Il corpo osceno delle donne
Pubblichiamo un estratto dal libro di Elisa Cuter Ripartire dal desiderio, ringraziando minimum fax per la disponibilità.
In un contesto in cui bisogna vendersi, abbiamo detto, le donne sembrano decisamente più adatte, proprio perché la Storia le ha sempre abituate a farlo. Inoltre, ci sono anche altri aspetti che rendono il femminile, come concetto creato dalla separazione del lavoro, più adatto alla terziarizzazione e alla rivoluzione digitale. Secondo la prospettiva psicoanalitica, mentre la maschilità implica un’adesione fiduciosa alla propria idea di sé, la femminilità è sempre una messa in scena, una mascherata. La storia dell’Occidente è sempre stata una storia al maschile, che aveva un’idea ben precisa di cosa significasse fare parte del mondo, e conseguentemente essere Uomini. In questo senso la mascolinità tossica era la mascolinità egemone. Si poteva fallire, ovviamente, ma si sapeva bene a cosa era necessario corrispondere per non farlo. Da un punto di vista strettamente culturale (e che cioè mette tra parentesi l’apporto dato dalla popolazione femminile alla dinamica di produzione e riproduzione materiale) l’esclusione delle donne dalle pratiche di civilizzazione ha permesso loro di vivere al di fuori di questa prescrizione simbolica, e quindi di caratterizzarsi in negativo, come altro dall’uomo. Il che non vuol dire che non esistano stereotipi per pensare alla Donna, ma in questo contenitore di tutto quello che l’uomo non doveva essere sono finiti ruoli contrastanti, opposti. Ne parlavamo in riferimento al video di Cynthia Nixon: la santa e la puttana, la madre e la tentatrice, la donna angelicata e la natura selvaggia. Tutte maschere che le donne potevano adottare opportunisticamente a seconda delle circostanze, senza necessariamente crederci.
Questa occasionalità dell’identità è un’esperienza che chiunque può fare su internet, dove si sperimenta un’identità fluida: possiamo crearne una a tavolino, cambiare nome su un forum, commentare anonimamente un post, trollare a volontà, entrare in community diverse, esplorare contesti che nella vita reale non incontreremmo mai, e anche quando siamo su Facebook con nome e cognome spesso ci comportiamo in modo diverso rispetto a come faremmo se avessimo davanti la persona con cui ci stiamo relazionando. Abbiamo a disposizione una serie di contesti molto diversi e orizzonti molto più ampi, che ci permettono di slegarci dai ruoli precostituiti in cui ci identifichiamo quando ci relazioniamo con un contesto familiare. Prendiamo quello che ci accade online come qualcosa che va ad aggiungersi alla nostra vita «fuori». Qualcosa che, pur avendo a che fare con quella, non è esattamente la stessa cosa. Questa relazione curiosa e complessa tra le due realtà rende la nostra esperienza del sé sempre meno totale o conchiusa. La rende porosa, fluida.
Fluidità e porosità sono proprio caratteristiche che tendiamo ad associare al corpo della donna, il corpo abietto per eccellenza di cui parla Barbara Creed in The Monstrous-Feminine, spaventoso proprio perché la sua concavità e i suoi fluidi ricordano brutalmente cosa c’è sotto la superficie ideale, perfetta, convessa, del corpo (maschile) classico. In questo senso la rete ci racconta un’altra storia, quella di un’esperienza sempre più complessa, che ci pone davanti a sfide che per millenni avevamo cercato di controllare, sottomettere o ignorare. Lo dimostra la difficoltà dei mesi di pandemia di fronte a un’esplosione di vulnerabilità dei corpi che non ha precedenti a livello di visibilità. È interessante, o forse ironico, che proprio nel momento dell’apparente vittoria dell’esperienza virtuale, che più di tutte sembra eliminare il corpo dalle interazioni umane, questo corpo ritorni prepotente sulla scena. Ed è un corpo vulnerabile, concavo, mortale, penetrabile e colonizzabile da un virus. Dunque «femminile», persino di fronte a un virus che uccide principalmente individui di sesso maschile. Da dove nasce però questa associazione tra femminilità e corpo abietto? Secondo Laurie Penny sarebbe un ribaltamento operato dal patriarcato, mosso dalla paura e dal senso di inferiorità che il corpo femminile, posta la sua possibilità di generare, instillerebbe atavicamente nel maschio. Ci sarebbe troppa vita, troppa forza, troppa potenzialità generativa nel corpo femminile per non doverlo colonizzare e tacitare. Può darsi che questo aspetto giochi un ruolo. Mi torna in mente una ragazza su un forum che raccontava con grande tenerezza che l’altrettanto illibato ragazzo con cui aveva fatto sesso la prima volta aveva commentato stupito subito dopo: «Ma perché si dice sempre che è “l’uomo che prende la donna”? A me sembra il contrario!». Tuttavia credo che nella storia culturale occidentale la natura sia sì vita e generazione, ma anche e soprattutto morte, distruzione, irrazionalità, di fronte alle quali si è vulnerabili. Per chiunque, indipendentemente dal genere. È la separazione del lavoro capitalistica a connotare il femminile come «più vicino alla natura», ed è l’incapacità di gestire e affrontare tutti quegli aspetti minacciosi della natura, l’impossibilità strutturale di farsene carico, a far coincidere il corpo femminile con l’osceno, ciò che non può essere mostrato se non riducendolo a immagine da consumare.
Un esempio di questo processo si trova nel tema, molto discusso negli ultimi anni, dei paradossi delle pubblicità di prodotti di igiene femminile, modello emblematico della discriminazione di genere: rasoi che scorrono su gambe già perfettamente lisce, sangue mestruale blu e non rosso e così via. Il femminismo pop contemporaneo ha fatto della denuncia di questa rappresentazione sessista una crociata. Il problema è che la sua critica, peraltro condivisibile, sembra avere come premessa la fiducia che una rappresentazione diversa e più veridica basterebbe a risolvere il problema della discriminazione di genere. Ma come è possibile sperare di modificare la nostra percezione dell’osceno e cioè della morte, della vulnerabilità, passando attraverso lo spettacolo, che è appunto la sede dell’immagine?
Come possono le modelle oversize della body positivity con cosce ampie ma piallate da Photoshop rendere giustizia ai corpi non conformi, al senso di repulsione e attrazione, di paura e desiderio che la vulnerabilità dei corpi (di tutti i corpi, quando sono malati, vecchi, quando non funzionano più) ci crea? È davvero possibile e auspicabile «normalizzare» o addirittura glamourizzare attraverso il capitalismo tutto quello che allo stesso tempo ci inquieta perché fa parte dei limiti dell’umano, dell’orizzonte della mortalità con cui l’essere umano si confronta anche nel tentativo di superarlo? E quindi: vorrei vedere più sangue rosso, più peli nelle pubblicità? No, vorrei vedere meno pubblicità. O almeno vorrei meno entusiasmo e commozione per le pubblicità Ikea con coppie omosessuali, vorrei più sdegno per il pink o rainbow washing e più diffidenza verso i brand, vorrei si potesse rimettere in discussione l’idea che la pubblicità implichi inclusione e accettazione simbolica. O forse addirittura vorrei che si potesse considerare con sospetto l’idea stessa dell’inclusione in quello che è un sistema di sfruttamento, al pari della tolleranza, parola terribile come sosteneva giustamente già Pasolini, che implica una sopportazione, la concessione di un diritto a esistere nonostante le riserve conformiste della maggioranza.