Il femminismo o la morte
Quando sentiamo parlare di ecofemminismo, spesso ci portiamo dietro un grande pregiudizio: pensiamo che consista in un’idea di cura dei territori a partire dal materno e dalla “natura” della donna. In realtà, di ecofemminismi, così come di femminismi d’altronde, ne esistono di diversi, ma di certo partono da un assunto comune: il sistema capitalista patriarcale utilizza sia la produzione che la riproduzione – umana e non – per estrarre valore; terre e corpi emergono così come risorse e campi di conquista fondamentali del sistema antropocentrico. A coniare per prima il termine ecofemminismo è stata Françoise D’Eaubonne con il suo testo del 1974 Il femminismo o la morte. Manifesto dell’ecofemminismo. Un titolo dirompente, ieri come oggi. Non ha mezze misure, D’Eaubonne, ce lo dice chiaramente: senza pratiche femministe, il mondo è destinato al collasso.
Come la buona pratica femminista insegna, non può esserci presa di parola senza situarci. Per cui, comincio questo breve dialogo con D’Eaubonne e il suo testo posizionandomi da donna bianca, transfemminista, precaria del mondo accademico, che ha scelto di non scegliere la maternità. Rientro dunque tra quelle che si sentono spesso rispondere che “sì lo dici adesso che hai 30 anni ma un giorno di certo cambierai idea”, o che “ah povera, hai qualche malattia che non te lo permette”, e via discorrendo. È forse anche per questo che il titolo così potente scelto da D’Eaubonne per il suo manifesto mi ha subito catturata.
D’altronde, D’Eaubonne era già ai suoi tempi un personaggio irriverente: era spigolosa, polemica; non piaceva alla sinistra francese dell’epoca, forse per la sua “contro violenza”, come ci dice Sara Marchesi nell’introduzione alla prima traduzione italiana del testo – e forse dopo l’attacco dinamitardo contro la centrale nucleare a Fessenheim ancora di più – e non piaceva nemmeno tanto alle materialiste francesi. E in realtà, anche rileggendo questo testo è facile oggi storcere a volte il naso, per i suoi approcci niente affatto decoloniali e i toni a tratti universalizzanti.
Che ce ne facciamo allora di questo testo? Perché rileggerlo oggi? In realtà, il punto è che D’Eaubonne un piano lo aveva eccome, e il suo manifesto ci permette di intessere dei nodi importanti per le nostre battaglie odierne. Ci aiuta, soprattutto, a immaginare e praticare un mondo fuori dalla violenza patriarcale capitalista. Che poi, è questo il compito che abbiamo da transfemministe, dentro e oltre i movimenti, negli spazi che abitiamo, da quelli del mondo del lavoro a quello pubblico e privato. E probabilmente soprattutto in un momento come questo, in cui gli attacchi alla 194, alle GPA, ad altre forme di famiglia, ai corpi delle donne, ai diritti delle comunità LBTQIA+, al reddito, alla possibilità di contestare una ministra al Salone del libro, al diritto vero alla vita mentre ci uccidono tutti i giorni, sembrano aggravarsi di giorno in giorno.
Perché il femminismo dovrebbe occuparsi della distruzione dell’ambiente? Non per biologia, non per natura, né per metafisica o essenzialismo: è la costruzione sociale e culturale a determinarci.
D’Eaubonne mi ha fatto pensare a tre nodi da intessere con il suo testo, coltivati e ricamati però. La genealogia e la politica femminista della citazione e del debito è fondamentale, poiché ogni nodo ci posiziona nella tessitura di un pensiero che continua a intessersi e relazionarsi. Per cui, dato che nessuna pensa mai da sola, ho bisogno di dire che le mie riflessioni non sono solo mie, ma sono coltivate dentro quella marea transfemminista e quel cantiere aperto di farsi e disfarsi quotidianamente che per me è Non una di Meno Palermo e tutte le sue compagnə politiche di viaggio – come il Palermo Pride.
Ma d’altronde, lo stesso valeva forse per il manifesto di D’Eaubonne, che viene fuori dalla sua militanza nel Front de libération nationale algerino, nel Mouvement de libération des femmes, nel Front homosexuel d’action révolutionnair e non ultimo il Mouvement écologie-féminism. Teoricamente, e quindi politicamente, queste righe si intessono invece alle riflessioni di pensatrici come Haraway, Lorde, Anzaldua, Davis, Federici e ai testi di femministe che lavorano da tempo sulla giustizia riproduttiva come Timeto, Balzano e le molte altre che qui non riesco a citare. Tre piccolissimi nodi per dialogare con il manifesto dell’ecofemminismo. Un testo visionario, che visualizza il futuro a partire da due tesi principali: la folle crescita demografica, la distruzione dell’ambiente.
(Ecotrans)femminismo o la morte!
Perché il femminismo dovrebbe occuparsi della distruzione dell’ambiente? D’Eaubonne aveva le idee chiare su questo. Non per biologia, non per natura, né per metafisica o essenzialismo: è la costruzione sociale e culturale a determinarci. E a determinare l’oppressione è una società hétéroflic, eteropoliziesca e fallocratica, dice D’Eaubonne, che ha deciso che “l’uomo è A e non può essere B, la donna è B e non può essere A”. E quante strutture ancora oggi, quanti uomini, quante associazioni, quante ministre, quante donne a guardia di questa struttura eteropoliziesca!
E che significa d’altronde essere donna? Un malheur, risponde D’Eaubonne, una disgrazia: “Questa carne da stupro, questo oggetto che sembra un essere, questo zombie, questa negatività, questo buco: sono io. Non ci siamo nate, lo siamo diventate”. Nel 1974, D’Eaubonne, da visionaria qual era, aveva già chiaro che le origini dell’oppressione sono di tipo politico, religioso, economico, sociale. “Oggi rifiutiamo radicalmente la spiegazione biologica o quella essenzialista”, scriveva. “Non esiste la donna per essenza più di quanto non esistano il proletario predisposto all’essere o il delinquente nato se non nelle affascinanti fantasie di Lombroso”.
Chissà cosa ne penserebbe oggi, a distanza di quasi 50 anni, dei conflitti ancora esistenti dentro certi femminismi, in nome di una presunta identità biologica. D’Eaubonne rispedisce al mittente anche i not all men che ancora ci troviamo a combattere: “vi restituisco educatamente tutti questi biglietti teatrali”. Ma non perché gli uomini sono tutti “oppressori o potenziali minacce”, ma perché il tema è sempre l’oppressione, e se non si è in grado, o non si ha la volontà, di comprendere che no, non siamo tuttə uguali, in termini di soggetti, di posizionamento, di oppressioni, mio caro, hai un problema, e della santità dell’individuo non ce ne facciamo proprio nulla.
Se siamo in grado di riconoscere che non siamo tuttə uguali a partire dai privilegi e le oppressioni iscritte nel nostro corpo, e che il capitalismo utilizza la classe, il genere, la razza come gerarchie multiple per dividere, dominare e sfruttare i corpi e i territori, allora possiamo immaginare e praticare altri futuri possibili.
E tuttavia, se da una parte leggendo Il femminismo o la morte non possiamo che ammetterne visionarietà e futuribilità, al contempo non possiamo non rilevarne universalismo e occidentalismo. Nella prefazione all’edizione francese, le ecofemministe radicali Myriam Bahaffou e Julie Gorecki fanno emergere e rispondono colpo su colpo alle problematicità e alle criticità del testo, nell’ottica di “ridefinire l’ecofemminismo interrogando la bianchezza insita nella sua storia”. Ai buchi “bianchi” dell’ecofemminismo di D’Eaubonne oggi potremmo rispondere con: (ecotrans)femminismo o la morte!
L’ecotransfemminismo è un’ecologia situata che parte dal transfemminismo come motore del mondo, non per una natura o un’essenza che ci rende propense alla cura e al materno, ma perché le nostre teorie, pratiche e relazioni puntano a demolirla questa casa del padrone, e non a cambiarla, come insegna Audre Lorde. Perché il transfemminismo assume la costruzione di alleanze a partire dalle soggettività ai punti massimi di intersezione delle oppressioni del capitale: se siamo in grado di riconoscere che non siamo tuttə uguali a partire dai privilegi e le oppressioni iscritte nel nostro corpo, e che il capitalismo utilizza la classe, il genere, la razza come gerarchie multiple per dividere, dominare e sfruttare i corpi e i territori, allora possiamo immaginare e praticare altri futuri possibili.
Un solo no, ma molti sì, insegna il movimento zapatista. E allora per costruire questa ecologia radicale e situata, l’ecotransfemminismo deve assumere necessariamente le prospettive decoloniali, con spazi di parola e posizioni di ascolto respons-abili, costruiti a partire dai saperi e le pratiche dei femminismi indigeni e comunitari. Rompere la colonialità, costruire mondi: non per la proprietà, ma per la ridistribuzione e la socializzazione delle risorse; non per lo sfruttamento, ma per relazioni altre e parentele; non per la produzione di morte, ma per modi altri di con-vivere e vivere e morire bene.
Niente da estrarre: sciopero dei ventri e giustizia riproduttiva
L’altro grande tema del manifesto dell’ecofemminismo di D’Eaubonne è la minaccia alla sopravvivenza determinata dalla folle crescita demografica imposta dal maschio. La sua posizione nasce dato un dato materiale: la proiezione che entro il 2000 si sarebbero raggiunti i 6 miliardi di esseri umani sulla terra. Una quantità, secondo l’autrice, chiaramente insostenibile per il pianeta. Ci aveva visto lungo, D’Eaubonne. La popolazione mondiale attuale è di quasi 8 miliardi e le stime prevedono che si potrebbero raggiungere quasi 10 miliardi nel 2050. Un numero materiale, questo, che andrà cioè a gravare sulla materialità delle risorse, delle sostenibilità e soprattutto sulle vite e le morti di certi corpi e di certi territori. A D’Eaubonne preoccupava soprattutto il fatto che avrebbe gravato su quella minoranza che in realtà all’epoca rappresentava la maggioranza della popolazione, il 52% di donne. Oggi l’indice di mascolinità è nettamente superiore, non soltanto per percentuale di presenza chiaramente, ma anche se guardiamo alle forme di avanzamento della violenza patriarcale.
“Le due minacce di morte più immediate al tempo presente sono la sovrappopolazione e l’esaurimento delle risorse”, ed entrambe queste minacce sono connesse per D’Eaubonne alla scoperta che ha dato il potere agli uomini cinquanta secoli fa, ovvero possedere la riproduzione, della terra e dei corpi: “Sequestrati il suolo, quindi la fertilità (più tardi l’industria) e il ventre della donna (cioè, la fecondità) era logico che il sovrasfruttamento dell’una e dell’altra avrebbe portato a questo duplice pericolo minaccioso e parallelo: la sovrappopolazione, l’eccesso di nascite e la distruzione dell’ambiente, l’eccesso di prodotti”. Una separazione che d’altronde sappiamo, con Federici tra tutte, avere prodotto quella tra lavoro produttivo e riproduttivo e di conseguenza tra spazio pubblico e spazio domestico, tra recinzioni di terre, saperi, relazioni, commons, per il disciplinamento dei corpi, del lavoro, delle lotte, dei comportamenti, delle sessualità.
Rifiutare la maternità. Rifiutare la riproduzione per un mondo capitalista che guarda all’utero come un pozzo da cui estrarre forza lavoro da mettere in produzione. Riappropriarsi delle risorse, riappropriarsi dell’utero, riappropriarsi della scelta.
Come ribaltare questo rovesciamento? Come far fronte a questa recinzione, a questa separazione? Come ricomporre ciò che è stato separato? Per D’Eaubonne e il gruppo écologie-féminisme rèvolutionaire bisogna rallentare la crescita demografica: è del 1974 l’appel à la grève de la procréation, lo sciopero dei ventri. Rifiutare la maternità. Rifiutare la riproduzione per un mondo capitalista che guarda all’utero come un pozzo da cui estrarre forza lavoro da mettere in produzione. Riappropriarsi delle risorse, riappropriarsi dell’utero, riappropriarsi della scelta. Per sgombrare il campo da ogni dubbio, lo sciopero dei ventri non è un controllo delle nascite o la soppressione definitiva della riproduzione umana, ma la riappropriazione della scelta procreativa e dei diritti riproduttivi. Fuori dalle nostre mutande, insomma.
Ed è chiaro però anche per noi oggi, nella prospettiva ecotransfemminista, che lo sciopero dei ventri è una tra le battaglie. E allora l’interruzione volontaria di patriarcato – che è il nome del corteo nazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito organizzato da Non una di Meno il 6 maggio 2023 ad Ancona – deve necessariamente tenere insieme il diritto all’aborto, lo sciopero dei ventri, la scelta della maternità, della non maternità, le lotte per la contraccezione, la costruzione di parentele e altre forme di (s)famiglie, la fine della colonialità insita nella relazione genere, razza, sanità, la fine della rimozione della riproduzione per il mondo non bianco, la fine della sterilizzazione forzata, la fine del razzismo riproduttivo.
Fare la muta
Françoise D’Eaubonne aveva le idee molte chiare per attuare quella che preferisce chiamare mutazione e non rivoluzione ecofemminista: “una lunga marcia” per la libertà sessuale non più condizionata, che eliminerebbe “l’eterosessualità come norma e struttura di base della società, il sessismo, il lavoro gratuito della casalinga, il colpo di arresto decisivo alla demografia galoppante e alla produttività intensiva per soddisfare falsi bisogni al fine di deviare i veri desideri, e quindi la cessazione del massacro della natura, dell’inquinamento apocalittico e della distruzione dell’ambiente ripreso in mano dalle sole detentrici delle fonti di vita, le donne. Lo spirito rivoluzionario sarebbe superato dall’esigenza primaria del mondo moderno: la mutazione”.
E aveva le idee molto chiare su cosa avrebbe dovuto prevedere questa lunga marcia dalla rivoluzione alla mutazione. “La scomparsa del lavoro salariato (al di là della parità dei salari); la scomparsa delle gerarchie competitive (al di là dell’accesso alle promozioni); la scomparsa della famiglia (al di là del controllo della procreazione). Ma soprattutto un nuovo umanesimo che non può che passare attraverso la soluzione del problema ecologico”. D’Eaubonne e il suo manifesto ecofemminista avevano le idee chiare; un programma per la decrescita, per il rallentamento demografico, per l’arresto massivo del lavoro produttivo (e riproduttivo), per provare a rovesciare il potere a partire dalle donne – perché senza il femminismo rimane solo la morte del pianeta.
Il nostro compito è oggi intessere con questo testo le nostre teorie, pratiche e prospettive radicali, come radicale, potente e immaginifica era la prospettiva di D’Eaubonne, a cui non importava di essere additata come nevrotica, acida, megera, spigolosa, arrabbiata. A cui non importava di entrare in polemica anche con i suoi stessi gruppi militanti. E il carattere spigoloso di D’Eaubonne che emerge tra le righe della sua “epopea delirante”, della sua “grafomania”, come scrive Sara Marchesi nell’introduzione, ci può aiutare a posizionare oggi più che mai la radicalità nella nostra agenda politica a partire dalla giustizia riproduttiva.
Porre la giustizia riproduttiva al centro del discorso politico ecotransfemminista significa lottare contro una riproduzione differenziata del capitalismo patriarcale sulle gerarchie del genere, della razza, della classe, della specie, dell’abilismo. Significa aprire battaglie sulla violenza patriarcale, capitalista, estrattivista, coloniale. Significa riporre al centro il tema dell’autodeterminazione, del reddito, dei servizi, dei corpi, dei desideri, della sessualità. Significa parlare della redistribuzione delle responsabilità sessuali e riproduttive. Significa immaginare pratiche, linguaggi, conflittualità, senza la retorica della catastrofe o della pace. Significa porsi la prospettiva del potere, del futuro, di quali altri mondi vogliamo costruire fuori da questo modello di dominio.
Ecofemminismo significa tutto questo e D’Eaubonne lo aveva capito, anticipato, immaginato a partire da quelli che chiamava mutanti – donne ed emarginati. E allora con l’ecotransfemminismo dobbiamo fare-con sfamiglie, parentele, sistemi non monogami, omogenitorialità, cyborg postumani, soggettività marginali, salamandre, rosmarini – antichi metodi contraccettivi richiamati da D’Eaubonne –, alter(el)azioni, mutanti, cani chiamati Ernesto (con buona pace della ministra), alleanze, polpi, esseri tentacolari… Fare la muta, organizzare la mutazione.