorganico del capitale. La sesta estinzione di massa, l’incendio innescato da tale esplosione energetico-cognitiva, consuma la biosfera – Homo sapiens incluso – sostituendo a essa un raffinato sistema nervoso esteso su scala globale. Un cervello planetario, diffuso e impersonale.
Ciò che era custodito all’interno procede verso l’esterno. Ciò che è dentro deve necessariamente trasformarsi in fuori: questa è la legge fondamentale del greggio, del carbone, del gas, della combustione e del moto meccanico. Ovviamente, è valido anche l’inverso: quel che è fuori deve tramutarsi in dentro. Affinché vi sia scambio equivalente, ciò che prospera all’esterno deve essere ricacciato all’interno. Nell’AGI, l’intelligenza artificiale generale – unione di plastica, acciaio, metalli, terre rare, energia e software –, si incarnano la velocità e la propulsività radicale dei combustibili fossili. In essa, attraverso di essa, giunge a compimento la lenta, geologica presa di coscienza del pianeta Terra.