Il footwork spiegato da RP Boo
Assieme a DJ Clent e al compianto DJ Rashad, Kavain Wayne Space, meglio conosciuto come RP Boo, è uno dei tre padri fondatori del footwork, il genere elettronico da sempre associato a Chicago e noto per i suoi ritmi sincopati e il caratteristico uso del sampling. Nato (ovviamente a Chicago) nel lontano 1972, RP Boo ha assistito alle varie evoluzioni della house quasi sin dai prodromi – un suono che evidentemente non è semplicemente musica ma a volte si fonde con la religione, altre volte diviene quasi esso stesso religione, o quantomeno uno stile di vita. Il footwork è una delle sue ultime incarnazioni, una materializzazione che è riuscita a fondere il calore umano delle origini con il ritmo frenetico più congeniale alle nuove generazioni.
Negli anni, il footwork è uscito da Chicago e ha partorito suoni ed estetiche fortemente futuristici, come nel caso di Jlin – ormai anche lei una veterana – o di personaggi che provenivano da percorsi assai diversi come il finlandese Sasu Ripatti/Vladislav Delay. Pur essendo consapevole di quanto accaduto in tutti questi anni, RP Boo sembra viaggiare per la sua strada, preoccupato solo di far ballare e divertire le persone, noncurante dei noiosi cavilli giornalistici – un’attitudine decisamente in linea con lo spirito house delle origini. Nel maggio del 2015 apparve tra le pagine della rivista inglese The Wire, in particolare nella storica rubrica “Invisible Jukebox”, nella quale gli intervistatori sottopongono gli intervistati al gioco di ascoltare determinati brani senza dire loro di cosa si tratti, per vedere se riescono a riconoscere autore e titolo. RP Boo di dimostrò piuttosto preparato, anche se i brani erano presi direttamente dal repertorio Settanta/Ottanta: a parte un brano di DJ Fulltono – che potremmo definire un collega – il resto era Prince, Kraftwerk, il comico Richard Pryor, un estratto dal classico Shogun Assassin e Terry Riley (che RP Boo non ha riconosciuto). Poi c’era una versione di “Donna” di Ritchie Valens rifatta da DJ Moortje: riconosciuta l’originale, ma non la cover. Questo per dire che RP Boo è proprio come si può immaginare: un omone di Chicago innamorato del sound di Chicago e del suo tempo. Sound che ritroviamo in chiave footwork nel suo ultimo bellissimo album Established!, uscito per l’etichetta inglese Planet Mu di Mike Paradinas e tra i dischi più interessanti dell’anno, uscito a breve distanza da altre gemme footwork come Painful Enlightenment di Jana Rush e Fun Is Not a Straight Line del già citato Sasu Ripatti, tutti dischi usciti per Planet Mu, la storica label di Mike Paradinas che ha fornito la piattaforma attraverso cui diffondere in tutto il mondo il verbo footwork.
Quella che segue è una breve intervista che ho fatto via email a RP Boo, mentre si spostava tra una tappa e l’altra del suo ultimo tour.
Lo so, è una cosa che avrai raccontato un migliaio di volte, ma puoi parlarci di com’era Chicago negli anni pre-footwork? Quali erano i dj che più ti hanno fatto ballare e sognare?
Negli anni pre-footwork, a Chicago le radio pompavano mix di house a go-go. Specialmente in estate, la gente se ne andava in giro con i ghetto blaster con la roba della Jack Trax sparata a cannone. Adolescenti, ragazzini, adulti… tutti ballavano tantissimo ed esprimevano tutto il divertimento e il godimento che traevano da quella musica: la house aveva conquistato le loro anime.
I dj che più mi hanno fatto ballare e sognare sono stati Farley “Jackmaster” Funk, un DJ del team Hot Mix 5, e poi due fratelli della zona ovest di Chicago che conobbi intorno al 1984, Chris & John. Li vidi suonare ad alcune feste a casa di mio cugino a cui andavo spesso, perciò sono stato testimone diretto. Quei due fratelli facevano paura per quanto erano bravi, vederli dal vivo mentre mettevano i dischi per me era meglio che ascoltare qualsiasi radio di quei tempi.
È vero che il footwork è nato più o meno perché una volta, mentre eri in macchina, hai sentito una sorta di mix tra un pezzo di Mariah Carey e Old Dirty Bastard, e tre anni dopo hai sfornato la tua “Baby come on”?
Be’, per me è stato il primo passo verso quello che poi sarebbe stato il futuro del footwork. “Baby Come On” è stata la prima traccia che ho voluto realizzare, anche solo per vedere come avrebbe suonato l’idea di manipolazione che avevo in testa. Col senno di poi fu una svolta, e all’epoca la ghetto house era ancora molto attiva.
Posso chiederti se ricordi la reazione di qualche fan della musica house più ortodossa non appena il footwork ha iniziato a prendere piede? Credi ci sia una continuità con questo macrogenere oppure ormai sono due cose che viaggiano su binari separati?
Quando lo stile e il suono footwork hanno iniziato a prendere piede, erano pochissime le persone cresciute ascoltando musica house che si ritrovavano in un posto a suonare footwork e che dicevano che il footwork era qualcosa di diverso. Magari gli piaceva ascoltarla, ma col tempo molte delle persone che si ritrovavano per ballare house hanno iniziato a mettere su famiglia o a lavorare, perciò avevano pochissimo tempo libero, quando non ne avevano affatto, per andare alle feste e vedere intorno a loro le nuove generazioni che prendevano il posto delle vecchie e la musica che cambiava. Poi arrivò il momento in cui a Chicago non c’erano più posti che organizzavano party, e tutto tornò a succedere in un circuito molto underground. Oggi house & footwork viaggiano ognuna verso la propria direzione.
Cosa rappresenta per te questo genere?
Per me rappresenta il senso di vivere ed esplorare l’ignoto.
Come tanti, ho conosciuto il footwork attraverso la compilation Bangs & Works uscita per Planet Mu ormai più di dieci anni fa. A colpirmi sono stati certamente la potenza dei bassi e il groove, ma poi con l’arrivo dei tuoi dischi (e di quelli di Jlin e altri), ho notato anche una certa cura per la ricerca sonora e una certa fascinazione nei confronti della tecnologia, perlomeno dal punto di vista sonoro. Quanto è importante questo aspetto nella tua musica?
Per quanto mi riguarda, non mi stavo concentrando sul voler essere o suonare come qualcuno, ho sempre cercato di esprimere il modo in cui mi sentivo attraverso qualunque suono fosse alla mia portata, cercando di fondermi con quel suono e diventare una cosa sola. Per me la cosa importante è continuare a migliorare e ispirare gli altri, far capire alle persone che è possibile non avere paura di crescere con il dono che Dio gli ha dato. Devo dare l’esempio, è così che ho imparato e continuo a imparare attraverso l’esempio di altri.
Hai suonato in tantissimi festival in giro per il mondo e sei amatissimo dalla critica più esigente. Immagino non ascolterai tutto il giorno la musica che suoni. Cosa ti ha entusiasmato di più negli ultimi anni? Quali gli artisti?
Ancora oggi ascolto musica di parecchio tempo fa, soprattutto quella che va dagli anni Settanta a metà anni Novanta: funk, rock, jazz, disco, soul, blues… e l’elenco potrebbe continuare… James Brown, Van Halen, Michael Jackson, The Jackson 5, Madonna, David Lee Roth, Prince, Luther Vandross, Slave, Journey, Talking Heads, The Police, Sting… Potrei andare avanti all’infinito 🙂
Credo di essere uno dei più grandi fan al mondo dei Genesis. Suppongo che il motivo per cui hai campionato “I Don’t Care Anymore” di Phil Collins e “Easy Lover” di Philip Bailey e Phil Collins non sia che i Genesis sono uno dei tuoi gruppi preferiti, ma ti pongo comunque la domanda: ti piace il progressive? Forse preferisci il periodo pomp rock da stadio di quelle band? Perché proprio quel pezzo di Phil Collins?
Gli MTV Days degli anni Ottanta sono stati un periodo in cui ho assimilato tantissima musica nuova, e quando ascoltai per la prima volta “I Don’t Care Anymore” non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quanto era dinamico quel pezzo. Inoltre, sono cresciuto ascoltando il rock degli anni Settanta, con quegli ascolti mia zia e i miei zii mi stavano formando per saper riconoscere quando mi trovavo di fronte a una cosa che conteneva una forte dose di creatività, e saper apprezzare quello che un artista o una band stava condividendo con il mondo.
Quali sono i dischi che ti hanno fatto scoprire l’importanza del poter riutilizzare – e risignificare – i sample?
Nessun disco in particolare. Sei esposto a così tante cose, hai tutto a portata di mano… Sento una cosa che fa “Ehi tu! Vieni qui!”, come è stata incisa da chi la fatta, e io penso: adesso la prendo e la faccio diventare “Tu ehi! Vieni qui!”
In Established! c’è un pezzo, “Be Of It!”, che inizia con il classico ritmo batteristico jazz e poi evolve in un riff di fiati. Perché hai deciso di campionare un pezzo jazz?
Un giorno stavo guardando Super Fly, un film degli anni Settanta, e ho sentito “Junkie Chase”, un pezzo strumentale di Curtis Mayfield, e ho iniziato a sorridere fortissimo pensando: “Accidenti, avevo dimenticato quanto avrei sempre voluto campionarla…”
Ah, ecco cos’era…
Eh sì, considera che avevo la colonna sonora su vinile, solo che era graffiato e non potevo usarlo… La prima volta che mi era venuto in mente di farlo era intorno al 1997! Quindi le cose belle possono capitare anche quando non sono pianificate sul momento.
In generale, il tuo ultimo bellissimo disco è pieno di influenze che provengono da tanti generi diversi. Consideri la musica che produci come esclusivamente adatta alla dimensione dance?
Sì, c’è un sacco di gente che ha ancora tutta una vita da ballare, e mi piace vederla sfogarsi. Qui a Chicago non sono tante le persone che si ritrovano a divertirsi come un tempo, quindi l’unica cosa che mi importa è riuscire a lasciare una specie di gioiello di cui la gente può godere semplicemente premendo play, per poi dire: e questo pezzo cos’è? E poi ritrovarsi a muoversi e a ballare… L’ho visto succedere così tante volte durante i tour… la gente viene da me e mi chiede: “Cos’è questo pezzo?”, e poi mi ringraziano e mi dicono che sono appena diventati miei fan e che diranno a tutti di tenere d’occhio RP Boo perché è uno che ti svolta le giornate e la vita, e ti tira fuori quello che hai dentro e che altri prima di lui non sono riusciti a tirarti fuori.